ROSA PARKS
STORIA DI UNA SARTA DIVENUTA ICONA DEI
DIRITTI CIVILI DEI NERI
di Matteo Liberti
Montgomery, Alabama, 1° dicembre
1955: terminata la giornata
lavorativa, la quarantaduenne Rosa
Parks, di pelle nera e di
professione sarta, prende l’autobus
2857, diretta a casa. Si siede in
una fila centrale, ma quando dopo
poche fermate sale un passeggero
bianco, il conducente le chiede di
alzarsi per lasciargli il posto,
come impongono le regole. Rosa le
conosce bene: i neri siedono dietro,
i bianchi davanti, mentre i posti
centrali sono misti e si possono
usare solo se tutti gli altri sono
occupati, ma la precedenza spetta
sempre ai bianchi. “Non stavolta”,
pensa Rosa, e senza rifletterci
troppo risponde che “no”, non
intende alzarsi. Quel rifiuto la
trasforma d’improvviso in un’eroina
dei diritti dei neri, impegnati
nella lotta contro la segregazione
che opprimeva l’Alabama e altri
stati del Sud, divenendo il
propellente di una storica protesta
che fu tanto rabbiosa quanto “non
violenta”.
Segregati
La politica di segregazione nelle
regioni meridionali degli Usa era
un’eredità dello schiavismo in
vigore nel Paese fino al 1865, anno
in cui venne abolito dal XIII
emendamento alla Costituzione. Dopo
tale data, nel Sud connotato da
forte impronta razzista (al
contrario del Nord, i cui stati
furono i paladini
dell’abolizionismo) presero forma
alcune norme locali, dette “leggi
Jim Crow”, che diedero vita a un
sistema in cui i neri erano
considerati “separate
but equal”,
“separati ma uguali”.
In breve, gli afroamericani erano
tenuti confinati in appositi settori
sui mezzi di trasporto e nel resto
dei luoghi pubblici. Vittime di
umiliazioni d’ogni sorta, erano
inoltre tagliati fuori dalle scuole
migliori e da molti mestieri, avendo
inoltre salari inferiori a quelli
dei bianchi. Non bastasse, ogni
stato elaborava cavillosi espedienti
per impedire loro di votare (il
pieno diritto al voto giungerà solo
nel 1965 con il Voting Rights Act,
che assieme al contemporaneo Civil
Rights Act mise in soffitta le Jim
Crow laws). Nel contesto della
segregazione, peraltro, la
popolazione nera, godendo dell’uso
esclusivo di molte chiese, bar e
saloni di bellezza, poté pianificare
importanti forme di resistenza al
riparo dagli occhi dei bianchi. È
questo il mondo in cui crebbe Rosa
Parks, all’anagrafe Rosa Louise
McCauley, nata il 4 febbraio 1913 in
un’umile famiglia di confessione
metodista nella cittadina di
Tuskegee, poco distante da
Montgomery.
Impegnata
A diciannove anni, nel 1932, Rosa
sposò Raymond Parks, barbiere
impegnato nel movimento per i
diritti civili, dividendosi poi tra
il lavoro come sarta e l’attivismo
politico al fianco del consorte.
Proprio nel 1932 si distinse per il
supporto offerto a nove ragazzi
afroamericani (gli “Scottsboro Boys”)
accusati ingiustamente di aver
violentato due prostitute bianche.
La passione messa nella causa per i
diritti dei neri le valse nel 1943
la nomina a segretaria della sezione
locale della NAACP, “Associazione
nazionale per la promozione delle
persone di colore” (“avevano bisogno
di una segretaria, e io ero troppo
timida per dire di no”, scherzerà
poi Rosa). A supportare le battaglie
della NAACP
contribuirà dal 1954 un giovane
pastore protestante sconosciuto ai
più. Era Martin Luther King,
destinato a divenire uno dei leader
più celebri nella storia del
movimento per i diritti degli
afroamericani,
ma al tempo ancora alle prese
con il suo primo impiego, presso la
chiesa battista Dexter Avenue
di Montgomery.
“Ero stanca di subire”
Quando il primo dicembre 1955 si
verificò l’episodio del bus, Rosa
Parks era ormai giunta allo stremo
della sopportazione per il
trattamento riservato alla sua
gente, tanto che anni dopo scriverà:
“dicono sempre che non ho ceduto il
posto perché ero stanca, ma non è
vero. Non ero stanca fisicamente,
non più di quanto lo fossi di solito
alla fine di una giornata di lavoro
[...]. No, l’unica cosa di cui ero
stanca era subire”. Dopo il rifiuto
di alzarsi, l’autista fermò il
veicolo e chiamò le forze
dell’ordine per risolvere la
faccenda. Rosa fu incarcerata per
“condotta impropria”, ma poi, già a
poche ore dall’arresto, venne
rilasciata grazie alla cauzione
pagata da Clifford Durr, avvocato
bianco vicino alle posizioni dei
neri. Nel frattempo la comunità
afroamericana, informata sui fatti,
aveva però iniziato a rumoreggiare e
il nervosismo stava per sfociare in
violenza, con il relativo rischio di
rappresaglie bianche. Si decise
allora che la reazione
all’ingiustizia sarebbe stata sì
netta, ma pacifica, e ancora una
volta a prendere in mano la
situazione fu una donna.
Boicotta l’autobus
Jo Ann Robinson, coetanea della
Parks e presidente di
un’associazione femminile
afroamericana (Women’s Political
Council) stampò in migliaia di copie
un comunicato anonimo in cui si
invitava la popolazione nera a
boicottare i mezzi pubblici di
Montgomery il 5 dicembre, giorno del
processo a Rosa (che alla fine se la
caverà con una multa). All’alba,
l’attivista distribuì i volantini in
scuole, negozi, chiese e beauty
salon. Parrucchiere ed
estetiste, più acculturate e
indipendenti di altre lavoratrici,
erano infatti attiviste pronte a
fare proseliti tra le clienti,
aiutandole nell’alfabetizzazione,
spiegando loro le pratiche per
votare e invitandole anche a non
imitare le acconciature delle
bianche... per sfoggiare invece i
caratteristici ricci, simbolo del
Black Power. In poche ore, tutta
la comunità nera di Montgomery seppe
del boicottaggio, che Martin Luther
King e gli altri leader neri
decisero tra l’altro di non limitare
a un solo giorno: bisognava
procedere a oltranza, finché non
fossero state accettate determinate
proposte “minime” come quella di
poter prendere posto sui bus “secondo
l’ordine di salita”.
La rimostranza coinvolse migliaia di
persone e durò fino al 26 dicembre
1956: un totale di 381 giorni,
durante i quali i tassisti neri
sostennero la protesta abbassando le
tariffe al livello dei biglietti dei
bus. Gli eventi di Montgomery ebbero
visibilità in tutto il Paese,
passando alle cronache come la più
importante manifestazione non
violenta del movimento per i diritti
civili, espressione secondo King di
una “bramosia infinita di dignità
umana e libertà”.
Mai doma
Il boicottaggio funzionò: senza i
ricavi dei biglietti dei neri (i
maggiori utenti degli autobus), le
casse dell’azienda dei trasporti
andarono in rosso. Frattanto, del
caso Parks si occupò la Corte
Suprema degli Stati Uniti, che il 13
dicembre 1956, all’unanimità,
dichiarò “incostituzionale” la
segregazione sui mezzi pubblici.
Neanche il tempo di festeggiare, e
Rosa iniziò a subire le ritorsioni
dagli ambienti bianchi, finché,
perso il lavoro, si trasferì a
Detroit, nel Nord del Paese. Nel
1965 divenne segretaria del
democratico John Conyers, membro del
Congresso, e nel 1987, in memoria
del defunto marito, fondò il “Rosa
and Raymond Parks Institute for Self
Development”, istituto tuttora
attivo e nato per “educare e
stimolare i giovani e gli adulti, in
particolare gli afroamericani, per
il miglioramento di se stessi e
dell’intera comunità”. Nel 1999
ottenne la medaglia d’oro del
Congresso, massimo riconoscimento
civile, in quanto, spiegò il
presidente Bill Clinton, lei quel
primo dicembre 1955,
“mettendosi a sedere, [...] si alzò
per difendere i diritti di tutti e
la dignità dell’America”.
La sua luce
si spense il 24 ottobre 2005. Due
anni prima, l’Henry Ford Museum di
Dearborn, a poche miglia da Detroit,
aveva acquisito il famigerato bus
2857. Al suo interno, nel 2012,
verrà scattata una storica foto a
Barack Obama, primo presidente
americano di pelle nera, in ricordo
di quando Rosa, con un semplice
“no”, aveva contribuito a rendere il
mondo un luogo migliore.