N. 53 - Maggio 2012
(LXXXIV)
I Rough Riders
Quando la Spagna perse Cuba
di Giovanni De Notaris
Da
tempo
ormai
nell’isola
caraibica
si
susseguivano
soprusi
di
ogni
genere,
come,
ad
esempio,
nei
confronti
della
stampa
locale,
alquanto
critica
verso
le
indicibili
violenze
che
l’esercito
spagnolo
commetteva
nei
confronti
degli
indipendentisti.
Le
prime
avvisaglie
di
ribellione
contro
il
governo
spagnolo
risalivano
al
lontano
1868,
e
inoltre,
già
prima
della
guerra
civile,
negli
Stati
Uniti
si
era
acceso
un
dibattito
relativo
all’acquisto
o
meno
di
Cuba
dalla
Spagna,
per
poter
poi
protendere
gli
interessi,
soprattutto
degli
stati
meridionali,
verso
i
Caraibi.
Nel
1873
poi,
mentre
gli
Stati
Uniti
attraversavano
una
profonda
crisi
economica,
i
disordini
sull’isola
ripresero
con
maggior
forza.
A
Washington
si
dibatté
ancora
se
intervenire
o
meno,
ma
sia
la
negativa
fase
economica,
sia
i
costi
proibitivi
per
gestire
Cuba,
fecero
tramontare
l’idea.
Nel
1895
però,
la
ribellione
era
divenuta
ormai
endemica.
Il
console
americano
sull’isola,
Fitzhugh
Lee,
era
convinto
che
le
vite
dei
suoi
concittadini
fossero
in
pericolo,
e
inviò
così
un
messaggio
di
allerta
a
Charles
D.
Sigsbee,
comandante
della
corazzata
USS
Maine,
ormeggiata
a
largo
di
Key
West,
in
Florida.
Del
fatto
venne
contemporaneamente
informato
anche
il
vice-segretario
alla
Marina
Theodore
Roosevelt,
sempre
più
convinto
che
la
guerra
con
l’avamposto
spagnolo
in
terra
americana
fosse
inevitabile;
al
momento
però
non
riteneva
che
gli
eventi
a
l’Havana
costituissero
effettivamente
una
minaccia
per
la
sicurezza
nazionale.
Cominciò
comunque
a
elaborare
piani
di
invasione
per
un’eventuale
azione
di
guerra,
onde
evitare
il
rischio
di
farsi
trovare
impreparati.
La
Marina
avrebbe
dovuto
tenersi
pronta
a
porre
in
quarantena
sia
Cuba
che
le
Filippine,
altro
possedimento
spagnolo;
lo
squadrone
del
Pacifico,
di
stanza
a
Hong
Kong,
agli
ordini
del
commodoro
George
Dewey,
avrebbe
dovuto
sia
contrastare
la
flotta
spagnola,
ancorata
nel
porto
di
Manila,
sia
pattugliare
le
isole
Hawaii.
Allo
squadrone
dell’Atlantico
fu
invece
ordinato
di
prepararsi
a
eventuali
azioni
contro
Cadice
o
Barcellona;
una
parte
della
flotta,
inoltre,
doveva
dislocarsi
nel
porto
di
Lisbona,
per
meglio
sorvegliare
i
movimenti
delle
navi
spagnole.
Ogni
evenienza
venne
quindi
prevista.
Roosevelt
suggerì,
inoltre,
al
presidente
William
McKinley,
di
inviare
la
Maine
nel
porto
dell’Havana,
per
seguire
da
vicino
l’evolversi
degli
eventi.
Il
presidente
accettò
però
soltanto
dopo
aver
sondato
l’umore
del
ministro
spagnolo
Enrique
Depuy
de
Lôme,
che,
in
apparenza,
sembrava
favorevole.
Cosicché
il
25
gennaio
1898
la
Maine
gettò
l’ancora
nel
porto
dell’Havana,
ufficialmente
in
visita
di
cortesia,
mentre
nello
stesso
tempo,
alcune
navi
dello
squadrone
dell’Atlantico
si
dirigevano
verso
la
Florida,
per
prendere
parte
alle
eventuali
azioni
di
guerra.
A
Washington,
difatti,
si
riteneva
che
la
situazione
potesse
precipitare
da
un
momento
all’altro,
danneggiando
così
gli
interessi
economici
americani
nell’isola.
Da
tempo
infatti,
diverse
compagnie
americane
commerciavano
con
Cuba,
e
avevano
investito
lì i
loro
capitali.
Il
governo
spagnolo
intanto,
preoccupato
anch’esso
dai
movimenti
delle
navi
da
guerra
a
stelle
e
strisce
nel
Pacifico
e
nell’Atlantico,
volle
rassicurare
il
governo
americano
sulla
nascita,
quanto
prima,
di
un
governo
autonomo
cubano;
l’invio
della
Maine
a
Cuba
veniva
però
considerato
alla
stregua
di
una
provocazione.
Provocazione,
in
realtà,
non
solo
nei
confronti
della
Spagna,
ma
anche
verso
gli
altri
stati
europei,
che
consideravano
l’atto
una
palese
violazione
della
sovranità
della
monarchia
spagnola.
Ma
verso
la
metà
di
febbraio,
purtroppo,
quello
che
negli
Stati
Uniti
si
temeva,
accadde.
Nella
serata
del
15
la
Maine
fu
vittima
di
un’esplosione,
e
affondò.
Immediatamente
la
notizia
fece
il
giro
dei
giornali
statunitensi,
giungendo
ovviamente
anche
ai
dipartimenti
di
Stato
e
Marina.
Il
presidente
fu
subito
avvertito.
I
morti
e
feriti,
tra
civili
e
militari,
furono
circa
duecentosessantadue.
Le
autorità
spagnole,
però,
sembravano
stupite
quanto
quelle
americane.
Non
si
riusciva
davvero
a
capire
cosa
fosse
realmente
accaduto.
Il
dipartimento
della
Marina
chiese
immediatamente
un
rapporto
sullo
stato
dei
fatti
al
governatore
cubano
Ramón
Blanco
y
Erenas.
In
un
primo
momento
entrambe
le
parti
convennero
sul
fatto
che
l’esplosione
fosse
stata
prodotta
da
cause
interne.
La
corazzata
infatti
trasportava
polvere
da
sparo,
che
in
seguito
a un
corto
circuito
elettrico,
avrebbe
potuto
esplodere.
Roosevelt
era
invece
convinto
che
fosse
un
vero
e
proprio
atto
di
sabotaggio,
ordinato
dal
governo
spagnolo.
McKinley,
da
parte
sua,
si
augurava
che
cosi
non
fosse,
perché
da
ex
ufficiale
dell’esercito
unionista,
memore
di
quell’orrendo
bagno
di
sangue
che
fu
la
guerra
civile,
avrebbe
voluto
evitarne
un’altra.
Fatalità
quindi,
o
attacco
deliberato?
Gli
stessi
giornali
americani
raccomandavano
cautela.
Roosevelt
intanto,
il
25
febbraio,
inviò
un
cablogramma
al
commodoro
Dewey,
ordinandogli,
in
caso
di
guerra,
di
impedire
che
le
navi
spagnole
lasciassero
la
costa
asiatica,
tenendosi
inoltre
pronto
a
eventuali
azioni
di
guerra
nelle
Filippine.
Contemporaneamente
fu
allertato
anche
lo
squadrone
dell’Atlantico.
La
macchina
bellica
a
stelle
e
strisce
cominciava
quindi
a
muoversi
per
la
prima
guerra
internazionale
che
gli
Stati
Uniti
si
preparavano
a
combattere.
Cominciarono
allora
le
richieste
di
arruolamento
di
volontari,
da
integrare
nelle
file
della
Marina.
Il
segretario
alla
Marina,
John
D.
Long,
temporeggiava
però,
ritenendo
più
opportuno
attendere
ulteriori
indagini,
prima
di
trascinare
il
paese
in
guerra.
McKinley
stesso
voleva
a
tutti
i
costi
evitare
il
conflitto.
Pensò
addirittura
di
acquistare
l’intera
isola
dalla
Spagna
per
trecento
milioni
di
dollari,
ma
il
Congresso
negò
l’autorizzazione.
Suggerì
allora
che
se
la
Spagna
fosse
stata
ritenuta
colpevole
dell’attentato,
avrebbe
dovuto
risarcire
gli
Stati
Uniti
per
la
perdita
di
mezzi
e
vite
umane;
ma
di
nuovo
il
Congresso
oppose
un
rifiuto.
La
guerra,
insomma,
sembrava
davvero
inevitabile.
Agli
inizi
di
marzo
infatti,
il
rapporto
richiesto
dal
governo
americano
dedusse
che
la
causa
dell’esplosione
fosse
stata
una
mina
di
profondità.
A
questo
punto
il
Congresso
autorizzò
una
spesa
di
cinquanta
milioni
di
dollari
per
implementare
la
flotta.
Nel
paese,
ormai,
si
respirava
aria
di
guerra.
A
metà
marzo
poi,
fece
ritorno
in
patria,
da
Cuba,
il
senatore
Redfield
Proctor,
che
riferì
in
senato
delle
torture
nei
confronti
dei
ribelli
cubani,
da
parte
delle
truppe
spagnole;
riteneva
che
mai
la
Spagna
avrebbe
concesso
l’indipendenza
al
popolo
cubano,
e
che
quindi
la
guerriglia
non
sarebbe
mai
cessata.
Verso
la
fine
di
marzo,
McKinley
fu
ufficiosamente
informato
che
la
commissione
d’inchiesta,
varata
dal
Congresso
per
valutare
l’affondamento
della
corazzata,
avrebbe
rilasciato
un
parere
favorevole
alla
teoria
del
sabotaggio.
Il
25
marzo
allora,
l’ambasciatore
americano
a
Madrid
avvertì
il
governo
spagnolo
che,
da
parte
del
suo
paese,
la
presenza
della
Spagna
a
Cuba
era
sgradita.
Il
28
marzo
il
rapporto
della
commissione
era
ormai
pronto:
sebbene
non
riconoscesse
colpe
dirette
da
parte
della
Spagna
o
dei
cubani,
concludeva
che
l’esplosione
era
stata
provocata
da
una
causa
esterna,
assolvendo
quindi
la
Marina
statunitense
da
accuse
di
negligenza.
Mentre
il
Congresso
discuteva
riguardo
al
rapporto
sulla
Maine,
il
presidente
chiese
a al
governo
spagnolo
di
firmare
un
armistizio
con
i
ribelli
cubani;
in
caso
contrario
egli
avrebbe
agito
da
arbitro.
I
ribelli
rinchiusi
nei
campi
di
concentramento
dovevano
essere
liberati,
senza
condizioni.
In
realtà
McKinley
avrebbe
anche
potuto
evitare
l’intervento,
appoggiando
i
ribelli,
ma
capì
che
essi
erano
troppo
imprevedibili,
e
una
loro
ascesa
al
potere
avrebbe
reso
comunque
ingestibile,
da
parte
del
suo
paese,
i
rapporti
economici
con
l’isola.
La
Spagna
inoltre,
dal
canto
suo,
non
intendeva
concludere
secoli
di
dominio
sull’isola
in
maniera
indegna,
firmando
un
armistizio
con
dei
guerrilleros.
A
McKinley,
quindi,
non
restò
altro
da
fare
se
non
cominciare
a
lavorare
alla
dichiarazione
di
guerra.
Roosevelt
rassicurò
l’opinione
pubblica
sul
fatto
che
non
vi
era
intenzione
alcuna
di
annettere
Cuba,
ma
soltanto
di
assicurare
la
sua
indipendenza
da
un
regime
brutale.
Una
parte
del
governo
spagnolo,
intanto,
pensava
di
riconsiderare
l’idea
del
compromesso;
ma i
tamburi
di
guerra
stavano
già
rullando.
Il
tempo
per
la
pace
era
ormai
scaduto.
L’11
aprile
il
presidente
inviò
al
Congresso
la
richiesta
di
dichiarare
guerra
alla
Spagna.
Il
paese
europeo
non
era
ormai
più
ritenuto
un
interlocutore
credibile.
A
quel
punto
a
Roosevelt
non
restò
altro
da
fare
se
non
disporre
le
operazioni
navali.
All’epoca
la
flotta
spagnola
era
quantitativamente
superiore
a
quella
a
stelle
e
strisce.
Quella
statunitense
però,
era
più
veloce,
dotata
di
armi
più
moderne,
e
meglio
dislocata
sui
mari.
Il
19
aprile
1898
il
Congresso
emanò
una
risoluzione
per
l’indipendenza
di
Cuba,
e il
giorno
seguente
il
presidente
la
controfirmò.
Dopo
un
paio
di
giorni
le
navi
dello
squadrone
del
nord
Atlantico
si
dislocarono
nei
Caraibi.
Il
presidente
aprì
allora
al
reclutamento
di
volontari,
che
sarebbero
stati
inquadrati
nell’esercito
regolare,
oltre
a
tre
reggimenti
–sempre
volontari-
composti
da
frontiersmen,
con
particolari
doti
di
cavallerizzi
e
tiratori
scelti.
Il
comando
del
primo
di
questi
reggimenti
cadde
proprio
sul
vice-segretario
Roosevelt.
Costui,
che
era
già
stato
per
tre
anni
capitano
nella
guardia
nazionale
dello
stato
di
New
York,
oltre
a
aver
vissuto
per
un
certo
periodo
nelle
terre
dell’ovest,
decise
che
avrebbe
partecipato
alle
operazioni
militari,
ma
non
come
colonnello
comandante
del
reggimento,
bensì
come
tenente
colonnello
agli
ordini
del
più
esperto
colonnello
Leonard
Wood,
chirurgo
dell’esercito,
nonché
suo
amico.
Roosevelt
riteneva
infatti
che
guidare
un
reggimento
in
guerra
fosse
cosa
più
ardua
che
esercitarsi
nella
guardia
nazionale.
Wood,
invece,
aveva
partecipato
alle
campagne
militari
contro
gli
indiani
Apache,
al
comando
di
truppe
dell’esercito
regolare.
Il
24
aprile
la
Spagna
dichiarò
guerra
agli
Stati
Uniti.
Il
25
il
Congresso
rispose
con
la
propria
dichiarazione
di
aperta
ostilità.
Roosevelt
era,
intanto,
impegnato,
con
il
colonnello
Wood,
a
equipaggiare
e
addestrare
il
primo
reggimento.
I
giornali
americani,
venuti
a
conoscenza
della
sua
partecipazione
alla
guerra,
fecero
a
gara
per
inventare
un
nome
per
il
reggimento.
Quello
che,
più
di
tutti,
colpi
l’immaginario
popolare,
e
gli
stessi
interessati,
fu:
“the
Roosevelt’s
Rough
Riders.”
Il
10
maggio
Roosevelt
si
dimise
dal
suo
incarico
al
dipartimento
della
Marina.
Il
12
maggio
il
gruppo
iniziò
l’addestramento
nella
città
di
San
Antonio
in
Texas,
mentre
nel
teatro
delle
operazioni
del
Pacifico,
la
flotta
spagnola
era
già
stata
completamente
annientata,
nel
porto
di
Manila,
dal
commodoro
Dewey.
I
componenti
dei
Rough
Riders
furono
scelti
da
Roosevelt
tra
ex
giocatori
di
football
delle
squadre
di
famose
università,
come
Yale
o
Princeton,
oltre
che
tra
esperti
cacciatori
e
cercatori
di
piste.
C’erano
anche
degli
indiani
Cherokee
e
Chickasaw.
Il
quartier
generale,
nonché
luogo
di
addestramento,
fu
denominato
camp
Wood.
La
giornata
iniziava
alle
cinque
e
trenta
del
mattino;
ci
si
addestrava
poi
sulle
aride
e
ventose
pianure
del
Texas.
Roosevelt
stesso
si
sottopose
all’addestramento
come
gli
altri.
Alla
fine
del
mese
di
maggio
i
Rough
Riders
erano
ormai
forgiati
come
un
reggimento
di
cavalleria
in
piena
regola.
Il
gruppo
fu
subito
dislocato
a
Tampa,
in
Florida,
per
essere
poi
pronto
a
partire,
in
qualunque
momento,
per
il
teatro
delle
operazioni.
A
Tampa
giunsero
poi
altre
truppe,
agli
inizi
di
giugno;
a
ognuno
veniva
assegnato
il
luogo
di
sbarco.
Si
arrivò
a
circa
diciassettemila
uomini.
McKinley,
da
parte
sua,
premeva
per
una
rapida
partenza
per
Cuba,
perché
l’ammiraglio
William
T.
Sampson
faticava
a
tenere
in
quarantena
la
flotta
spagnola
nel
porto
di
Santiago,
e
richiedeva
altri
uomini
per
conquistare
la
città,
e
mettere
fuori
uso
la
flotta
stessa.
I
Rough
Riders
furono
dunque
imbarcati
sulla
nave
Yucatán,
insieme
al
2°
fanteria
e al
71°
volontari
di
New
York,
oltre
a un
seguito
di
reporters
e
fotografi,
che
dovevano
documentare
le
azioni
di
guerra.
Il
20
giugno,
il
generale
William
R.
Shafter
salì
a
bordo
della
nave
Segurança,
per
incontrare
l’ammiraglio
Sampson
e il
generale
Calixto
Garcia,
capo
dei
ribelli.
I
tre
gestirono
la
campagna
per
la
conquista
di
Santiago.
Lo
sbarco
sarebbe
avvenuto,
il
giorno
successivo,
nel
villaggio
di
Daiquirí,
a
est
di
Santiago.
All’alba
la
Marina
avrebbe
bombardato
il
villaggio
per
confondere
gli
spagnoli,
mentre
Shafter
avrebbe
dovuto
conquistare
il
porto
di
Siboney,
a
ovest
di
Daiquirí,
per
poi
dirigersi,
tramite
la
strada
nota
come
Camino
Real,
a
nord,
verso
l’altopiano
di
San
Juan,
ultima
protezione
per
la
città
di
Santiago.
Questa
era
la
parte
più
difficile
della
spedizione
per
l’alta
concentrazione
di
truppe
nemiche.
Il
mattino
del
22
giugno,
i
Rough
Riders
erano
sbarcati
dalla
Yucatán
e
cominciavano
a
dirigersi
verso
Daiquirí,
che
trovarono
deserta
e in
preda
al
fuoco.
Gli
spagnoli
infatti,
non
volevano
lasciare
le
acciaierie
della
zona
intatte
nelle
mani
degli
yanquis.
In
lontananza,
intanto,
si
udivano
i
bombardamenti
su
Siboney.
Verso
il
tramonto
ben
seimila
truppe
erano
sbarcate
sul
suolo
cubano.
Daiquirí
fu
infine
conquistata
dagli
insorti.
Ai
Rough
Riders,
inquadrati
nelle
due
divisioni
di
cavalleria,
guidate
dal
brigadier
generale
Sam
B.
M.
Young,
fu
ordinato
di
marciare
verso
Siboney,
per
incontrarsi
con
il
maggior
generale
Joseph
Wheeler,
comandante
della
divisione
di
cavalleria.
Da
lì,
il
24
giugno,
attraversarono
una
pista
che,
correndo
parallela
al
Camino
Real,
si
avvicinava
all’altopiano
di
San
Juan,
attraverso
la
giungla
di
Las
Guásimas,
per
giungere
poi
al
passo
controllato
dagli
spagnoli.
Mentre
attraversavano
la
giungla
furono
improvvisamente
inondati
dal
fuoco
di
fila
dei
cecchini
spagnoli.
Una
decina
circa
vennero
uccisi,
trentaquattro
furono
i
feriti.
Contemporaneamente,
le
truppe
del
brigadier
generale
Young
procedevano
attraversando
proprio
Camino
Real.
Giunti
nei
pressi
dell’accampamento
spagnolo,
intanto,
Wood
ordinò
a
Roosevelt
di
guidare
tre
truppe
a
destra,
mentre
altrettante
ne
procedevano
a
sinistra,
per
accerchiare
i
cecchini.
Le
truppe
di
Roosevelt
aprirono
il
fuoco
in
rapida
sequenza,
dato
che
non
riuscivano
a
scorgere
i
cecchini,
coperti
dalla
folta
vegetazione.
Nello
stesso
momento
le
truppe
del
generale
Young
attaccavano
frontalmente.
Ben
novecento
uomini
irruppero
sparando
nella
valle
antecedente
l’altopiano,
aiutati
dal
fuoco
di
copertura
delle
mitragliatrici
Hotchkiss,
costringendo
così
gli
spagnoli
al
ritiro,
e
concludendo
la
battaglia
poco
dopo
le
nove
di
sera.
I
Rough
Riders
si
accamparono
verso
il
crinale
occidentale
di
Las
Guásimas,
per
alcuni
giorni.
La
prossima
tappa
era
ovviamente
Santiago.
Il
5°
corpo
d’armata
cominciò
immediatamente
la
marcia
verso
la
città.
Circa
ottomila
truppe
nemiche,
infatti,
si
erano
dislocate
in
sua
difesa.
Le
truppe
americane
cominciarono
quindi
a
disporsi
ai
lati
dell’altopiano
di
San
Juan.
La
battaglia
era
prevista
per
il
giorno
dopo.
Il
1°
fanteria
del
brigadier
generale
J.
F.
Kent,
e la
divisione
di
cavalleria
di
Wheeler
avrebbero
dovuto
espugnare
la
collina
di
San
Juan
da
due
lati.
Wheeler
e
Young
furono
però,
improvvisamente,
colti
dalla
febbre
malarica,
cosicché
il
comando
della
divisione
di
cavalleria
passò
nelle
mani
del
brigadier
generale
Samuel
S.
Sumner,
mentre
il
comandante
dei
Rough
Riders,
Wood,
avrebbe
guidato
la
seconda
brigata
di
Young.
Nelle
prime
ore
del
mattino,
inoltre,
un
forte
temporale
tropicale
interessò
la
zona
delle
operazioni;
fango
e
pioggia
contribuirono
a
complicare
ancor
di
più
la
marcia.
Giunte
nella
serata
del
30
giugno
al
villaggio
di
El
Pozo,
le
truppe
accampate
si
poterono
così
avvicinare
alla
collina
di
San
Juan,
e al
fiume
omonimo.
Il
1°
luglio
del
1898
cominciò
la
battaglia
finale.
Verso
le
sei
del
mattino
si
udirono
le
prime
detonazioni
dalle
batterie
del
generale
Henry
W.
Lawton
verso
il
villaggio
di
El
Caney,
situato
alcune
miglia
a
destra
di
Santiago.
Gli
spagnoli
intanto
attaccavano
El
Pozo
con
un
pesante
fuoco
di
artiglieria.
Roosevelt
ordinò
ai
suoi
di
ritirarsi
nella
giungla,
dove
rischiarono
di
perdere
l’orientamento.
Dopo
che,
nel
tardo
pomeriggio,
le
cannonate
erano
cessate,
il
generale
Sumner
ordinò
alla
divisione
di
cavalleria
di
procedere
verso
San
Juan.
I
Rough
Riders
si
dislocarono
sul
lato
destro
della
colline,
nei
pressi
della
Kettle
hill.
La
prima
brigata
di
fanteria
del
generale
Kent
si
avvicinò
da
sinistra
al
torrente
di
San
Juan.
Le
truppe
americane
furono
a
quel
punto
inondate
da
migliaia
di
proiettili,
sparati
dai
cecchini.
Dovettero
quindi
ripiegare.
Nonostante
i
colpi
gli
fischiassero
intorno,
Roosevelt
rimaneva
a
cavallo
per
dare
coraggio
ai
soldati.
Le
truppe
americane,
però,
non
riuscivano
a
coordinarsi
per
sferrare
l’attacco
decisivo.
Roosevelt
inviò
allora
dei
messaggi
al
generale
Sumner,
chiedendo
il
permesso
di
attaccare
il
suo
lato
della
collina;
a
differenza
della
battaglia
di
Las
Guásimas
infatti,
qui
i
cecchini
erano
perfettamente
visibili.
E
l’ordine
finalmente
arrivò.
Gli
eventi
si
susseguirono
rapidamente.
Le
mitragliatrici
Gatling
martellavano
il
fortino
spagnolo
sulla
collina,
mentre
la
fanteria
cominciava
la
carica
sulla
sinistra.
Roosevelt
era
cosi
preso
dagli
eventi
che
partì
in
quarta,
guidando
la
carica,
seguito
però
soltanto
da
cinque
compagni;
si
era
praticamente
dimenticato
di
dare
ordini
alle
truppe.
Ordinò
allora
ai
soldati
di
aprire
il
fuoco
verso
le
trincee.
Gli
uomini
si
disposero
quindi
in
semicerchio,
sulla
destra
del
fortino.
La
prima
brigata
si
spostò
anch’essa
dalla
sinistra
alla
destra
del
fortino,
mentre
la
seconda
brigata,
con
i
Rough
Riders,
si
dispose
alla
destra
della
prima.
Secondo
le
stime
i
morti
americani
andavano
dai
seicento
ai
mille;
ottantanove
soltanto
tra
i
Rough
Riders.
Fu
così
che
la
collina
di
San
Juan
venne
espugnata,
spianando
così
la
strada
per
Santiago.
Questo
almeno
in
teoria.
In
realtà,
quando
si
passò
all’assedio
di
Santiago,
le
truppe
americane,
piuttosto
indebolite,
arrancavano,
avendo
difficoltà
nell’ottenere
rifornimenti
e
aiuti
per
i
feriti,
e i
malati
di
febbre
malarica
e
dissenteria,
in
quanto
Camino
Real
era
ancora
difficilmente
percorribile.
Ma
se
le
truppe
di
terra
stentavano
a
espugnare
la
città,
la
vera
svolta
all’assedio
venne
dal
mare.
Nel
pomeriggio
del
3
luglio
infatti,
l’ammiraglio
Sampson
annientò
la
flotta
nemica
nel
porto
della
città,
mentre
tentava
di
forzare
la
quarantena.
A
quel
punto
gli
spagnoli
furono
costretti
a
capitolare,
e
così
la
settimana
seguente
fu,
finalmente,
dedicata
ai
negoziati
di
pace.
Il
18
luglio
Roosevelt
venne
promosso
a
colonnello,
e il
20
gli
fu
affidato
il
comando
della
seconda
brigata.
L’8
agosto
i
Rough
Riders
salparono
dal
porto
di
Santiago
per
fare
finalmente
ritorno
in
patria,
a
Montauk
Point,
nello
stato
di
New
York.
Il
colonnello
Wood,
invece,
restò
sull’isola
come
governatore
militare,
coadiuvato
da
quegli
indipendentisti
che
egli
riteneva
più
affidabili
dei
semplici
guerrilleros.
Con
questa
guerra
Roosevelt
si
sarebbe
guadagnato
la
nomea
di
eroe
nazionale,
oltre
a
diventare
governatore
dello
stato
di
New
York,
nonché
uno
dei
presidenti
più
amati
della
storia
americana.
La
battaglia
di
San
Juan
ebbe,
inoltre,
una
tale
risonanza
negli
Stati
Uniti,
da
colpire
fortemente
l’immaginario
popolare,
anche
nel
secolo
seguente.
Elmore
Leonard,
ad
esempio,
uno
tra
i
più
prolifici
e
famosi
scrittori
americani
contemporanei,
ha
raccontato
la
società
cubana,
a
cavallo
di
quegli
eventi,
nel
suo
celebre
romanzo
storico
Cuba
Libre.
Tornando
infine
alle
condizioni
di
pace,
esse
vennero
siglate
nel
dicembre
del
1898
a
Parigi:
Cuba
fu
trasformata
in
un
protettorato
americano;
agli
Stati
Uniti
andava
una
base
navale
nella
baia
di
Guantanamo;
oltre
a
riservarsi
il
diritto
di
intervenire,
in
qualunque
momento,
per
preservare
l’indipendenza
dell’isola.
Gli
Stati
Uniti
guadagnavano
inoltre:
l’isola
di
Guam
nel
Pacifico;
le
Filippine,
soggette
a
un’occupazione
militare;
e
l’isola
di
Puerto
Rico
nei
Caraibi.
Con
la
“splendida
piccola
guerra”
poi,
sarebbero
assurti
al
ruolo
di
potenza
globale.
Riferimenti
bibliografici:
Morris
Edmund,
The
rise
of
Theodore
Roosevelt,
Modern
Library,
New
York,
2001.