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N. 65 - Maggio 2013 (XCVI)

Romolo e la fondazione di RomA
Viaggio alle origini della historia romana

di Paola Scollo

 

La nascita di ogni città presuppone l’esistenza di un eroe-fondatore. La tradizione ha indicato Romolo quale capostipite di Roma, elevandolo simbolicamente a elemento conclusivo di una nutrita schiera di personaggi del mito chiamati a guidare il Lazio verso una dimensione urbana.

 

Le principali informazioni sul leggendario fondatore di Roma si ricavano dalla Vita di Romolo di Plutarco, composta con ogni probabilità dopo il 96 d.C. e collocata, insieme alla biografia di Teseo, al settimo posto delle Vite parallele. Nel complesso si compone di ventinove capitoli, in ognuno dei quali è possibile individuare specifici nuclei tematici. Osserviamoli puntualmente.

 

Nei due capitoli incipitari viene ripercorsa la storia della fondazione di Roma con particolare riferimento all’etimologia del nome dell’ecista, mentre nei sei capitoli successivi (III - VIII) viene narrata l’infanzia dei gemelli Romolo e Remo a partire dalle informazioni offerte da Diocle Pepareto e Fabio Pittore. L’ethos dei fratelli manifesta sin dalla più tenera età tracce dei nobili natali. Scrive infatti Plutarco: «[…] si distinguevano sia per la prestanza fisica sia per l’avvenenza; crescendo poi divennero entrambi impetuosi e valorosi e dotati di uno spirito e di un’audacia che non veniva meno neppure di fronte a terribili calamità. Romolo sembrava possedere maggiore capacità di giudizio e un’innata perspicacia politica, mostrando nei rapporti con i confinanti per i diritti di pascolo e di caccia una naturale predisposizione al comando piuttosto che alla sottomissione» (Rom. VI 3). In questa sezione notevole rilievo viene conferito all’episodio del riconoscimento di Remo da parte di Numitore grazie all’intervento di Faustolo (Rom. VIII 5).

 

Nei quattro capitoli seguenti (IX - XII) Plutarco analizza il mito della fondazione di Roma secondo prospettive che spaziano dalla dimensione politica a quella cronologica, religiosa e cultuale. Nell’immagine del biografo, l’atto di fondazione si pone in linea con i riti etruschi. Una posizione senza dubbio divergente rispetto a quella assunta da Dionisio di Alicarnasso, che aveva colto affinità con l’apoikia ellenica. Racconta a tal proposito Plutarco che, alla morte di Amulio, Romolo e Remo non vollero abitare ad Alba senza potervi regnare né regnarvi finché il nonno fosse rimasto in vita, per cui «decisero di vivere per conto loro, fondando una città nei luoghi in cui erano cresciuti da piccoli» (Rom. IX 1). Del resto la creazione di una città si configurava quale scelta necessaria data la presenza di numerosi servi e ribelli al loro seguito (Rom. IX 2).

Primo atto di fondazione fu la realizzazione di un tempio dedicato al dio Asilo, destinato a divenire luogo di rifugio per i fuggitivi. Ben presto però tra i due fratelli sorse una lite sulla scelta del luogo predestinato alla collocazione della città. Stando a Plutarco, Romolo fondò la cosiddetta Roma quadrata - in quanto quadrangolare - con l’intenzione di «trasformare quel luogo in città». Il qualificativo potrebbe alludere sia alla forma quadrangolare sia a una possibile divisione del tessuto urbano in quattro aree. Di contro Remo preferì una posizione «forte» sull’Aventino, che in suo onore prese il nome dapprima di Remorium poi di Rignariom.

 

Con ogni probabilità il Palatino inaugurato corrispondeva alla Roma cosiddetta Quadrata, mentre all’esterno del pomerium palatino si estendeva la restante parte dell’abitato proto-urbano/settimonziale non inaugurata ma suddivisa in rioni-curie, in cui è possibile riconoscere l’abitato dei Quirites. Al di fuori delle mura si trovava invece il Foro-Campidoglio-Arce, ossia il centro politico-sacrale dell’intero insediamento.

 

Secondo recenti interpretazioni, Remo desiderava fondare la sua città lontano da Roma sulla riva del Tevere o sull’Aventino, donandole un nome che doveva evocare sia il proprio sia quello degli uccelli remores. Scegliendo un luogo “remoto”, mostrava chiaramente di non voler reinserirsi nella comunità di appartenenza. Fondando la sua città nei pressi del Palatino, Romolo dimostrava invece di aver accettato e compiuto tale percorso di integrazione.

 

Ulteriore motivo di contrasto tra i due fratelli fu il nome da assegnare alla città. La maggior parte della tradizione ha scorto un legame con il nome proprio o comune Rhome, che indica propriamente la forza. Tuttavia si potrebbe anche pensare a una diretta derivazione dal nome del fondatore Romolo. Infine alcuni hanno ipotizzato un processo inverso, per cui il nome del fondatore sarebbe stato ricavato a posteriori da quello della città.

 

Secondo gli autori antichi, Roma poteva vantare svariati nomi. Stando alla versione isolata di Giovanni Lido (I mesi IV 50), «[…] La città ebbe tre nomi, uno iniziatico, uno sacro e uno politico: quello iniziatico è Amore, cioè Eros, in modo che tutti siano pervasi da un amore divino per la città - motivo per cui il poeta nei carmi bucolici la chiama enigmaticamente Amarillide -, quello sacro è Flora, cioè fiorente, da cui deriva la festa dei Floralia in suo onore; quello politico è Roma. Quello politico era noto a tutti e veniva pronunciato senza alcun timore, mentre evocare quello iniziatico era permesso solo ai pontefici massimi durante i riti sacri; e si dice che una volta un magistrato fu punito per aver osato rendere noto il nome iniziatico al popolo». In sintesi ogni nome disponeva di uno specifico significato e utilizzo.

 

L’esistenza di un nome segreto per l’Urbe è peraltro attestata da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. III 65), Macrobio (Sat. III 9. 3- 5), Solino (I 1- 5) e Servio (in Aen. I 277). Sempre secondo la testimonianza di Giovanni Lido, Romolo proclamò i tre nomi nel corso dell’atto di fondazione: «Undici giorni prima delle calende di maggio Romolo fondò Roma, avendo riunito tutti gli abitanti delle zone vicine e avendo ordinato loro di portare con sé una zolla della propria terra, auspicando che così Roma dominasse tutta la regione. Quanto a lui, postosi a capo dell’intera funzione sacra, presa una tromba sacra - per tradizione avita i Romani sono soliti chiamarla «lituo» da lité [preghiera] - fece risuonare il nome della città».

 

Date le divergenze, i due fratelli decisero di dirimere la quaestio affidandosi al volo degli uccelli, perciò si appostarono in luoghi diversi. A tal proposito Plutarco riferisce che a Remo apparvero sei avvoltoi, mentre a Romolo il doppio. Con ogni probabilità Romolo avrebbe mentito. Remo si sdegnò per l’inganno subito e, mentre il fratello era impegnato a scavare il fossato con cui avrebbe dovuto circondare la città, si fece beffe del suo lavoro. Infatti, prima della costruzione delle mura urbane, Romolo tracciò un solco, officiando un rito che, secondo Varrone, era etruscus e utilizzato nel Lazio in età storica. Secondo Dionisio, Ovidio, Giovanni Lido e Zonara, il sulcus seguiva il percorso delle mura. Di contro, per Tacito e Plutarco indicava il percorso del pomerium. La tradizione secondo cui il solco corrispondeva al tracciato delle mura è comunque la più attestata e la più antica, in quanto risale a Catone (Servio in Aen. V 755), mentre il collegamento del solco al pomerium è di età imperiale.

 

In atto di sfida Remo varcò il solco e per questa ragione venne ucciso da Romolo o da Celere, compagno di Romolo. Nella rissa persero la vita anche Faustolo e suo fratello Plistino, che aveva contribuito ad allevare i due gemelli. In seguito Romolo seppellì Remo nella Remoria.

 

Rimasto solo, Romolo avviò la costruzione della città, facendo giungere dall’Etruria esperti con leggi e testi sacri. Secondo la tradizione romana, fondare una città, urbs, equivaleva ad assegnare a un luogo uno statuto particolare attraverso una benedizione, inauguratio, concessa da Giove.

 

A ben vedere però l’inauguratio rappresentava soltanto l’ultimo atto di una serie di azioni rituali. In ordine occorreva effettuare una praecatio o vota e supplicatio, stabilire l’agibilità del luogo proposto, abbattere eventuali costruzioni precedenti, fissare una sede augurale, templum in terra, dalla quale definire il templum in aere, quindi prendere gli auspici per l’effatio, liberatio, locatio e gli auguri per inaugurare l’urbs, realizzare l’effatio certis verbis definire e la liberatio della futura urbs, della parte di ager compresa nei limiti del templum in aere e dei loca nell’urbs, delimitare i loca stabiliti, descritti a parole, effata, e liberati, con pietre terminali e recinti, terminos ponere. Soltanto al termine di queste azioni era possibile procedere all’inauguratio vera e propria. L’augure doveva porsi in una posizione eminente che gli consentisse di avere visione sia del luogo per cui si chiedeva benedizione a Giove sia del territorio oltre al luogo stesso. Inoltre occorreva proiettare il templum in terra sul templum in aere, definito su abitato e agro, dopo aver indicato punti di riferimento reali a partire da un vertice del pomerium.

 

Scavata una fossa di forma circolare denominata mundus, ovvero umbilicus Urbis, Romolo collegò all’aratro un vomere di bronzo, trascinato da un bue e da una vacca, attraverso cui tracciò un solco lungo i confini. La linea rappresentava il confine del muro cittadino denominato pomerium, ovvero collocato dietro o dopo il muro. Tale muro veniva considerato sacro. Infine Plutarco ricorda che, secondo il giudizio comune, il dies natalis di Roma cadeva l’undicesimo giorno prima delle calendae di maggio, ovvero il 21 aprile, quindi sottolinea la connessione tra dies natalis della città e nascita del fondatore. È interessante a tal proposito la ricostruzione proposta dall’astronomo Taruzio, amico di Varrone, riportata da Plutarco (Rom. XII 5 - 6): «Esaminando vicende e imprese di Romolo, collegando tra loro la durata della vita, il modo in cui morì e tutti gli altri elementi dello stesso tipo, in maniera certo audace e con un bel coraggio, affermò che Romolo era stato concepito dalla madre il primo anno della seconda Olimpiade, il 23 del mese che gli Egiziani chiamano Choiak, all’ora terza, durante un’eclissi totale di sole, e che era venuto alla luce il 21 del mese di Thouth, al sorgere del sole. Roma sarebbe stata fondata da Romolo il 9 del mese di Farmuthi, tra la seconda e la terza ora: poiché gli astrologi credono che il destino di una città, come quello di un uomo, abbia un termine fatale, che si può scoprire dalla posizione degli astri al momento della sua nascita».

 

Romolo scelse di fondare la città nel giorno in cui aveva luogo un’antica festa pastorale dedicata alla dea Pales. Denominata anche Parilia o Palilia, tale festività era indicata a lettere grandi sul calendario romano ed era parte integrante del complesso delle feste più antiche della città, anteriori all’età regia. In questa data si celebravano il pasto degli ovini e un rito di purificazione di uomini, greggi e ovili. Stando alle testimonianze di Properzio (IV. I) e di Ovidio (Fast. IV 731 - 782), venivano fatti suffumigi, si spargeva fumo ottenuto bruciando sangue di un cavallo mutilato, equus curtus, sacrificato per l’occasione, insieme a ceneri di agnelli e steli di fave con aspersioni di acqua. Alle divinità venivano offerti miglio, focacce di miglio e latte.

 

L’inaugurazione del Palatino avvenne dunque in un giorno non casuale: l’unico giorno successivo al capodanno di marzo che consentiva di rispettare la relazione tra legittimazione del potere regio, nascita della città e inizio del nuovo anno. Si può dunque pensare a una relazione tra assunzione e/o legittimazione del potere regio e capodanno.

 

Per inaugurare il Palatino, Romolo scelse un templum in terra posto sul Cermalus/Palatium, al centro del limite occidentale del monte, con asse di osservazione rivolto verso il lato est del pomerium e l’ager fino al Monte Albano. Grazie alla testimonianza della celebrazione della festa di Pales in Ovidio (I. 21) è stato possibile localizzare la celebrazione del rito sul Cermalo, nella zona sud-occidentale della sommità del monte Palatino.

 

In seguito Romolo lanciò la sua asta, che si conficcò sulla cima delle Scalae Caci, trasformandosi in corniolo. Secondo Servio (in Verg., Aen. III 46), tale lancio fu il primo atto compiuto da Romolo subito dopo la presa dell’auspicio-augurio: «[…] Romolo, presi gli auguri, gettò un’asta dal monte Aventino al Palatino; ed essa, conficcandosi nel terreno, mise le fronde e divenne un albero». Per Plutarco, Romolo scagliò l’asta esclusivamente per offrire prova della propria forza.

 

A partire dal capitolo XIII il focus di Plutarco si volge alla nascita delle istituzioni. Ultimato il rito di fondazione della città, Romolo procedette alla divisione della popolazione, distinguendo i militari dalla moltitudine, populus. Chiamò poi i cento cittadini migliori per comporre il consiglio, denominandoli patrizi, mentre definì senatus il consiglio nella sua globalità.

 

La narrazione plutarchea a questo punto viene interrotta dalla digressione di sei capitoli sul ratto delle Sabine. Scrive a tal proposito: «Alcuni dicono che fu lo stesso Romolo, che per natura era bellicoso, ad aggredire per primo i Sabini, persuaso da alcuni oracoli che Roma era destinata ad accrescersi attraverso le guerre e che, ingrandendosi, sarebbe divenuta potentissima. Non catturò molte fanciulle: soltanto trenta, poiché era la guerra e non i matrimoni ciò di cui in realtà aveva bisogno» (Rom. XIV 1).

 

Dal capitolo XX al capitolo XXII vengono enumerate le riforme compiute da Romolo. Essendo raddoppiata la città, furono eletti patrizi cento Sabini, mentre le legioni ammontarono a seimila fanti e a seicento cavalieri. Vennero poi istituite tre tribù: Ramnensi, Taziensi e Luceri. Sembrerebbe che per primo Romolo abbia istituito il culto del fuoco, creando vergini sacre chiamate Vestali. Si diceva poi che fosse esperto di arte divinatoria e che portasse il cosiddetto lituo, un bastone ricurvo con cui venivano descritti i quadrati celesti. Il sovrano introdusse inoltre delle leggi, tra cui una particolarmente severa secondo cui la moglie non poteva lasciare il marito mentre la donna poteva essere ripudiata qualora avesse tentato di avvelenare i figli, di sostituire le chiavi di casa e di commettere adulterio. Infine non stabilì alcun procedimento contro i parricidi, ma definì parricidio tutte le forme di omicidio «come se l’un delitto fosse esecrabile, l’altro praticamente impossibile» (Rom. XXII 4).

 

Il capitolo XXIII della Vita di Romolo è poi dedicato a Tito Tazio, di cui viene peraltro narrata la morte violenta. Nei capitoli XXV e XXVI Plutarco ricorda le guerre sostenute da Romolo contro le città di Fidene e Veio. In particolare la guerra contro Fidene fu occasione in cui Romolo dimostrò grande abilità e coraggio «facendo ricorso a una forza e a un’agilità di gran lunga superiore all’umano» (Rom. XXV 4). Queste furono le ultime due guerre combattute da Romolo, che successivamente non poté sottrarsi a quanto accade alla maggior parte di coloro che «con grande e inaspettata fortuna hanno raggiunto potenza e prestigio» (Rom. XXVI 1). Di qui la riflessione di Plutarco sull’evoluzione in senso sempre più dispotico del regno di Romolo: «Inorgoglitosi per i successi conseguiti, con grande arroganza abbandonò la precedente tendenza democratica, per uniformarsi a un modello monarchico opprimente e intollerabile, innanzitutto per l’atteggiamento che aveva assunto. Infatti indossava un mantello purpureo e una toga bordata di porpora e concedeva udienza stando seduto su un trono ricurvo. Era sempre attorniato da alcuni giovani chiamati Celeri per la prontezza che mostravano nel compiacerlo» (Rom. XXVI 2).

 

Infine nei tre capitoli conclusivi viene narrata la misteriosa morte di Romolo. Queste le uniche parole di Plutarco: «Scomparve alle none del mese ora chiamato luglio e allora Quintile. Sulla sua morte non si può dire nulla di sicuro, né sapere niente che appaia attendibile, tranne appunto la data» (Rom. XXVII 4).

 

Ripercorrendo la parabola di vita dell’eroe fondatore di Roma, Plutarco risale alle origini della civiltà romana e latina, in una dimensione che oscilla tra il mito e la storia su cui si annidano dubbi e questioni irrisolte. A dominare è comunque la consapevolezza che dietro ogni mito si cela sempre un orizzonte di verità. Ed è proprio a partire da queste verità che la nostra historia ha avuto origine.



 

 

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