N. 48 - Dicembre 2011
(LXXIX)
Romolo e Remo: storia e mito della fondazione di Roma
Testimoni a confronto
di Paola Scollo
La storia di Roma ha origine dalla questione di Alba. Secondo il mito, infatti, per imposizione del re di Alba, Amulio, i figli del fratello Numitore non avrebbero dovuto generare pretendenti al trono.
Per
queste
ragioni,
Rea
Silvia,
figlia
di
Numitore,
viene
consacrata
vestale.
Il
divieto
regale,
però,
è
infranto
dalla
volontà
divina:
dall’unione
del
dio
Marte
e di
Rea
Silvia
sono
generati
due
gemelli.
Inizia
così
la
storia
di
Romolo
e
Remo,
ultimi
principi
di
Alba
pretendenti
al
trono,
figli
non
di
un
re,
ma
di
una
principessa
e di
un
dio.
Appena
nati,
i
gemelli
vengono
espulsi
da
Alba;
tuttavia,
riescono
a
sottrarsi
all’inevitabile
destino
di
morte,
ancora
una
volta,
grazie
all’intervento
divino:
dapprima,
una
lupa
li
allatta,
poi
Faustolo,
pastore
delle
greggi
di
Amulio,
e la
sua
compagna
Acca
Larenzia
accolgono
i
gemelli
e li
allevano.
Pur
vivendo
da
pastori,
i
bambini
crescono
coraggiosi
e
forti
come
divinità.
Secondo
il
mito,
un
giorno
Remo,
a
causa
di
un
contrasto
con
i
pastori
di
Numitore,
viene
fatto
prigioniero
e
condotto
al
re
Amulio
per
essere
punito.
Nel
frattempo,
Faustolo
svela
a
Romolo
le
sue
origini
semidivine.
Il
giovane
decide
quindi
di
liberare
il
fratello:
insieme
a un
gruppo
di
amici,
assale
la
reggia
di
Amulio,
uccide
il
re,
libera
Remo
e
pone
sul
trono
di
Alba
Longa
il
nonno
Numitore.
In
tal
modo,
Romolo
vendica
l’oltraggio
subito
dalla
madre,
Rea
Silvia,
e
ottiene
da
Numitore
una
parte
di
regno.
È
proprio
a
partire
da
questo
momento
che
il
destino
di
Romolo
sembra
essere
segnato.
Dopo
aver
restituito
il
regno
a
Numitore
e
aver
offerto
onori
alla
madre,
Romolo
e
Remo
decidono
di
fondare
una
città.
A
tal
proposito,
Livio
racconta
(I
6.
3):
«Conferito
così
a
Numitore
il
regno
su
Alba,
Romolo
e
Remo
furono
presi
dal
desiderio
di
fondare
una
città
nei
luoghi
in
cui
erano
stati
esposti
e
allevati.
Vi
era,
inoltre,
un
eccesso
di
popolazione
di
Albani
e
Latini;
a
questi
si
erano
poi
aggiunti
dei
pastori,
e
tutti
costoro
pensavano
che
sicuramente
Alba
e
Lavinio
sarebbero
state
piccole
rispetto
alla
città
che
si
doveva
fondare».
La
testimonianza
di
Livio
trova
conferma
nelle
parole
di
Plutarco
(Rom.
IX 1
-
2):
«Morto
Amulio
e
ristabilito
l’ordine,
i
fratelli
non
vollero
abitare
ad
Alba
senza
regnare,
né
regnarvi
finché
il
nonno
materno
era
in
vita.
Dopo
aver
restituito
il
potere
a
Numitore
e
aver
reso
alla
madre
gli
onori
dovuti,
decisero
di
andare
a
vivere
per
proprio
conto,
fondando
una
città
nei
luoghi
in
cui
erano
stati
allevati
fin
dalla
nascita;
questo,
infatti,
è il
motivo
più
plausibile».
Secondo
un’altra
versione
del
mito,
Numitore
dona
ai
nipoti
i
pascoli
sul
Tevere,
posti
al
confine
etrusco,
per
fondarvi
una
città.
Narra,
infatti,
Dionisio
di
Alicarnasso
(Ant.
Rom.
I
85.
1):
«Dopo
che,
morto
Amulio,
Numitore
ebbe
nuovamente
il
comando,
passato
del
tempo
a
riportare
la
città
allo
stato
in
cui
era
prima,
dopo
il
disordine
che
aveva
regnato
fino
ad
allora,
pensò
subito
di
conferire
ai
ragazzi
un
loro
potere,
fondando
un’altra
città».
Nell’immagine
di
Dionisio,
la
decisione
di
Numitore
di
affidare
ai
gemelli
l’incarico
di
fondare
una
città
è
volta
sia
a
ridurre
la
popolazione
di
Alba
sia
a
liberarsi
dei
nemici
(I
85.
2):
«…
poiché
il
numero
dei
cittadini
era
molto
aumentato,
pensò
che
fosse
bene
liberarsi
di
una
parte
di
loro,
soprattutto
quelli
che
un
tempo
gli
erano
stati
nemici,
in
modo
da
non
averli
in
sospetto».
Servio,
nel
commento
a
Virgilio,
Eneide
I
273,
spiega:
«Poiché
a
loro
(Remo
e
Romo)
sembrava
stretto
il
regno
di
Alba
in
comune
con
lui
(Numitore),
se
ne
andarono...».
A
tal
proposito,
va
rilevato
un
accordo
pressoché
totale
della
tradizione
nel
ritenere
che,
conclusa
l’impresa
di
Alba,
i
gemelli
non
vogliano
o
non
possano
restarvi.
La
partenza
di
Romolo
e
Remo
da
Alba
si
offre,
pertanto,
a
vari
livelli
di
analisi.
Da
un
punto
di
vista
storico,
potrebbe
alludere
alla
progressiva
decadenza
dell’egemonia
di
Alba
sul
Lazio
a
favore
di
centri
più
recenti,
ovvero
a
uno
spostamento
dell’imperium
ereditario
da
Alba
a
Roma.
Da
un
punto
di
vista
antropologico,
si
potrebbe
immaginare
un’evoluzione
nella
vita
di
Romolo,
ovvero
al
passaggio
da
una
fase
iniziale
di
banditismo
a
quella
di
leader
di
una
nuova
comunità.
In
altre
parole,
si
tratterebbe
della
integrazione
di
Romolo
nell’ordine
sociale
di
appartenenza.
Come,
infatti,
sostiene
Valeri,
«chi
aspira
al
regno
deve
conquistare
il
potere
politico
e
militare
con
la
forza
e,
successivamente,
per
riuscire
nell’impresa,
deve
ottenere
una
legittimazione
del
proprio
potere
accrescendo
il
consenso
e
integrando
nel
proprio
seguito
tutte
le
componenti
della
comunità».
Una
volta
giunti
sui
pascoli
del
Tevere,
laddove
erano
stati
esposti
e
allevati,
sorge
una
contesa
tra
Romolo
e
Remo,
indicata
da
Livio
come
«il
male
ereditario
della
cupidigia
del
regno»
(I
8. 4
-
6).
Racconta,
infatti,
lo
storico
che
«poiché
erano
gemelli
e il
riguardo
all’età
non
poteva
creare
diritti
di
precedenza,
affinché
gli
dèi
protettori
della
contrada
indicassero
con
segni
augurali
chi
dovesse
dare
il
nome
alla
nuova
città,
chi
dovesse
regnarvi
dopo
averla
fondata,
per
prendere
gli
auspici
Romolo
occupò
come
luogo
di
osservazione
il
Palatino,
Remo
l’Aventino».
In
particolare,
i
motivi
di
contrasto
sarebbero
tre:
il
sito
su
cui
fondare
l’urbs,
il
nome
da
assegnare
alla
nuova
città
e
l’eventuale
fondatore/
re.
La
tradizione
concorda
nel
ritenere
che
i
due
fratelli
siano
ricorsi
ad
auspici
per
dirimere
la
contesa.
Tuttavia,
mentre
la
tradizione
che
fa
capo
a
Ennio
ritiene
che
l’auspicio
sia
preceduto
da
un
contrasto
tra
i
due,
secondo
un’altra
tradizione,
tra
cui
figura
anche
Ovidio,
proprio
il
ricorso
all’osservazione
augurale
avrebbe
evitato
il
contrasto.
In
ogni
caso,
appare
fuor
di
dubbio
che
i
gemelli
siano
ricorsi
alla
volontà
divina,
ossia
a un
auspicium
ex
avibus.
Secondo
Dionisio,
chi
dei
due
avesse
visto
per
primo
i
volatili
più
favorevoli
sarebbe
stato
il
capo
della
colonia.
Così
anche
per
Livio,
Floro
e
Ovidio.
Di
contro,
secondo
l’Origo
gentis
Romanae,
«quello
dei
due
fratelli
al
quale
per
primo
fossero
venuti
auspici
favorevoli,
avrebbe
fondato
la
città,
le
avrebbe
dato
il
nome
e ne
sarebbe
divenuto
re».
Secondo
la
tradizione,
Romolo
stabilisce
la
propria
sede
augurale
sul
Palatino;
Remo,
invece,
sull’Aventino
o su
una
zona
dell’Aventino,
nota
come
Sasso
Remorio
o
Monte
Murco,
oppure
su
una
località
distante
da
Roma,
detta
Remoria.
In
Livio,
a
tal
proposito,
si
legge
(I
.6.
4):
«…
Romolo
occupò
il
Palatino,
Remo
l’Aventino
come
sedi
augurali
per
prendere
gli
auspici».
Stando
a
Dionisio
(I
86.
2),
«I
giovani,
dopo
aver
lodato
il
consiglio
(di
osservare
gli
uccelli
augurali),
se
ne
andarono
e,
secondo
gli
accordi,
si
incontrarono
nel
giorno
stabilito.
Il
luogo
scelto
da
Romolo
per
osservare
gli
uccelli
fu
quello
in
cui
pensava
di
fondare
la
colonia,
cioè
il
Palatino,
quello
di
Romo
fu
il
colle
di
fronte,
l’Aventino,
o -
come
attestano
altri
- la
Remoria;
con
entrambi
era
una
guardia
che
impedisse
loro
di
dire
ciò
che
non
era
apparso».
Riguardo
all’osservazione,
Livio
parla
di
sei
avvoltoi
apparsi
prima
a
Remo
e di
dodici
avvoltoi
apparsi
poi
a
Romolo
(I
6. 4
-
7):
«Si
narra
che
a
Remo
per
primo
comparvero
come
augurio
sei
avvoltoi;
e
quando
ormai
l’augurio
era
stato
annunciato,
essendosene
mostrato
un
numero
doppio
a
Romolo,
tutte
e
due
le
schiere
salutarono
il
loro
capo
come
re».
Stando
alla
testimonianza
di
Ennio,
i
gemelli
compiono
due
azioni
distinte,
ossia
un
auspicio
e un
augurio,
(Annales
I fr.
47,
72 -
76):
«Allora
solleciti
con
grande
sollecitudine,
desiderosi/
del
regno,
insieme
si
applicano
all’auspicio
e
all’augurio
(regni
dant
operam
simul
auspicio
augurioque)./
Sul
monte
siede
Remo
per
l’auspicio
e da
solo/
aspetta
l’uccello
propizio;
invece,
il
bel
Romolo
in
cima/
all’Aventino
cerca
il
segno,
aspetta
la
stirpe
degli
altovolanti».
Sia
Livio
sia
Ennio
distinguono
due
atti
auspicali:
il
primo
serve
a
scegliere
il
luogo
su
cui
far
sorgere
la
nuova
città
e a
individuare
il
fondatore;
il
secondo,
invece,
è
garanzia
dell’investitura
regale.
A
ben
vedere,
anche
secondo
la
testimonianza
di
Dionisio,
l’osservazione
auspicale
avviene
in
due
momenti
distinti:
la
prima
osservazione
ex
avibus
è
finalizzata
alla
scelta
del
sito
e
del
fondatore
dell’urbs
(I
86.
2 -
4);
la
seconda
osservazione
augurale
ex
caelo,
fatta
da
Romolo
sul
Cermalo,
è
finalizzata,
piuttosto,
alla
scelta
del
futuro
imperator
(II
5).
Di
contro,
Plutarco
riferisce
soltanto
di
un’osservazione
auspicale
(I
7.
1):
«Si
racconta
che
a
Remo
siano
apparsi
sei
avvoltoi,
a
Romolo,
invece,
il
doppio;
alcuni
sostengono
che
Remo
li
abbia
visti
realmente,
che
Romolo
abbia
mentito
e
che,
quando
giunse
Remo,
solo
allora
sarebbero
apparsi
a
Romolo
i
dodici
avvoltoi».
Plutarco
esalta
poi
la
purezza
dell’avvoltoio,
in
quanto
è
«il
meno
nocivo
di
tutti
gli
animali
e
non
danneggia
ciò
che
gli
uomini
seminano,
piantano
o
pascolano,
ma
si
nutre
di
cadaveri;
non
uccide,
né
rovina
nulla
che
abbia
vita,
non
si
avvicina
agli
uccelli
neppure
quando
sono
morti,
per
la
comunanza
di
stirpe;
invece
le
aquile,
le
civette
e
gli
sparvieri
colpiscono
e
uccidono
i
loro
simili,
anche
vivi»
(IX
7).
Senza
paralleli
risulta,
infine,
l’episodio
narrato
in
Origo
gentis
Romanae
(XXIII
3)
secondo
cui,
in
seguito
all’osservazione
degli
uccelli,
«d’improvviso
apparvero
in
cielo
dodici
avvoltoi,
accompagnati
da
una
folgore
e da
un
tuono».
Stando
alle
parole
di
Livio,
dopo
l’osservazione
ogni
gemello
è
proclamato
re
dai
suoi
seguaci
(I
6. 4
- 7,
2):
«Quando
ormai
l’augurio
era
stato
annunciato,
essendosene
mostrato
il
numero
doppio
a
Romolo,
tutte
e
due
le
schiere
salutarono
il
loro
capo
come
re:
gli
uni
ritenevano
che
desse
diritto
al
regno
l’anteriorità
del
momento,
gli
altri
il
numero
degli
uccelli.
E
così,
venuto
a
lite,
dalla
discussione
infervorata
passarono
alla
violenza;
allora
Remo,
colpito
nella
mischia,
morì...».
Livio
riporta
poi
la
diffusa
leggenda
secondo
cui
«a
scherno
del
fratello,
Remo
fosse
saltato
oltre
le
mura
nuove
e
che,
per
questo
motivo,
fosse
stato
ucciso
da
Romolo
adirato,
il
quale,
inveendo
anche
con
le
parole,
aggiunse:
così
muoia
qualunque
altro
osi
mai
varcare
le
mie
mura!».
Anche
secondo
il
racconto
di
Dionisio,
in
seguito
all’osservazione
auspicale,
sorge
«una
contesa
ancora
più
grande
di
quella
precedente,
in
cui
ognuno
dei
due,
di
nascosto,
cercava
di
prendere
il
sopravvento,
ma
in
pubblico
affermava
di
non
essere
da
meno
giustificandosi
così:
era
stato
detto
loro
dal
nonno
che
sarebbe
stato
capo
della
colonia
quello
al
quale
si
fossero
mostrati
gli
uccelli
migliori;
ora,
avendo
entrambi
visto
lo
stesso
tipo
di
uccelli,
uno
poteva
vantare
di
averli
visti
per
primo,
l’altro
di
averne
visti
di
più.
Alla
loro
discordia
prese
parte
anche
il
resto
del
popolo
e ci
fu
una
violenta
battaglia
con
grande
strage
da
ambo
le
parti»
(I
87 .
1).
Durante
lo
scontro,
dapprima
perde
la
vita
Faustolo
che,
non
riuscendo
a
porre
fine
alla
contesa,
«si
gettò
in
mezzo
ai
combattenti
disarmato,
desiderando
la
morte
più
veloce
possibile»,
poi
Remo
(I
87 .
2 -
3).
Di
qui
le
conclusioni:
«Essendo
Romo
stato
ucciso
nella
battaglia,
Romolo,
avendo
riportato
una
vittoria
tristissima
sia
per
la
morte
del
fratello
sia
per
la
strage
reciproca
tra
concittadini,
seppellì
Romo
nella
Remoria,
poiché
da
vivo
Romo
lo
aveva
considerato
il
luogo
adatto
alla
fondazione;
quanto
a
lui,
per
il
dolore
e il
pentimento
di
quanto
accaduto,
si
abbatté
e si
abbandonò
al
rifiuto
della
vita».
Secondo
Dionisio,
soltanto
dopo
ripetute
suppliche
ed
esortazioni
da
parte
della
madre,
Romolo
decide
di
colonizzare
il
Palatino
(I
87 .
3).
Anche
secondo
Licinio
Macro
in
Origo
gentis
Romanae
(XXIII
5),
la
contesa
si
conclude
tragicamente
«poiché
tanto
Remo
quanto
Faustolo,
che
seguitavano
a
opporsi
furono
uccisi».
Stando
a
Plutarco,
una
volta
ottenuto
il
responso
divino,
Romolo
prende
possesso
del
luogo
indicato
da
Giove,
il
Palatino,
quindi
inaugura
e
trasforma
il
monte
in
città,
cingendolo
di
muri
sancti,
ovvero
invalicabili.
Tuttavia,
«quando
Remo
scoprì
l’inganno
(di
Romolo),
si
adirò;
e,
poiché
Romolo
scavava
un
fossato
con
cui
avrebbe
circondato
tutt’intorno
le
mura,
si
faceva
beffe
dei
suoi
lavori
e
cercava
di
ostacolarli.
Alla
fine,
superò
il
fossato
con
un
salto;
dicono
che
cadde
lì,
secondo
alcuni
colpito
dallo
stesso
Romolo,
secondo
altri
da
uno
dei
suoi
compagni,
un
certo
Celere.
Nello
scontro
caddero
anche
Faustolo
e
Plistino,
che
-a
quanto
dicono-
era
fratello
di
Faustolo
e lo
aveva
aiutato
a
tirar
su
Romolo
e il
fratello»
(X 1
-
2).
Servio,
nel
commento
a
Virgilio,
Eneide
I
273,
scrive:
«Presi
gli
auspici
(scil.
Remus
et
Romus),
fondarono
una
città.
Ma
Remo
vide
per
primo
sei
avvoltoi,
poi
Romo
dodici:
ciò
scatenò
una
guerra
(bellum),
in
cui
Remo
morì».
Come
è
evidente,
la
tradizione
è in
disaccordo:
se
per
alcuni
autori
Romolo
cade
nello
scontro
generatosi
dopo
l’osservazione
auspicale,
per
altri
viene
ucciso
da
Romolo
per
aver
scavalcato
le
mura
sanctae
della
nuova
città.
In
ogni
caso,
sembra
che
non
esistano
dubbi
sulla
morte
di
Romolo.
Isolata,
quindi
poco
attendibile,
è
del
resto
la
versione,
citata
in
Origo
gentis
Romanae
(XXIII
6),
di
un
certo
Egnazio,
che
«…
smentisce
la
fine
cruenta
di
Remo
e
arriva
a
sostenere
che
visse
più
a
lungo
di
Romolo».
L’uccisione
di
Remo
si
configura
quale
elemento
essenziale
nella
struttura
del
racconto,
indispensabile
per
l’evoluzione
della
vicenda.
Irritato
per
non
essere
stato
prescelto
oppure
per
essere
stato
ingannato
da
Romolo
durante
l’auspicio,
Remo
assiste
alla
costruzione
delle
mura
e le
supera.
In
base
a
questo
ragionamento,
la
disputa
tra
Romolo
e
Remo
è da
porre
alle
origini
della
morte
di
Remo:
solo
così,
Romolo
può
regnare.
Dopo
l’uccisione
di
Remo,
Romolo
si
reca
sul
Cermalo
per
avviare
i
riti
fondativi
della
città.
Un’ampia
descrizione
è
offerta,
tra
gli
altri,
da
Plutarco.
Stando
alle
parole
del
biografo,
«Romolo,
dopo
aver
sepolto
nella
Remoria
il
fratello
e,
al
contempo,
quelli
che
li
avevano
cresciuti,
fondò
la
città,
avendo
fatto
venire
dall’Etruria
uomini
che
gli
spiegassero
ogni
cosa
con
norme
e
testi
sacri
».
In
seguito,
scava
una
fossa
di
forma
circolare
intorno
al
Palatino,
ovvero
il
sulcus
primigenius,
«per
deporvi
le
primizie
di
tutto
quanto
era
utile
secondo
consuetudine
o
necessario
secondo
natura».
Come
specifica
Plutarco,
al
sulcus
viene
attribuito
lo
stesso
nome
del
cielo,
ossia
mundus.
Romolo
unisce
all’aratro
un
vomere
di
bronzo,
quindi
aggioga
un
bue
e
una
mucca,
tracciando
un
solco
profondo
lungo
la
linea
di
confine:
«Con
questo
tracciato
fissano
dunque
il
percorso
delle
mura
e
con
una
forma
sincopata
lo
chiamano
pomerium,
che
vuol
dire
dopo
o
dietro
il
muro;
dove
intendono
mettere
una
porta,
tirano
fuori
il
vomere,
sollevano
l’aratro
e
lasciano
uno
spazio
in
mezzo».
Di
qui
le
conclusioni:
«Per
questo
motivo
considerano
sacra
tutta
la
cinta
muraria
ad
eccezione
delle
porte;
considerando
sacre
anche
le
porte,
non
era
possibile
far
entrare
e
uscire
senza
timore
religioso
le
cose
necessarie
e,
tuttavia,
impure».
In
contrasto
con
la
tradizione
che
indica
Romolo
quale
unico
fondatore,
si
pongono
le
affermazioni
di
Varrone
(Rust.
II.
1,
9),
secondo
cui
Romolo
e
Remo
fondano
insieme
la
città
proprio
nel
giorno
in
cui
viene
celebrata
la
festa
di
Pales,
divinità
pastorale:
«...
E
chi
nega
che
il
popolo
dei
Romani
abbia
avuto
origine
da
pastori?
Chi
ignora
che
Faustolo,
colui
che
nutrì
e
allevò
Romolo
e
Remo,
fosse
un
pastore?
E il
fatto
che
essi
fondarono
la
città
proprio
nei
Parilia
non
mostrerà
che
anche
loro
fossero
dei
pastori?».
Questa
tradizione,
peraltro,
è
attestata
in
Appiano
(Ia
9):
«...
Quanto
a
loro
(Remo
e
Romolo),
fondarono
una
città
sulle
rive
del
fiume
presso
il
quale
erano
stati
esposti
e
poi
allevati
e la
chiamarono
Roma,
allora
detta
Quadrata
poiché
il
suo
perimetro
era
di
sedici
stadi,
essendo
ogni
lato
di
quattro
stadi».
Sul
filo
di
questa
direttrice,
Remo
parteciperebbe
soltanto
alle
fasi
iniziali
della
fondazione
dell’urbs,
ovvero
alla
creazione
del
popolo.
Remo,
infatti,
non
è
destinato
a
regnare:
a
differenza
di
Romolo,
non
ha
ottenuto
da
Giove
il
diritto
di
fondare
la
città,
non
ha
ricevuto
l’investitura
divina.
Ma
c’è
di
più.
Remo
ha
tentato
di
opporsi
al
volere
divino,
violando
la
sanctitas
delle
mura,
quindi
merita
di
essere
punito.
Di
contro,
Romolo,
pur
essendosi
macchiato
dell’orrendo
crimine
di
fratricidio,
può
esercitare
l’imperium
e
instaurare
la
monarchia
perché
è
predestinato.
Occorre
comunque
sottolineare
che
il
fantasma
di
Remo
continua
a
essere
vivo.
Secondo
il
mito,
infatti,
dopo
l’uccisione
del
giovane,
la
città
di
Roma
è
sconvolta
da
calamità,
disordini
e
lotte
intestine.
Romolo
decide
quindi
di
invocare
l’oracolo.
«Se
tuo
fratello
non
verrà
posto
sul
trono
regale,
la
tua
città
Roma
non
si
stabilizzerà,
né
si
placheranno
il
popolo
e la
guerra»
è la
sentenza
della
Pizia.
Si
narra
quindi
che
Romolo
abbia
fatto
realizzare
un
busto
d’oro
a
immagine
del
fratello
e
che
abbia
collocato
la
figura
sul
suo
trono.
«E
così
regnò
per
il
resto
del
tempo
con
l’immagine
d’oro
del
fratello
Remo
vicina
a
lui;
i
disordini
della
città
cessarono
e la
rivolta
popolare
si
placò.
E se
ordinava
o
decideva
qualcosa,
ne
parlava
come
se
provenisse
da
lui
e da
suo
fratello,
dicendo
“Abbiamo
ordinato”
e
“Abbiamo
deciso”».
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