N. 21 - Febbraio 2007
DACIA: L'EVOLUZIONE STORICA DELLA ROMANIA
Il mistero della continuità storica
-
Parte IV
di Antonio Montesanti
Più che di un vero e proprio mistero, che assume connotati
piuttosto annebbiati, il “caso Romania”, a
causa del nome, delle usanze e della lingua, è
una vera e propria accezione all’interno
dell’intera Europa Orientale.
Nel sistema amministrativo provinciale romano, diversi
studiosi hanno carpito la differenza
all’interno del periodo imperiale,
suddividendolo, all’interno delle varie
correnti della storiografia
moderno-contemporanea, in “Principato” e
“Basso Impero”. Tale differenza è già evidente
nelle province sotto il totale controllo
romano, quelle per esempio all’interno del
limes, mentre per quelle al di fuori dei
confini imperiali, la discrepanza diviene
ancora più netta e soprattutto ancora più
chiara.
Anche se un po’ meno evidente appare la suddivisione
dinastico-cronologica imperiale tra i due
periodi, che alcuni studiosi tendono a
collocare tra la monarchia adrianea e la
dinastia Severiana, questa appare evidente in
ambito geografico-politico sul limes,
sui territori contigui, su quelli attigui e su
altri più distanti.
Esempio chiave è fornito dal limes scito-gotico,
nell’area ad est della regione
carpatico-danubiana, identificata con la
Dacia, dove Roma conserva ancora il controllo,
da buona erede, delle poleis eusine,
Tyras e Olbia, che sorgono rispettivamente
alle foci del Dniester e del Bug, e che
vengono perse forse già agli albori del III
sec. d.C.
In tutta la storia romana, Traiano, insieme agli effimeri
avanzamenti oltre Reno di Germanico, è l’unico
che realizza delle conquiste al di fuori del
confine reno-danubiano classico e che
definisce in province i nuovi possedimenti.
Per alcuni il periodo d’inizio e di fine
occupazione della stessa Dacia rappresenta
anche il termine cronologico di cesura tra
Principato e Basso Impero; anche se è pur vero
che per alcuni, questo è un termine troppo
posteriore per poter operare tale
suddivisione, trovandoci altresì troppo avanti
con la datazione.
Per 12 anni la Dacia fu un’unica provincia, suddivisa, con
le riforme adrianee, in due distretti fino al
123 d.C, Superior (attuale Transilvania) e
Inferior (Oltenia) quando venne ridistribuita
amministrativamente in tre regiones
provincialis: alle prime due veniva
aggiunta la Dacia Porolissensis.
La riorganizzazione definitiva, avveniva con Marco Aurelio:
nel 168 d.C, che riuniva la Dacia Inferior e
la Dacia Superior costituendo la Dacia
Apulensis da cui, un anno dopo,
distaccava la Dacia Malvensis.
Le tres provinciae dacicae – Apulensis
(centrale e carpatica),
Porolissensis
(la più settentrionale)
e la Malvensis
(la precedente Inferior, tra i Carpazi e il
Danubio)
– di fatto indipendenti, vennero assegnate alla
giurisdizione di un unico governatore supremo
di ordine senatorio, di rango consolare, che
deteneva la carica di legatus Augusti pro
praetore trium Daciarum e come tale
risiedeva nell’unica città capace di mantenere
il ruolo di capitale: Colonia Ulpia Traiana
Sarmizegetusa.
Se dapprincipio, ai Sarmati e ai Buri viene acconsentito
l’ingresso e l’insediamento nella regione,
segnali decisamente più preoccupanti
provengono per le sorti dell’Impero, dalle
steppe orientali già alla metà del III sec.
d.C, quando il controllo su Olbia da parte di
Roma è irrimediabilmente perduto e, sotto la
pesante minaccia gotica, Aureliano deciderà
l’evacuazione totale delle province
transdanubiane.
Siamo nel 256 d.C, sotto “l’imperium” di Gallieno,
quando le tribù carpiche (i daci non
sottoposti alla giurisdizione romana) trovano
un’intesa unendosi alla causa dei Visigoti che
devastano i Carpazi in lungo e largo.
L’imperatore inizia un ripiegamento delle
truppe lasciando solo alcuni avamposti tra le
montagne Transilvaniche e il Danubio.
La notizia si ritrova in Postumio Rufo Sextio Avenio (Descriptio
Orbis) che afferma chiaramente che
"all’epoca dell'Imperatore Gallieno la Dacia
venne persa definitivamente", notizia
confermata archeologicamente dalla cessazione
improvvisa di iscrizioni e monete
romane nella regione
subito dopo quel periodo.
Allora, il provvedimento operato da Aureliano (270-275 d.C.),
appena 5 anni più tardi dalla notizia su
Gallieno, non paragonabile con la coeva
secessione gallo-hispanica, diviene un puro
atto formale necessario alla salvaguardia
delle province più interne, Moesia ed
Illyria, sottoposte a devastazione
gotica di cui la Dacia rappresentava un ponte
naturale che necessitava dover essere
interrotto per poter ripristinare e salvare il
limes danubianio.
Una nuova “Dacia Aureliana” verrà riorganizzata a sud del
Danubio, con una nuova capitale a Serdica
(attuale Sofia). In seguito, con la
suddivisione tetrarchica, prima di Diocletiano
e quindi di Constantino, l’intera area
balcanica viene ridisegnata: verranno
costituite le province di Dacia Mediteranea,
Moesia Inferior, Dardania,
Prevalitania e Dacia Ripensis,
raggruppate nella Diocesi di Dacia, che a sua
volta, con la quella di Macedonia, formerà la
prefettura Pretoriana dell’Illyricum.
Il fattore che risulta misterioso va a toccare appieno un
collegamento effettivo che unisce questa
regione ad un mantenimento della struttura
civica romana.
Il fulcro della questione dibattuta si ritrova
fondamentalmente nella traccia principale che
lo Stato Romano ha lasciato, come un
profondissimo solco d’aratro nel substrato
daco-getico: la lingua.
Benché si siano date spiegazioni piuttosto convincenti
dall’una e dall’altra parte, la questione si
dibatte su due fronti, come spesso accade,
decisamente divergenti.
La presenza di un’attuale lingua neolatina nell’intera
regione, contornata da idiomi, magiari, slavi
e germanici, ha dato vita a due correnti di
pensiero, ambedue a modo loro piuttosto
convincenti. La prima tesi di tipo
medievalista vede la presenza del rumeno come
un riflusso posteriore dell’Età Media, di
elementi romani da ovest ad est del Danubio;
la seconda invece semplicizza la questione con
una visione continuativa della provincia
dacica in un sistema nazionale rumeno.
I testi su cui si basa il punto focale d’innesto di questi
due procedimenti storici è il momento in cui
viene formalizzato l’abbandono della regione,
forse ormai ridotta ad un brandello
territoriale, per indifendibilità contro i
continui ed insopportabili assalti goti.
La fonte principale è Eutropio seguito, in seconda battuta,
dalla Historia Augusta: ambedue narrano
dello sgombero o abbandono totale e di un
ripiegamento transfluviale degli abitanti
della Dacia.
Le difficoltà che ancora oggi si hanno nel consegnare una
chiara traduzione dal latino, si riflettono
anche nella notizia data da Eutropio che
restituisce un gravissimo problema
sintattico-filologico e che, a sua volta, si
tramuta, riversa e converte in un problema
storico:
Così leggiamo nel IX libro del Breviarium Historiae Romanae:
Provinciam Daciam, quam Traianus ultra
Danubium fecerat, intermisit, vastato omni
Illyrico et Moesia, desperans eam posse
retinere, abductosque Romanos ex urbibus et
agris Daciae in media Moesia collocavit
appellavitque eam Daciam, quae nunc duas
Moesias dividit et est in dextra Danubio in
mare fluenti, cum antea fuerit in laeva.
La provincia Dacia, che Traiano aveva creato
oltre il Danubio, è stata dismessa, poiché
l’intera regione Illirica e la Mesia erano
stati devastati, vedendo che era impossibile
continuare a tenerla, dopo averne allontanati
i Romani dalle città e dalle terre di Dacia li
collocò all'interno della Moesia, chiamando
quella stessa Dacia, che ora è divisa in due
Mesie, e si trova sulla sponda destra del
Danubio arriva fino al mare, mentre prima (la
Dacia) si trovava sulla riva sinistra.
Il passo che lascia discutere coloro che si
sono occupati della questione è quello che
dice
abductosque Romanos ex urbibus et agris Daciae
in media Moesia collocavit,
diversamente interpretato a seconda delle
ipotesi sostenute.
I Medievalisti, o sostenitori di una frattura
tra la romanità e la “rumenità”, leggono ex
urbibus et agris, con l’espressione che
tutti si attenderebbero ad un primo esame, con
la traduzione:
Aureliano… allontanò (o sgomberò) i Romani
dalle città e dalle campagne della Dacia
collocandoli all’interno (nel centro) della
Mesia.
In questo modo apparirebbe subito chiaro che i
Romani, comunque abitatori stabili della
Dacia, sarebbero stati deportati tutti nella
provincia di Mesia (attuale Bulgaria) e più
precisamente nel cuore (in media) di
essa e che solo in epoca medievale, in un
periodo o in un momento imprecisato, vi
sarebbero poi rientrati.
Dopotutto è vera anche una seconda traduzione,
altrettanto valida, voluta dai “continuatori”
della tradizione romana in Romania:
Aureliano… allontanò (o sgomberò) i Romani
dalle città e collocò i territori della Dacia
all’interno (nel centro) della Mesia.
Intendendo così che solo le città sarebbero
state evacuate e non le campagne e che la
provincia sarebbe stata trasferita lungo la
sponda destra del Danubio, come spiega nelle
proposizioni successive.
L’unico studioso italiano che avrebbe fatto cadere ogni
dubbio a riguardo è S. Mazzarino, il quale
riporta la relazione di Priscus, ambasciatore
romano presso la residenza di Attila nel 448
d.C, che ultimamente si vuole individure a
nord della cittadina di Comeş sul fiume Căran,
il quale dice chiaramente che non era
possibile trovare del pane di frumento o del
vino, prodotti tipicamente italici e che anzi,
come cibarie vengono offerte pagnotte di
miglio e il medos, una bevanda
fermentata a base di miele. Ciò significava
che nella regione, al confine tra le odierne
Ungheria, Serbia e Romania, non vi era più
alcuna produzione di prodotti romani.
Questa illazione è discutibile, poiché si tratta di
costumanze, che i rumeni, di stampo
balcano-carpatico-slavo conservano ancor oggi,
e non di idiomi. È necessario ricordare che in
quel periodo ci troviamo comunque in
territorio occupato da popolazioni steppiche,
in particolare da Unni e forse in quella che
era stata la residenza reale di Attila, quindi
nel cuore dei loro possedimenti.
Ben più interessante invece è sempre un altro passo dello
stesso Priscus, il quale si stupisce che uno
scita parli in greco e non in latino, dopo
avergli rivolto un saluto in lingua ellenica.
Nella regione danubiana all’epoca venivano chiamati
Scythoi, Sciti appunto, i Goti che
abitavano in area transdanubiana, inoltre il
legato aggiunge, a conferma del suo stupore,
che “gli abitanti di queste terre oltre alla
loro lingua barbarica, parlano la lingua degli
Unni o dei Goti o anche quella italiana,
quelli tra loro che abbiano frequenti rapporti
con i Romani; “il greco non viene parlato,
infatti, se non dai prigionieri traci o
macedoni”.
S. Mazzarino termina il suo ragionamento con una epitome
secondo cui: “Prisco non può essersi
ingannato, la sua testimonianza conferma che
dobbiamo prendere alla lettera Eutropio,
secondo cui Aureliano ha fatto sgomberare ai
Romani la Dacia transdanubiana, non solo nelle
città ma anche nelle campagne; Aureliano
considerava finita per sempre la romanità
della Dacia, tanto vero che creava, in
sostituzione di quella perduta, una nuova
Dacia a sud del Danubio — la Dacia Ripense e
la Mediterranea”.
Per lo storico siciliano dunque, la soluzione abbraccia
quella medievalista del riflusso trans
limes: il rumeni sarebbero confratelli
linguistici degli Aromeni, i quali sarebbero
la popolazione originaria romanizzata fuggita
dalle loro sedi intracarpatiche al momento
delle invasioni, trovando scampo a sud del
Danubio per poi rientrarvi, a nord di esso
sotto forma di coltivatori terreni e che
avrebbero portato il loro etnico Roman
simbolicamente legato alla loro origine
sociale.
In età medievale, il termine "Romania" verrà
abusato ed indicava i possedimenti di aree di
confine dell’Impero Bizantino, che continuerà
a chiamarsi Rhomaion Basilikon.
Si tratta di frazioni imperiali, come le “Marchen”
del Sacro Romano Impero di Carlo Magno, dove
l’esempio più evidente è dato dall’uso,
all’interno dell’Impero Greco dei Romani di
una lingua latina o “romana”, come nel caso
della regione di Ravenna che portava lo stesso
nome, Romanìa per l’appunto dove si parlava
una lingua che i greci (bizantini), allora
come oggi, chiamano Rhomaicos per
intendere una lingua parlata dal popolo e che
noi conosciamo sotto il nome di romaica o
demotica.
Venezia stessa definirà sempre i suoi
possedimenti orientali "Romània".
Per indicare l’attuale regione romena, come
nominale distintivo, per indicare le terre
transdanubiane fino ad allora si dava il nome
di Valacchia o Moldavia, per denominare i
principati danubiani a maggioranza rumena,
mentre i Valacchi, venivano chiamate le genti
rumene. Solo dal XIX secolo, le popolazioni di
Valacchia, Moldavia ed in seguito
Transilvania, latine di lingua e di
sentimenti, eredi della civiltà latina
nell’Europa Slava, rivendicarono la propria
diversità autoappellandosi definitivamente,
all’interno dello scacchiere nazionalistico
moderno, Rumeni o Romeni,
chiamando l'antico principato di Valacchia,
nucleo effettivo della Provincia Dacia:
Ţara Românească" (Nazione Romena).
L’ultima frase del paragrafo sul “Problema dell’origine e
della formazione del popolo rumeno” del
Mazzarino è epilogativa della situazione e
spigherebbe la nascita dei Romeni e della
Romani.
La loro lingua è “la lingua degli Italiani”
che si riflette negli aspetti fonetici che la
confrontano col fenomeno neolatino d'Italia.
Tuttavia essa, come ogni punto toccato dal grande storico,
lascia degli spiragli contrapposti al
ragionamento lineare conclusivo, con elementi
contenuti nel discorso di Prisco - “…parlano
anche la lingua… italiana” – ma se questa
lingua degli Aromeni o la loro comunità
avrebbe invaso nuovamente la Dacia
transdanubiana, dobbiamo chiederci perché la
sovrapposizione linguistico-geografica,
corrisponde perfettamente con i confini romeni
e non sconfina all’interno dei confini
bulgari, slavi o magiari?
La composizione nazionale della Romania, se così fosse,
cioè una composizione o riflusso medievale,
sarebbe un accorpamento posticcio di razze e
idiomi, laddove questo è evidente non essere
così: un popolo attualmente orgoglioso della
sua identità nazionale, dei suoi usi, costumi
ed origine, pur riconoscendo alla romanità il
grande ruolo unificatore e coesivo, a cui
assimilarono ciò di cui avevano bisogno e
riconoscendolo come parte della loro cultura.
Così come un processo storico è parte
integrante della cultura di un popolo.
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