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N. 142 - Ottobre 2019 (CLXXIII)

RUBENS E IL CICLO PITTORICO PER MARIA DE MEDICI

TRA ALLEGORIE E POTERE - PARTE II

di Sergio Taddei

 

Il ballet de cour rappresenta la fase suprema della cultura allegorico-politica francese: l’ascesa delle sue fortune non conobbe rivolgimenti sotto i regni di Enrico IV, Maria de Medici e Luigi XIII, fino alla apoteosi che grazie al genio di Jean Baptiste Lully, l’ultimo grande “florentin” del Seicento in Francia, avrebbe eternato Luigi XIV col nome di Re Sole.

 

La partecipazione diretta della famiglia reale e dell’alta aristocrazia in qualità di cantanti, danzatori e oratori, sfavillanti in magnifici travestimenti mitologici, ne faceva un elemento irrinunciabile della liturgia del potere: la presenza o l’assenza dalla scena, l’assegnazione dei ruoli, costituivano indicatori del favore di cui godeva un personaggio a corte.

 

Durante i quattro anni della sua buona stella, il favorito di Luigi XIII Charles d’Albert, duca di Luynes, recitò nei ruoli degli eroi tassiani Rinaldo, nel Ballet de la dèliverance de Renaud del 1617, e Tancredi nel Ballet des Aventures de Tancrède en la Forêt enchantée del 1619: nel 1621 egli danzò poi sotto le spoglie di Apollo nel Ballet d’Apollon, ma la sua apparente apoteosi costituì in realtà un severo monito contro la sua arroganza, dal momento che il libretto specifica come il “faux Dieu” fosse stato a torto preso per l’astro solare, quando l’onore di una identificazione simile non poteva spettare ad altri che al re o alla regina. Dopo tale umiliazione il Luynes sparì dalle scene fino al momento della sua ingloriosa morte.

 

Significativo a questo proposito un dialogo tra Luigi XIII e il duca di Sully che riporta il poeta Malherbe in una lettera a Peiresc. Avendo domandato al Sully delucidazioni riguardo la defezione di un aristocratico dalla partecipazione al balletto, il re accusò con falsa ingenuità il suo interlocutore di voler prendere un balletto come un affare di Stato: il duca gli rispose con ironia di prendere invece gli affari di Stato con la stessa serietà con cui considerava i balletti. Malherbe, il più illustre autore di panegirici e libretti dell’età della reggenza di Maria de Medici, condivideva con Rubens l’amicizia dell’abate Peiresc, destinatario di una delle più considerevoli sezioni dell’epistolario rubensiano.

 

Il poeta collaborò a sua volta col grande Giovan Battista Marino alla stesura degli epitalami per il doppio matrimonio del 1615 e con Renè Bordier, futuro esponente dell’entourage culturale di Richelieu, nella realizzazione del libretto per il Ballet de Madame dello stesso anno, balletto che vide la definitiva consacrazione scenica di Maria de Medici quale traghettatrice della Francia verso una nuova età dell’oro.

 

È dunque prevalentemente da testi di questo che prederà le mosse la seguente analisi testuale dei soggetti allegorici e delle pantomime mitologiche del Ciclo del Lussemburgo: le derivazioni di alcune delle scene in esame da luoghi letterari e scenografie delle opere citate sono tanto stringenti da non lasciare dubbi riguardo alla possibilità di una discendenza diretta.

 

Procedendo in ordine cronologico, ripercorrendo insieme la vita di Maria de Medici e la narrazione rubensiana, si ha l’impressione, gettata la maschera delle più insincere macchinazioni politiche, della commovente grandezza del tentativo apologetico, di una inappagata, monumentale ansia di assoluzione postuma.

 

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Le Parche filano il Destino di Maria.

 

La scena attinge letteralmente, al pari di larga parte dei pannelli allegorici, al lungo panegirico Il Tempio, dato alle stampe da Marino nel 1615 per ringraziare Maria de Medici del suo invito a corte: le sestine in esame sono quelle dalla 98 alla 102. Il dettaglio dell’assenza delle forbici della morte, già notato dal Thuillier, è in Marino e vuole augurare l’immortalità della Regina Madre.

 

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L’Educazione della Regina.

 

Nel cuore di una grotta incantata, Minerva, Orfeo, Mercurio e le Grazie uniscono i loro sforzi per conferire alla giovane Maria una perfetta istruzione: le figure olimpiche costituiscono la personificazione delle arti del governo, della musica, dell’eloquenza e del decoro, prerogative che non dovettero mancare alla principessa fiorentina. La scena traduce in immagini un passo del Dialogo di Guarini, nel quale Minerva sostiene di aver “fatto bella l’anima” di Maria “quasi tempio d’umana virtute”, integrandolo con un verso del Tempio di Marino “t’ammaestrin le Gratie”

 

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Enrico IV riceve il ritratto di Maria de Medici e si lascia disarmare dall’Amore.

 

La scena si presenta in una bipartizione tra l’ambito celeste e quello terreno che ricalca opere del periodo italiano di Rubens quali la pala Gonzaga: su un trono di nuvole compare la coppia regale Giove – Giunone, in terra si svolge una sorta di trasposizione del mito di Venere e Marte “per procura”, in linea del resto col conseguente matrimonio. Enrico IV, come il dio della guerra nelle innumerevoli rappresentazioni rinascimentali del passo di ascendenza lucreziana nel quale Venere riesce con le sue grazie a distogliere il sanguinario nume dai propositi di guerra, è disarmato dagli amorini mentre immerso nella contemplazione del ritratto della sua futura sposa.

 

Minerva esercita la sua benefica influenza assistendo il re col suo saggio consiglio. Il ritratto di Maria è sorretto da putti alati come in una replica profana della Madonna della Vallicella. Giunone e Minerva, le dee che compaiono nella bonaria schermaglia del Dialogo guariniano, collaborano al buon esito di questo amore.

 

Il motivo dell’innamoramento tramite la sola contemplazione è usato frequentemente da panegiristi e librettisti in riferimento a Enrico IV e Maria de Medici: si ricorda un’Ode di Gabriello Chiabrera dell’anno del suo matrimonio.

 

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Il Matrimonio per procura

 

Si citerà nuovamente la lettera di Peiresc nella quale il letterato mostra di accogliere la testimonianza di Rubens di essere stato personalmente presente al matrimonio per procura di Maria de Medici a Firenze. In essa l’abate si felicita col pittore per aver avuto occasione di assistere al mirabile dialogo cantato, scritto da Guarini e musicato da Emilio de Cavalieri, nel quale Minerva e Giunone, dopo un primo bisticcio di precedenze, uniscono le proprie forze nel beneficiare le nozze.

 

Peiresc si rammarica di non aver potuto ammirare “victoria romana”, la quale ritengo con ragionevole certezza identificarsi con la celebre cantante Vittoria Archilei detta la Romanina, interpretare la parte di Minerva: sostiene tuttavia che la figura di Iris inserita da Rubens nella scena gli abbia riportato alla memoria tale dettaglio.

 

Nella stesura definitiva del pannello non c’è traccia di tale figura, sostituita dalla raffigurazione canonica del dio Imeneo, fanciullo con in mano una torcia simbolo della fedeltà coniugale, dunque non c’è dubbio che l’erudito provenzale debba riferirsi a una precedente versione dell’opera.

 

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Lo Sbarco a Marsiglia

 

La scena dello sbarco a Marsiglia, la quale figura in apparenza tra le più innocuamente fastose del Ciclo, nasconde mediante la profusione di elementi mitologici e araldici la memoria di un piccolo incidente diplomatico. L’“aromatico negozio” ci è descritto con gustosa ironia in una lettera di Virginio Orsini. All’entrata del porto della città focese era infatti scaturito un conflitto di precedenza tra i navigli fiorentini e quelli dell’Ordine dei Cavalieri di Malta: è certamente per non evocare il ricordo dell’incidente che Rubens rappresenta in primo piano un cavaliere di Malta, a bordo di una galera che reca però l’insegna delle palle medicee.

 

Tolti questi sottili riferimenti allusivi, la tela traduce puntualmente in immagini i versi del Tempio di Marino, i quali vengono seguiti, come notato già da Puyvelde e Simson, tanto nell’apparato mitologico quanto nella narrazione in generale. Troneggiano ai due estremi della tela “le Palle e i Gigli”, emblemi dei Medici e del Regno di Francia: la Regina è rappresentata in atto di scendere dal ponticello scortata da sua sorella la Duchessa di Mantova e da Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, mentre la attende a braccia aperte la personificazione del regno di San Dionigi.

 

Scorrendo le pagine del Tempio che descrivono allegoricamente l’evento dello sbarco, ci si trova di fronte ad analogie che non possono non lasciar presagire una discendenza diretta dell’invenzione allegorica rubensiana dalle immagini poetiche: la nave solca un mare accogliente, ove gli “Zefiri” spirano tranquilli, “scherzano i popoli squamosi”, e “Nereidi ed altre dee marine (...) cerca honorar la Passeggera illustre (...) tessendo tracce di lascivo ballo”.

 

 

Rubens non tralascia neanche uno di questi dettagli mitologici nella rappresentazione del corteggio marino che popola la sezione inferiore del quadro, enfatizzando anzi la scena arricchendola di particolari espunti dal ballet de cour: corteggi di Sirene e Tritoni fanno bella mostra di sé nel Balet comique de la Reyne come nel Ballet de Madame del 1615, il più sontuoso spettacolo mai realizzato durante gli anni della Reggenza medicea.

 

La stessa componente realistica del dipinto non sembra del tutto scevra da condizionamenti letterari, se si confronta l’opera con le seguenti righe dell’orazione scritta da Filippo Cavriana nell’anno 1600 in occasione della partenza di Maria de Medici per la Francia: “già scorgo il lido di Provenza tutto coperto di gente d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condiziona inginocchiarsi a voi”.

 

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L’incontro del Re e della Regina a Lione

 

Il pannello rappresenta l’apoteosi mitica della coppia reale, prima di ricevere l’apoteosi cristiana del matrimonio in Saint Denis: Enrico IV e Maria de Medici figurano negli abiti del re e della regina degli dei, accompagnati dall’usuale scorta ferina dell’aquila e del pavone. Nella parte sottostante, una figura femminile celebra il suo trionfo su un carro trainato da leoni.

 

È Rubens stesso nella lettera del 29 Ottobre 1626 a rassicurare il dotto Pierre Dupuy sulla identificazione del personaggio con la rappresentazione allegorica di Lione: lo studioso aveva infatti espresso il dubbio che potesse trattarsi della iconografia di Cibele. Il dubbio del filologo era tuttavia assai fondato: Cibele, dea della fecondità, era caratterizzata nella scultura antica dagli attributi della corona turrita e del carro leonino, entrambi fedelmente riprodotti da Rubens.

 

Non è da escludere dunque che l’iconografia della Magna Mater possa aver influenzato Rubens nella invenzione della personificazione di Lione. La raffigurazione di tale dea era in quegli anni assai comune nelle occasioni nuziali tanto in ambiente fiorentino quanto in Francia. Esempio ne è la pantomima recitata a Firenze nel 1608 in occasione di un altro matrimonio mediceo, quello tra Cosimo II de Medici e Maria Maddalena d’Austria: lo spettacolo prevedeva infatti l’entrata contrapposta del Carro di Bellona, trainato da Elefanti, e di quello di Cibele, trainato da Leoni, e doveva concludersi col trionfo di quest’ultima, quale rappresentazione della vittoria della fecondità sulla guerra.

 

Yann Rodier dal canto suo porta l’esempio di una moneta coniata nel 1615 nella quale la Regina Madre veste gli abiti di Cibele ed è colta su un naviglio in atto di domare la tempesta. È inoltre da rimarcare la straordinaria somiglianza della Lione rubensiana con l’incisione di Moyaert ricavata dalla coreografia del carro di Cibele per l’ingresso di Maria de Medici ad Amsterdam nel 1638, e con la Fontana di Cibele realizzata a Madrid nel 1782: la dea appare in entrambi i casi in trionfo su un carro trainato da leoni, dando vita quasi una trasposizione scultorea del modello rubensiano.



 

 

 

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