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N. 44 - Agosto 2011 (LXXV)

Libertà e giustizia sociale
Carlo Rosselli a confronto col Marxismo

di Giovanni Piglialarmi & Roberto Rota

 

Il primo liberalismo ha da attuarsi all’interno.
Le tesi sono tredici.
Il tredici porta fortuna.
Chi vivrà, vedrà.

(Carlo Rosselli)

 

“Socialismo Liberale” è forse uno dei testi più critici nel campo del revisionismo ideologico, se non il manifesto di una corrente intellettuale che certamente nel tempo non si è piegata alla cieca dottrina del marxismo rivoluzionario. Anzi.

 

Carlo Rosselli, fondatore del movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, nel 1930 pubblica questa sua autorevole opera nel tentativo di rimettere in riga ciò che il catastrofismo e la temuta rivoluzione proletaria aveva compromesso e disperso per strada.

 

Se le tesi di Aprile di Lenin servirono al partito bolscevico per attuare la rivoluzione, le tesi di Rosselli sono servite nel tempo a mantenere un’innegabile attualità culturale e politica. Una di queste tesi funse proprio da monito per i socialisti che ebbero la pretesa di fondare la loro ideologia solo su Karl Marx.

 

Rosselli va ben oltre il mito del Marx che sbeffeggia i borghesi, va ben oltre il determinismo marxiano, va ben oltre una religione di partito, va ben oltre ciò che fu azzardatamene definito marxismo scientifico.

 

Nicola Tranfaglia, in una sua analisi, afferma che dalla lettura del testo di Rosselli si possono estrapolare altre due tesi: dopo aver “salutato i compagni revisionisti” come Labriola, Sorel, Bernstain e altri che li seguirono, l’autore procede verso una condanna spietata del comunismo stalinista e riconosce quella che lui definisce “l’ esigenza liberale del socialismo”.

 

Riconosce che Trotsky, opponendosi durante il suo esilio in Turchia alla dittatura di Stalin, non fa altro che rivendicare una libera autonomia, un’immortale vitalità, tipica della coscienza borghese.

 

Ma questa aperta condanna al comunismo sovietico non induce l’economista a formulare modelli di democrazia che rischiano di essere assaliti dalla speculazione filosofica, rischiando di sfociare sul terreno dell’utopia. Semplicemente, afferma che “Democrazia ‘reale’ non significa solo autonomia politica ma anche e soprattutto autonomia e libertà economica. Una vera democrazia non esiste dove sussistono profonde disparità economiche. Il criterio della maggioranza, della sovranità popolare, che in sé è sacrosanto, acquista un valore puramente ‘morale’ quando allo stesso tempo una minoranza detiene nelle sue mani gli strumenti effettivi del potere, cioè i mezzi di produzione e di scambio”.

 

In questo modo, Rosselli si mostra il vero politico che, uscito dal catastrofismo marxista e dall’ideologia assoluta, guarda già da allora alla Democrazia Contemporanea, conservando sempre una chiave di lettura tipica del socialismo: le differenze economiche danneggiano la democrazia. Rosselli, partendo dalla convinzione che era la stessa morale, la stessa filosofia, la stessa concezione politica di Marx a non soddisfare totalmente un socialista spingendolo così per nuove strade, verso più ampi orizzonti, annota dei profondi cambiamenti sia nel socialismo che nel liberalismo. In questo caso l’autore anticipa di molti anni ciò che sarà affermato anni dopo: non è più il popolo il protagonista della democrazia ma il singolo, il solo individuo che interagisce attraverso l’azione sociale, con le sue forze messe in atto all’interno della società per raggiungere “legalmente” ciò che gli spetta di diritto.

Lo “stato – partito” viene stravolto dal potere del singolo, dallo stato di diritto. Rosselli apre la sua riflessione con una domanda fondamentale: il liberalismo si va spogliando dei principi della scuola manchesteriana e si dedica a problemi di politica sociale; il socialismo si va spogliando in modo faticoso del suo utopismo per porsi dei problemi riguardo la libertà, l’autonomia; allora - la domanda - è il liberalismo che si fa socialista o è il socialismo che si fa liberale?

 

Per dare questa risposta, Rosselli inizia a ricostruire il pensiero di Marx. Il filosofo non si è mai preoccupato, come sottolinea l’autore, della psicologia individuale o collettiva all’interno della società. Ma semplicemente gli interessava il mutamento delle forze sociali che dopo periodi di staticità si trasformavano di colpo. Marx avrebbe risposto che tale trasformazione era dovuta ai mezzi di produzione. Sono i mezzi di produzione nelle mani dei borghesi che decidono le sorti del proletariato durante la rivoluzione industriale. Dunque la storia cambia e assume il suo valore ogni volta che mutano i mezzi di produzione. Rosselli nota, inoltre, che all’interno del Manifesto del Partito Comunista c’è assenza di retorica e di proteste; si stupisce nel vedere che Labriola lo definisce “pura scienza”. L’economista invece, sulla falsa riga di Weil, sta ben attento a riconoscere quella religione mascherata da scienza: sostiene che le “lacrime delle cose si sono trasformate per se stesse in forza rivendicatrice spontanea.”

 

Ma qui sorge un dubbio. Marx ha sempre dettato delle linee guida ai partiti socialisti, su come attuare la rivoluzione e come accelerare il processo di trasformazione del capitalismo e l’avvento della società comunista, come se in tale processo l’azione dell’uomo contasse poco dinanzi alle grandi trasformazioni socio-economiche.

 

Ma, allora, come si spiega che l’uomo dipinto da Marx, essendo puramente passivo al processo storico (teleologico), riesca ad accelerare se non a governare le dinamiche dominanti dell’economia capitalista?

 

Marx, inconsciamente, si limita ad affermare che la dialettica e la lotta di classe sono condizioni “necessarie”. Dinanzi a questo imbarazzo teorico, Rosselli afferma che “lo stimolo fondamentale del processo rivoluzionario, anche nella sua drammatica fase, non sta davvero nella propaganda e nel progressivo schiarirsi della coscienza proletaria, ma nel drammatico cozzo degli elementi contraddittori che il capitalismo rinserra.”

 

Secondo l’economista, è questo accentuato catastrofismo, presente nell’Inghilterra dell’Ottocento, che dà la possibilità a Marx di fare le sue premesse. Quale attività, allora, svolge il propagandismo marxista?

 

La propaganda comunista rappresenta l’ufficio che comanda, dirige il processo di accelerazione se non il coronamento di un processo di adesione alla caduta del capitalismo stesso. Dunque l’elemento della volontà nella teoria del filosofo tedesco è limitatissimo.

 

Ed è questa visione che porta Rosselli ad accusare e anche a sospettare di “invalidità” la rivoluzione russa, che è stata una delle più importanti manifestazioni dell’ideologia comunista. Sostiene che dall’esperienza russa, sgorga una grande lezione che nessuno potrà contestare.

 

Una rivoluzione violenta e uno sconvolgimento improvviso del sistema produttivo, se da una parte consente apparentemente di edificare ex novo il sistema intero, porta con sé come conseguenza una grande e tremenda crisi, più dannosa quanto più è sviluppato il sistema finanziario e industriale che impone sacrifici e sofferenze alla generazione rivoluzionaria. Essendo il paradiso vietato a questa generazione, Rosselli si chiede: “Il proletariato russo è andato incontro al sacrificio coscientemente?

 

Quando gli operai conquistavano le officine sapevano cosa li attendeva? Per rispondere si, bisogna ammettere che la classe operaia russa fosse dotata di una sublime forza morale, di una eroica volontà d’immolazione.” Carlo Rosselli, in queste semplici righe tratte dalla sua opera, fa capire che l’esperienza russa è servita da monito a quell’area propagandista del marxismo che inneggiava la propaganda e attendeva alle porte la rivoluzione: non servirà più convincere la massa che la rivoluzione è vicina; non basterà più promettere al proletariato una semplice venuta del “socialismo reale”; bisognerà allora essere onesti come il Garibaldi che parla al suo esercito innanzi Aspromonte: “ io, in questa missione, vi prometto fame dolore e morte!”.

 

L’economista chiude il suo saggio con un ennesimo invito a dare un certo indirizzo culturale al socialismo: suggerisce di guardarsi ben dal dare una “filosofia” al socialismo. E questo perché si potranno creare tante filosofie quante sono le correnti, isolando così il movimento politico stesso, creando una separazione tra il “moto” e la teoria. Bisognerà sempre equilibrare le componenti pratiche e teoriche, collegare, come per il singolo è comprensibile, pensiero e azione. Rosselli è chiaro: “ Una vera filosofia, appunto perché filosofia, potrà sempre giustificare, secondo i casi, e la conservazione e la rivoluzione e la restaurazione. Il caso di Hegel prova per tutti”.

 

Già, alla fine del suo saggio, nota che il socialismo contemporaneo ha preso una strada diversa dal cieco internazionalismo: si può parlare allora di socialismo mondiale?

 

Sicuramente, ma con cause diverse che mobilitano le diverse collettività internazionali.

 

Riconosce che di stampo marxista è rimasto solo il socialismo austro-germanico anche se corretto dall’eresia del movimento giovanile; analogamente, già nel 1920 nota degli sviluppi diversi nel socialismo francese.

 

Questo diverso sviluppo è stato portato, secondo l’economista, anche dalla guerra: le masse hanno messo nella loro “ricetta d’odio” anche il concetto di patria che invece era espressione di unità, di storia e di destino…

 

Il socialismo doveva giocare queste carte perché se da un verso tentava di superare il nazionalismo, dall’altro dava la possibilità alle forze politiche opposte di costruire la loro fortuna sullo sfruttamento del mito nazionale.

 

Dunque, il socialismo doveva essere nazionale. Rosselli, messo sotto accusa da carabinieri dottrinali, riesce a stendere il suo manifesto, il manifesto del Socialismo Liberale:
I. Il Socialismo è in primo luogo rivoluzione morale e in secondo luogo trasformazione materiale;

II. Come tale, si attua sin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza aspettare il sole dell’avvenire;

III. Tra socialismo e marxismo non v’è parentela necessaria;

IV. La filosofia eretica-marxista minaccia la marcia del socialismo;

V. Il Socialismo senza democrazia significa fatalmente dittatura e dittatura significa uomini servi, numeri e non coscienze, prodotti e non produttori e significa negare i fini primi del socialismo;

VI. Il Socialismo, in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera, oppressa, è l’erede del liberalismo;

VII. La libertà, presupposto della vita morale del singolo e della collettività, è il più efficace mezzo e l’ultimo fine del socialismo;

VIII. La socializzazione è un mezzo, sia pure importantissimo;

IX. Lo spauracchio della rivoluzione sociale violenta, spaventa ormai solo i passerotti e gli esercenti e mena acqua al mulino reazionario;

X. Il socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nel sindacato, nella cultura;

XI. Ha bisogno di idee poche e chiare, di gente nuova, di amore per i problemi concreti;

XII. Il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo da piedi a capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro;

XIII. È assurdo imporre a così gigantesco moto di masse un’unica filosofia, un unico schema, una sola divisa intellettuale.



 

 

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