N. 111 - Marzo 2017
(CXLII)
A
PROPOSITO
DI
ROSARIO
NICOLETTI
UN
MISTERO
MAI
CHIARITO
di
Gaetano
Cellura
Il
giornalista
Antonio
Padellaro
ci
ricorda
(Il
fatto
quotidiano,
8
febbraio
2015)
che
Rosario
Nicoletti
faceva
parte
dei
magnifici
quattro
della
giovane
covata
democristiana.
Insieme
al
presidente
della
regione
Sicilia
Pier
Santi
Mattarella,
al
deputato
e
ministro
Calogero
Mannino
e a
Rino
Nicolosi,
anche
lui
presidente
della
regione
dal
1985
al
1991.
Tutti
della
sinistra
democristiana.
Padellaro
incontrava
Nicoletti
tutte
le
volte
che
il
Corriere
della
Sera
lo
inviava
in
Sicilia.
E lo
ricorda
per
come
era
in
effetti,
soprattutto
dopo
l’omicidio
del
prefetto
Carlo
Alberto
Dalla
Chiesa
(3
settembre
1982).
Il
segretario
regionale
della
Dc
siciliana
gli
dava
la
stessa
impressione
di
quei
preti
che
hanno
perso
la
fede
ma
continuano
a
dir
messa:
un
uomo
in
piena
“precarietà
spirituale”,
mai
sorridente,
che
gli
parlava
degli
intrighi
e
dei
veleni
da
cui
si
sentiva
tormentato.
Proprio
come
don
Manuel
Bueno
mártir,
il
prete
dell’omonimo
romanzo
di
Unamuno,
che
non
credeva
più
nella
Resurrezione
ma
continuava
ad
annunciarla
per
il
bene
dei
fedeli.
Leonardo
Sciascia
dice
di
lui
le
stesse
cose
che
Pasolini
diceva
di
Moro:
“il
meno
implicato
di
tutti”.
Lo
conobbe
e
diventarono
amici
durante
il
sequestro
del
leader
democristiano.
Tutti
e
due
convinti
che
dalla
“prigione
del
popolo”
non
sarebbe
uscito
vivo.
E da
democristiano,
il
segretario
ne
soffriva.
“Più
di
me –
scrive
Sciascia
–
drammaticamente
si
dibatteva
nel
problema”.
Rosario
Nicoletti
è
stato
deputato
regionale
per
cinque
legislature,
fino
al
1984,
anno
della
morte.
Avvocato
e
Consigliere
della
Corte
dei
Conti,
sindaco
di
Lascari
dal
1962,
aveva
iniziato
la
carriera
nel
movimento
giovanile
democristiano.
Nella
sua
lunga
attività
politica,
non
restò
certo
con
le
mani
in
mano.
Si
occupò
di
questioni
di
diritto
relativamente
all’Autonomia
siciliana,
intravide
nella
burocrazia
della
Regione
un
settore
della
macchina
amministrativa
su
cui
lavorare,
fu
assessore
al
turismo,
membro
della
direzione
nazionale
della
Democrazia
cristiana
e
per
otto
anni
segretario
del
partito
in
Sicilia.
Cosa
lo
tormentava?
Quale
l’origine
della
“precarietà
spirituale”
che
Padellaro
nota
nei
loro
incontri?
Cosa
lo
fece
andare
in
depressione
fino
a
condurlo
al
suicidio?
Più
d’una
ipotesi
si
può
fare.
Probabilmente
a
cambiarne
la
vita
e la
condizione
psicologica
furono
le
parole
scritte
da
Carlo
Alberto
Dalla
Chiesa
nel
proprio
diario.
Nicoletti
era
stato
l’unico
esponente
Dc
delle
correnti
non
andreottiane
ad
averlo
ostacolato.
E
poi
il
libro
pubblicato
dal
figlio
del
prefetto
di
Palermo,
Nando,
Delitto
imperfetto.
Il
capogruppo
del
Pci
all’ARS
Michelangelo
Russo
disse
che
Nicoletti
pagava
in
quanto
segretario
regionale
della
Dc
proprio
nel
momento
dell’omicidio
del
Generale.
Durante
l’omelia
funebre,
monsignor
Gliozzo,
suo
consigliere
spirituale,
pronuncia
parole
che
ne
delineano
il
carattere
e
lancia
accuse
simili
a
quelle
della
moglie
dell’uomo
politico
palermitano.
“La
tua
natura
estremamente
sensibile
–
dice
il
prete
–
non
era
fatta
per
questo
mondo”.
Denuncia
insinuazioni
e
sospetti,
accuse
senza
prove
e
condanne
senza
processo.
E
aggiunge
polemicamente:
“La
Dc
come
ha
ripagato
i
tuoi
sacrifici?”
Alludeva
anche
al
suo
impegno
di
segretario
nella
formazione
dei
giovani
alla
politica.
Al
contributo
dato
alla
stagione
della
“solidarietà
autonomistica”
con
il
Pci
di
Occhetto
e
della
“Sicilia
dalle
carte
in
regole”.
Nella
prima
fila
della
chiesa
ci
sono
Scotti,
Bodrato,
Piccoli,
il
presidente
della
regione
Sardo,
il
sindaco
di
Palermo
Martellucci.
È
proprio
in
questo
momento
della
funzione
religiosa,
che
Gianna
Ballati,
la
vedova
di
Nicoletti,
abbandona
per
protesta
la
cerimonia
religiosa.
Ce
l’ha
con
i
notabili
democristiani
presenti,
con
un
partito
che
non
ha
difeso
il
marito
dalle
polemiche
seguite
all’omicidio
di
Dalla
Chiesa,
dalla
generalizzazione
delle
accuse
contenute
nel
libro
del
figlio
del
Generale.
Una
difesa
che
lui
si
aspettava.
Non
solo:
la
Dc
lo
aveva
emarginato.
Negandogli
sia
la
Presidenza
della
Regione
che
quella
della
Cassa
di
Risparmio.
Quasi
fosse
davvero
lui
il
responsabile
politico
della
strage
di
via
Carini,
quasi
fosse
lui
ad
aver
negato
a
Dalla
Chiesa
i
pieni
poteri
che
gli
erano
stati
promessi
per
combattere
la
mafia.
Il
partito
si
comportava
come
ci
si
comporta
con
un
colpevole.
La
segreteria
regionale
era
stata
affidata
a
Sergio
Mattarella,
attuale
Presidente
della
repubblica.
E a
Nicoletti
veniva
offerto
l’incarico
di
commissario
del
partito
a
Bisacquino.
Un’umiliazione
per
un
ex
segretario
regionale.
Per
Gianna
Ballati
è il
partito,
sono
quegli
uomini
di
cui
non
regge
la
presenza
al
funerale,
ad
averle
fatto
perdere
il
marito.
È
una
“donna
bionda,
magra
–
così
la
descrive
Alberto
Stabile,
inviato
di
Repubblica
– le
labbra
ora
strette
in
una
morsa
di
incomprimibile
dolore,
ora
piegate
in
un
sorriso
carico
di
rancore”.
Una
donna
che
dice
a
quanti
provano
a
trattenerla:
“Non
voglio
stare
qui,
in
mezzo
ai
politici,
voglio
stare
con
gli
amici”.
Ma i
timori,
la
depressione
di
Rosario
Nicoletti
iniziano
due
anni
prima
della
strage
di
via
Carini:
in
cui
perdono
la
vita
il
generale
Dalla
Chiesa,
la
moglie
Emanuela
Setti
Carraro
e
l’agente
di
scorta
Domenico
Russo
e
per
la
quale
vengono
condannati
all’ergastolo,
come
mandanti,
i
vertici
di
Cosa
Nostra.
I
timori
iniziano
con
l’omicidio
del
presidente
della
regione
Pier
Santi
Mattarella
la
mattina
dell’Epifania
del
1980.
Davanti
al
cadavere
dell’amico,
il
segretario
della
Dc
siciliana
dice:
“Hanno
buttato
una
moneta.
O
usciva
lui
o
uscivo
io”.
Parole
ascoltate
dalla
vedova
del
Presidente,
Irma
Chiazzese,
che
gli
dice:
“Guardatevi
le
spalle”.
Da
quel
momento
Rosario
Nicoletti
deve
guardarsi
dai
nemici
di
Mattarella
e
dai
propri
fantasmi.
Che
lo
seguiranno
sempre.
Da
quel
momento
finisce
una
stagione,
le
sue
certezze.
E
due
luci
della
politica
siciliana
emettono
separatamente
gli
ultimi
bagliori.
Una
si
spegne,
viene
spenta
subito;
l’altra
quattro
anni
dopo.
Gli
amici
Rosario
e
Piersanti
non
sarebbero
più
usciti
dal
ristorante,
con
le
rispettive
famiglie:
a
passeggio
“sottobraccio
e
conversando
della
Sicilia
dalle
carte
in
regola”,
come
Gianna
Ballati
racconta
al
giornalista
Felice
Cavallaro.
È
stata
lei
la
testimone
dei
tormenti
del
marito.
Sino
all’ultimo
giorno,
alle
ultime
ore.
“La
morte
di
Matterella
–
dice
– lo
distrusse
fisicamente:
rimase
a
letto
tre
mesi.
Quando
si
riprese
gli
offrirono
un
seggio
al
parlamento,
che
rifiutò.
Non
sapeva
cosa
fare
a
Roma.
Per
lui
aveva
senso
solo
la
Sicilia”.
Ma
Nicoletti
non
trovò
uguale
conforto,
stessa
disponibilità
del
partito
ad
aiutarlo
dopo
l’omicidio
di
Dalla
Chiesa.
Nel
discorso
commemorativo
non
pronunciò
mai
la
parola
mafia.
E la
cosa
provocò
pubblica
amarezza
a
Nando
Dalla
Chiesa,
figlio
del
Generale.
È
vero
che
nel
libro
Un
delitto
imperfetto
assegna
un
ruolo
marginale
a
Nicoletti
e
che
non
parla
di
“mandanti
morali”.
Ciononostante,
il
clima
che
si
crea
dopo
l’omicidio
lo
fa
apparire
come
un
colpevole.
“Devo
incontrarlo,
–
ripeteva
–
devo
dirglielo
che
non
ero
nemico
di
suo
padre”.
L’incontro
tra
lui
e
Nando
Dalla
Chiesa
avviene
alla
seconda
fiaccolata
per
commemorare
il
Generale.
Nicoletti
si
sarebbe
suicidato
due
mesi
dopo
buttandosi
dal
terrazzo
all’ottavo
piano
del
condominio
di
via
Lincoln
dove
abitava
a
Palermo.
I
due
si
parlarono,
si
chiarirono.
La
moglie
ricorda
che
quando
tornò
a
casa
le
disse:
“Forse
il
professore
ha
capito;
mi
ha
stretto
la
mano”.
Ma
ormai
la
strada
era
tracciata.
Tracciata
verso
la
tragedia.
Dal
partito
lo
invitavano
a
stare
tranquillo.
Parole
di
circostanza.
Neppure
quelle
accorate
e
imploranti
della
moglie
–
“Ma
allora
vuoi
lasciarmi
sola,
non
t’importa
nulla
di
me”
–
riuscirono
a
scuoterlo
e a
fermarlo.
Gli
corse
dietro
per
le
scale,
ma
sbagliò
terrazzo.
Lei
salì
in
quello
del
nono
piano.
Suo
marito
aveva
scelto
l’ottavo.
La
storia
non
finisce
qui.
Perché
alla
moglie,
alla
figlia
di
Nicoletti,
Maddalena,
e al
fratello
Nino,
che
si
occupava
dell’organizzazione
delle
campagne
elettorali,
è
toccato,
anche
dopo
la
morte
tragica,
difenderne
la
memoria
dalle
accuse
del
pentito
Francesco
Marino
Mannoia.
Un
pentito
ritenuto
dai
magistrati
“credibile
su
tutto
il
fronte”.
È
lui
a
“rivelare”
che
Rosario
Nicoletti
incontrava
il
mafioso
Stefano
Bontade:
informandolo
dei
suoi
contrasti
con
l’amico
Pier
Santi
Mattarella
che
voleva
rompere
le
amicizie
mafiose.
Per
la
famiglia
di
Nicoletti
è
“tutta
immondizia”.
Il
fratello
del
deputato
e
segretario
regionale
della
Dc
lo
difende
negando
alcuna
sua
“conoscenza
fisica
di
Bontade”
(“mai
visti
mafiosi
nelle
campagne
elettorali”)
e
citandone
gli
interventi
pubblici
contro
la
mafia.
La
sua
condanna
dopo
la
strage
di
Ciaculli:
quando
disse,
con
largo
anticipo
rispetto
alle
dichiarazioni
dei
pentiti,
che
la
mafia
voleva
sostituirsi
allo
Stato;
e le
parole
(al
convegno
Quale
Sicilia?)
un
anno
dopo
l’omicidio
di
Mattarella:
“I
nemici
dell’Isola
sono
sottosviluppo
e
mafia”.
A
quel
convegno
era
presente
Rocco
Chinnici.
“E
poi
–
chiede
Nino
Nicoletti
–
Mattarella,
mio
fratello
e i
giovani
da
lui
formati,
Riggio
e D’Antoni,
erano
una
squadra
compatta,
nessuno
vide
niente?”
Nessuno
notò
i
contrasti
sulla
mafia
tra
i
due
amici?