antica
SUL
TRIBUNATO DELLA PLEBE
L’ISTITUZIONE RIVOLUZIONARIA DI ROMA
di Valerio Acri
La straordinaria storia di Roma
racchiude numerosi fatti e accadimenti
che, pur avendo concorso a renderla
tale, nel processo di consegna ai
posteri sono inevitabilmente rimasti
sullo sfondo e in secondo piano rispetto
a eventi fondanti come la vittoria di
Zama, il passaggio del Rubicone o la
svolta cristiana di Costantino. Tra
questi risulta particolarmente
significativo indagarne uno, ovvero
l’istituzione del Tribunato della plebe,
databile agli inizi del V Secolo a.C.,
per comprendere come e quanto esso abbia
influenzato l’intero corso repubblicano
dell’Urbe.
Occorre in questo senso risalire
all’organizzazione sociale arcaica di
una Roma agli albori del suo splendore,
in procinto di abbandonare la monarchia
e ancora faticosamente impegnata nella
ricerca di una supremazia regionale. La
destituzione di Tarquinio il Superbo è
l’evento convenzionalmente associato
alla fine dell’esperienza monarchica
seguito da un processo di transizione
verso l’età repubblicana che poté
presumibilmente essere più lungo di
quanto gli autori latini ci abbiano
raccontato.
A ogni modo esso determinò l’emergere di
quella dicotomia tra patrizi e plebei
che, pur essendosi prestata a diverse
letture, è incontestabilmente un
imprescindibile elemento interpretativo
della storia romana così come
raccontataci da Tito Livio e dalle altre
fonti pervenuteci. In realtà, nella sua
Ab Urbe Condita, lo stesso Livio
fatica a delineare le esatte ragioni
alla base di questa spaccatura e a
illustrare puntualmente quali fossero i
componenti dei due gruppi.
L’interpretazione storica più ortodossa
ha consentito di identificare i patrizi
con i discendenti dei membri scelti
originariamente da Romolo (i Patres)
per formare il primo organo consultivo
conosciuto di Roma ovvero il Senato. Per
ciò che concerne i plebei le diverse
ipotesi avanzate dagli studiosi
autorizzano comunque a sottolineare che
la loro distinzione dai patrizi non
fosse riconducibile esclusivamente a
ragioni di ordine economico o legate al
censo.
È dunque sostanzialmente plausibile che
i plebei protagonisti della secessione
sul Monte Sacro (secondo altre fonti
sull’Aventino, il colle di Remo, la data
è collocata tradizionalmente al 494
a.C.) comprendessero anche romani ricchi
e ambiziosi, in quanto tali non più
disposti ad ammettere il monopolio
patrizio delle cariche pubbliche. Una
condizione di privilegio che un
ristretto gruppo di famiglie si era
conquistato forse già nel periodo
monarchico arrogandosi l’esclusiva degli
auspicia, lo speciale potere di
consultare il volere degli dèi,
passaggio obbligato prima di prendere
importanti decisioni politiche o
militari.
Questa prerogativa concedeva al
patriziato anche la possibilità di
riservarsi le cariche di rex sacrorum,
ovvero il sacerdote che assunse i
compiti religiosi del Re dopo la caduta
della monarchia, o di interreges,
coloro i quali governarono
provvisoriamente ogniqualvolta i consoli
fossero venuti a mancare perché caduti
in battaglia o per invalidità delle
elezioni.
Ci furono ovviamente anche delle
rivendicazioni più strettamente sociali
all’origine dell’agitazione plebea, su
tutte l’ammorbidimento della severa
procedura regolante i debiti che poteva
ridurre in schiavitù chiunque non
riuscisse a ripagare i propri creditori.
Al di là di come effettivamente si
palesò – secondo Livio e Dionigi di
Alicarnasso fu una secessione armata di
soldati che abbandonarono i loro
comandanti mentre Plutarco parla di un
iniziale stato di rivolta al quale seguì
uno sciopero civile – e dell’opera
mediatrice del senatore Menenio Agrippa
Lanato, la cosiddetta prima secessione
della plebe risulterà determinante nel
corso dei secoli per i suoi esiti.
Messo alle strette, il Senato accordò ai
ribelli la facoltà di eleggere due
magistrati, i tribuni della plebe, che
avrebbero trasformato nel tempo l’intero
impianto giuridico di Roma consentendo
alla plebs di costituirsi come
una sorta di Stato entro lo Stato. La
loro autorità fu ab origine
sacrosancta, ovvero non traeva
fondamento da alcuna legge scritta – le
prime leggi scritte comparirono peraltro
solo in seguito –, ma solamente dal
giuramento solenne dei plebei di
appoggiarla senza riserve aiutandosi
reciprocamente, e i poteri loro
assegnati, essenzialmente oppositivi, si
riassumevano nell’auxilium,
ovvero il compito di tutelare gli
individui contro le azioni arbitrarie
dei consoli, e nell’intercessio,
la possibilità di porre un veto a
qualsivoglia atto o decreto ritenuto
lesivo.
L’elezione dei tribuni venne da subito
regolamentata attraverso la costituzione
di un concilium plebis,
un’assemblea di soli plebei articolata
per tribù che si riunivano come unità
votanti formando i comitia tributa.
Essi seppero rapidamente imporsi come
un’efficiente assemblea deliberativa
accentuando il carattere rivoluzionario
del tribunato che rimase tale almeno
fino alla sua integrazione
nell’ordinamento costituzionale romano.
Secondo l’interpretazione più diffusa
questo avvenne con la Lex Hortensia
del 287 a.C. circa, la cui promulgazione
equiparò le decisioni dei comitia
tributa (i plebiscita) a
leggi vere e proprie, dunque vincolanti
per tutti, plebei e non.
In realtà tracce di plebiscita
con forza di legge vengono menzionate da
Livio anche prima, in particolare la
Lex Icilia de Aventino publicando
del 456 a.C. e la Lex Publilia
del 339 a.C, ma quel che conta è che i
tribuni (pur essendo loro precluso l’imperium,
ovvero il comando militare) avessero
de facto prerogative per certi versi
superiori a quelle di qualunque altro
magistrato senza essere formalmente dei
magistrati, dal momento che le loro
deliberazioni impattavano
inevitabilmente su tutta la società.
Esemplare in questo senso il plebiscito
Canuleio, dal nome dell’omonimo tribuno
che nel 445 a.C. circa sancì
l’abrogazione della legge con la quale
si vietavano i matrimoni tra patrizi e
plebei.
Prima ancora un altro tribuno – Caio
Terentilio Arsa secondo il racconto di
Livio – aveva richiesto a gran voce una
redazione scritta delle leggi, passaggio
fondamentale per portare alla luce gli
atti segreti del potere e perché i
plebei potessero progredire nella
conoscenza del diritto e delle procedure
di governo. Si trattò a tutti gli
effetti della prosecuzione di una
Rivoluzione giuridica nata in nome di
una parità politica all’interno della
Res Publica che di lì a poco avrebbe
governato su buona parte del mondo
conosciuto.
Dopo un’iniziale resistenza il Senato,
come nella secessione del 494, accolse
suo malgrado la proposta tribunizia
istituendo un Decemvirato, ovvero una
commissione di dieci persone – con
potere consolare come scrive Cicerone –
incaricata di codificare e promulgare le
leggi, una sorta di svelamento di quelle
idee democratiche provenienti dalla
Grecia di Pericle e alle quali Roma, da
potenza nascente qual era, non poteva
rimanere insensibile.
L’intercessione del tribunato consentì
dunque l’ascesa sociale e politica dei
plebei che si completò in qualche modo
tra il 367 e il 342 con l’approvazione
delle rogazioni dei tribuni Licinio
Stolone e Sestio Laterano: oltre a porre
importanti restrizioni alla pratica
dell’usura e al possesso di terreno
pubblico, le Leges Liciniae-Sextae
determinarono l’ammissione dei plebei al
collegio sacerdotale per lo svolgimento
dei sacrifici religiosi e, soprattutto,
li resero eleggibili per la massima
carica repubblicana ovvero il consolato.
Tra il quarto e il secondo secolo a.C.,
complice anche un declino numerico del
patriziato – da un certo momento in poi
lo status di patrizio non venne
più attribuito automaticamente ai figli
dei Patres – il popolo romano era
ormai in stragrande maggioranza
identificabile con la plebs e una
nobiltà mista patrizio-plebea lo guidava
nella conquista dell’Italia, del
Mediterraneo e dell’Oriente.
Quando, sul finire del secondo secolo
a.C., la scena politica romana accolse i
due tribuni più celebri, i fratelli
Tiberio e Caio Gracco, le tensioni
sociali che un tempo furono tra patrizi
e plebei si stavano riproponendo tra
cittadini romani e alleati italici.
Attraverso il tribunato, ormai
stabilmente nel cursus honorum
dei plebei, i Gracchi si lanciarono
arditamente in un progetto di riforma
agraria-istituzionale che era una sfida
aperta all’oligarchia senatoria,
costretta a ricorrere al crimine per
fermarli.
In piena guerra civile Lucio Cornelio
Silla individuò nell’esautorazione del
tribunato della plebe la mossa
risolutiva per evitare il baratro
dell’anarchia sembrando riecheggiare le
parole del leggendario Coriolano che,
nella biografia di Plutarco, additò la
sua istituzione come “rovina del
consolato e dell’unità dei romani”. La
restaurazione sillana riuscì in realtà
solamente a sancire alcune limitazioni
della tribunicia potestas che
vennero peraltro abrogate alcuni anni
più tardi dal neo-console Gneo Pompeo.
La ratio popularis formulata dai
Gracchi continuò invece ad attrarre
politicamente per la sua capacità di
creare una base fra la popolazione
urbana al punto che un patrizio di
nascita come Publio Clodio rinunciò al
suo status facendosi adottare da una
famiglia plebea per poter essere eletto
tribuno nel 58 a.C. e decretare così
contemporaneamente l’allontanamento
diplomatico di Catone Uticense e
l’esilio di Cicerone, e con essi forse
il crepuscolo delle ultime speranze
repubblicane di Roma.
Appena un anno prima il sostegno
sfrontato alle Leges Vatiniae
varate dal tribuno Publio Vatinio – che
prevedevano tra le altre assegnazioni di
ager comune di graccana memoria a
veterani e meno abbienti – avevano
consentito a Giulio Cesare non solamente
di ottenere il comando della Gallia
Cisalpina e dell’Illiria ma anche di
allargare il suo già ampio seguito
popolare. I plebiscita di Vatinio
gli concessero inoltre la prerogativa
della nomina dei legati, una pertinenza
da sempre spettante al Senato, ormai
prossimo a essere relegato all’ombra di
un princeps.
Divenuto padrone incontrastato di Roma,
Cesare volle rimarcare la
sacrosanctitas della sua figura di
dictator et imperator facendosi
attribuire la potestà tribunizia che,
ugualmente, legittimò più tardi anche il
principato di Ottaviano. Dopo aver
rinunciato alla reiterazione del
consolato e insignito dal Senato del
titolo di Augusto, egli assunse infatti
nel 23 a.C. quella autorità giudiziaria
e legislativa propria dei tribuni della
plebe che, da quel momento in avanti,
cessò la sua funzione di contropotere
per divenire suprema nelle mani di un
solo uomo al comando dell’Impero.
Riferimenti bibliografici:
Robert M. Ogilvie, Le origini di Roma,
traduzione di Milena Dai Pra Piovesana,
Il Mulino, Bologna 1984.
Plutarco, Vite Parallele, Vol. II,
a cura di Domenico Magnino, UTET, Torino
2013. |