[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

162 / GIUGNO 2021 (CXCIII)


antica

SUL TRIBUNATO DELLA PLEBE

L’ISTITUZIONE RIVOLUZIONARIA DI ROMA

di Valerio Acri

 

La straordinaria storia di Roma racchiude numerosi fatti e accadimenti che, pur avendo concorso a renderla tale, nel processo di consegna ai posteri sono inevitabilmente rimasti sullo sfondo e in secondo piano rispetto a eventi fondanti come la vittoria di Zama, il passaggio del Rubicone o la svolta cristiana di Costantino. Tra questi risulta particolarmente significativo indagarne uno, ovvero l’istituzione del Tribunato della plebe, databile agli inizi del V Secolo a.C., per comprendere come e quanto esso abbia influenzato l’intero corso repubblicano dell’Urbe.

 

Occorre in questo senso risalire all’organizzazione sociale arcaica di una Roma agli albori del suo splendore, in procinto di abbandonare la monarchia e ancora faticosamente impegnata nella ricerca di una supremazia regionale. La destituzione di Tarquinio il Superbo è l’evento convenzionalmente associato alla fine dell’esperienza monarchica seguito da un processo di transizione verso l’età repubblicana che poté presumibilmente essere più lungo di quanto gli autori latini ci abbiano raccontato.

 

A ogni modo esso determinò l’emergere di quella dicotomia tra patrizi e plebei che, pur essendosi prestata a diverse letture, è incontestabilmente un imprescindibile elemento interpretativo della storia romana così come raccontataci da Tito Livio e dalle altre fonti pervenuteci. In realtà, nella sua Ab Urbe Condita, lo stesso Livio fatica a delineare le esatte ragioni alla base di questa spaccatura e a illustrare puntualmente quali fossero i componenti dei due gruppi.

 

L’interpretazione storica più ortodossa ha consentito di identificare i patrizi con i discendenti dei membri scelti originariamente da Romolo (i Patres) per formare il primo organo consultivo conosciuto di Roma ovvero il Senato. Per ciò che concerne i plebei le diverse ipotesi avanzate dagli studiosi autorizzano comunque a sottolineare che la loro distinzione dai patrizi non fosse riconducibile esclusivamente a ragioni di ordine economico o legate al censo.

 

È dunque sostanzialmente plausibile che i plebei protagonisti della secessione sul Monte Sacro (secondo altre fonti sull’Aventino, il colle di Remo, la data è collocata tradizionalmente al 494 a.C.) comprendessero anche romani ricchi e ambiziosi, in quanto tali non più disposti ad ammettere il monopolio patrizio delle cariche pubbliche. Una condizione di privilegio che un ristretto gruppo di famiglie si era conquistato forse già nel periodo monarchico arrogandosi l’esclusiva degli auspicia, lo speciale potere di consultare il volere degli dèi, passaggio obbligato prima di prendere importanti decisioni politiche o militari.

 

Questa prerogativa concedeva al patriziato anche la possibilità di riservarsi le cariche di rex sacrorum, ovvero il sacerdote che assunse i compiti religiosi del Re dopo la caduta della monarchia, o di interreges, coloro i quali governarono provvisoriamente ogniqualvolta i consoli fossero venuti a mancare perché caduti in battaglia o per invalidità delle elezioni.

 

Ci furono ovviamente anche delle rivendicazioni più strettamente sociali all’origine dell’agitazione plebea, su tutte l’ammorbidimento della severa procedura regolante i debiti che poteva ridurre in schiavitù chiunque non riuscisse a ripagare i propri creditori. Al di là di come effettivamente si palesò – secondo Livio e Dionigi di Alicarnasso fu una secessione armata di soldati che abbandonarono i loro comandanti mentre Plutarco parla di un iniziale stato di rivolta al quale seguì uno sciopero civile – e dell’opera mediatrice del senatore Menenio Agrippa Lanato, la cosiddetta prima secessione della plebe risulterà determinante nel corso dei secoli per i suoi esiti.

 

Messo alle strette, il Senato accordò ai ribelli la facoltà di eleggere due magistrati, i tribuni della plebe, che avrebbero trasformato nel tempo l’intero impianto giuridico di Roma consentendo alla plebs di costituirsi come una sorta di Stato entro lo Stato. La loro autorità fu ab origine sacrosancta, ovvero non traeva fondamento da alcuna legge scritta – le prime leggi scritte comparirono peraltro solo in seguito –, ma solamente dal giuramento solenne dei plebei di appoggiarla senza riserve aiutandosi reciprocamente, e i poteri loro assegnati, essenzialmente oppositivi, si riassumevano nell’auxilium, ovvero il compito di tutelare gli individui contro le azioni arbitrarie dei consoli, e nell’intercessio, la possibilità di porre un veto a qualsivoglia atto o decreto ritenuto lesivo.

 

L’elezione dei tribuni venne da subito regolamentata attraverso la costituzione di un concilium plebis, un’assemblea di soli plebei articolata per tribù che si riunivano come unità votanti formando i comitia tributa. Essi seppero rapidamente imporsi come un’efficiente assemblea deliberativa accentuando il carattere rivoluzionario del tribunato che rimase tale almeno fino alla sua integrazione nell’ordinamento costituzionale romano. Secondo l’interpretazione più diffusa questo avvenne con la Lex Hortensia del 287 a.C. circa, la cui promulgazione equiparò le decisioni dei comitia tributa (i plebiscita) a leggi vere e proprie, dunque vincolanti per tutti, plebei e non.

 

In realtà tracce di plebiscita con forza di legge vengono menzionate da Livio anche prima, in particolare la Lex Icilia de Aventino publicando del 456 a.C. e la Lex Publilia del 339 a.C, ma quel che conta è che i tribuni (pur essendo loro precluso l’imperium, ovvero il comando militare) avessero de facto prerogative per certi versi superiori a quelle di qualunque altro magistrato senza essere formalmente dei magistrati, dal momento che le loro deliberazioni impattavano inevitabilmente su tutta la società. Esemplare in questo senso il plebiscito Canuleio, dal nome dell’omonimo tribuno che nel 445 a.C. circa sancì l’abrogazione della legge con la quale si vietavano i matrimoni tra patrizi e plebei.

 

Prima ancora un altro tribuno – Caio Terentilio Arsa secondo il racconto di Livio – aveva richiesto a gran voce una redazione scritta delle leggi, passaggio fondamentale per portare alla luce gli atti segreti del potere e perché i plebei potessero progredire nella conoscenza del diritto e delle procedure di governo. Si trattò a tutti gli effetti della prosecuzione di una Rivoluzione giuridica nata in nome di una parità politica all’interno della Res Publica che di lì a poco avrebbe governato su buona parte del mondo conosciuto.

 

Dopo un’iniziale resistenza il Senato, come nella secessione del 494, accolse suo malgrado la proposta tribunizia istituendo un Decemvirato, ovvero una commissione di dieci persone – con potere consolare come scrive Cicerone – incaricata di codificare e promulgare le leggi, una sorta di svelamento di quelle idee democratiche provenienti dalla Grecia di Pericle e alle quali Roma, da potenza nascente qual era, non poteva rimanere insensibile.

 

L’intercessione del tribunato consentì dunque l’ascesa sociale e politica dei plebei che si completò in qualche modo tra il 367 e il 342 con l’approvazione delle rogazioni dei tribuni Licinio Stolone e Sestio Laterano: oltre a porre importanti restrizioni alla pratica dell’usura e al possesso di terreno pubblico, le Leges Liciniae-Sextae determinarono l’ammissione dei plebei al collegio sacerdotale per lo svolgimento dei sacrifici religiosi e, soprattutto, li resero eleggibili per la massima carica repubblicana ovvero il consolato.

 

Tra il quarto e il secondo secolo a.C., complice anche un declino numerico del patriziato – da un certo momento in poi lo status di patrizio non venne più attribuito automaticamente ai figli dei Patres – il popolo romano era ormai in stragrande maggioranza identificabile con la plebs e una nobiltà mista patrizio-plebea lo guidava nella conquista dell’Italia, del Mediterraneo e dell’Oriente.

 

Quando, sul finire del secondo secolo a.C., la scena politica romana accolse i due tribuni più celebri, i fratelli Tiberio e Caio Gracco, le tensioni sociali che un tempo furono tra patrizi e plebei si stavano riproponendo tra cittadini romani e alleati italici. Attraverso il tribunato, ormai stabilmente nel cursus honorum dei plebei, i Gracchi si lanciarono arditamente in un progetto di riforma agraria-istituzionale che era una sfida aperta all’oligarchia senatoria, costretta a ricorrere al crimine per fermarli.

 

In piena guerra civile Lucio Cornelio Silla individuò nell’esautorazione del tribunato della plebe la mossa risolutiva per evitare il baratro dell’anarchia sembrando riecheggiare le parole del leggendario Coriolano che, nella biografia di Plutarco, additò la sua istituzione come “rovina del consolato e dell’unità dei romani”. La restaurazione sillana riuscì in realtà solamente a sancire alcune limitazioni della tribunicia potestas che vennero peraltro abrogate alcuni anni più tardi dal neo-console Gneo Pompeo.

 

La ratio popularis formulata dai Gracchi continuò invece ad attrarre politicamente per la sua capacità di creare una base fra la popolazione urbana al punto che un patrizio di nascita come Publio Clodio rinunciò al suo status facendosi adottare da una famiglia plebea per poter essere eletto tribuno nel 58 a.C. e decretare così contemporaneamente l’allontanamento diplomatico di Catone Uticense e l’esilio di Cicerone, e con essi forse il crepuscolo delle ultime speranze repubblicane di Roma.

 

Appena un anno prima il sostegno sfrontato alle Leges Vatiniae varate dal tribuno Publio Vatinio – che prevedevano tra le altre assegnazioni di ager comune di graccana memoria a veterani e meno abbienti – avevano consentito a Giulio Cesare non solamente di ottenere il comando della Gallia Cisalpina e dell’Illiria ma anche di allargare il suo già ampio seguito popolare. I plebiscita di Vatinio gli concessero inoltre la prerogativa della nomina dei legati, una pertinenza da sempre spettante al Senato, ormai prossimo a essere relegato all’ombra di un princeps.

 

Divenuto padrone incontrastato di Roma, Cesare volle rimarcare la sacrosanctitas della sua figura di dictator et imperator facendosi attribuire la potestà tribunizia che, ugualmente, legittimò più tardi anche il principato di Ottaviano. Dopo aver rinunciato alla reiterazione del consolato e insignito dal Senato del titolo di Augusto, egli assunse infatti nel 23 a.C. quella autorità giudiziaria e legislativa propria dei tribuni della plebe che, da quel momento in avanti, cessò la sua funzione di contropotere per divenire suprema nelle mani di un solo uomo al comando dell’Impero.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Robert M. Ogilvie, Le origini di Roma, traduzione di Milena Dai Pra Piovesana, Il Mulino, Bologna 1984.

Plutarco, Vite Parallele, Vol. II, a cura di Domenico Magnino, UTET, Torino 2013.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]