N. 33 - Settembre 2010
(LXIV)
La religione di Roma antica
effetti delle guerre puniche
di Salvina Pizzuoli
La
storia
del
pensiero
religioso
dei
Romani
si
snoda
essenzialmente
su
quattro
periodi
corrispondenti
ad
altrettante
fasi
della
storia
romana:
il
primo
va
dalle
origini
fino
alla
cacciata
dei
re;
il
secondo
fino
alla
seconda
guerra
punica;
il
terzo
fino
alla
fine
della
repubblica;
quindi
l’età
imperiale.
La
storia
di
Roma
si
fonde
con
quella
della
sua
religione
che
si
configura,
sin
dagli
inizi,
come
un’istituzione
dello
stato.Il
pensiero
religioso
romano
è
tra
i
più
documentati,
ma
rimane
comunque
complesso.
Alle
origini
a
Roma,
come
in
molte
altre
civiltà,
il
magico
era
parte
integrante
della
vita
quotidiana:
un
fluido
vitale
e
immanente
governava
la
vita
degli
uomini
e
ingraziarsi
le
potenze
che
lo
possedevano
era
una
necessità.
Per
superare
le
paure
del
divino
occorreva
pertanto
legare,
vincolare
la
volontà
degli
dei
con
attenti
e
accurati
cerimoniali.
Il
rito
propiziatorio
si
configurava
come
sacro,
intendendo
con
tale
termine
quanto
esso
stesso
riporta
nel
proprio
etimo:
sacer
è
tutto
ciò
che
appartiene
al
mondo
del
divino,
ciò
che
appartiene
all’uomo
è
invece
profanus.
Sacer
conserva
però
traccia
anche
della
sua
etimologia
indeuropea
di
rito;
occorre
un
rituale
per
mettere
i
due
mondi
in
relazione,
per
garantire
all’uomo
un
contatto
con
il
divino
con
il
quale
occorre
instaurare
e
mantenere
un
buon
accordo:
la
pax
deorum.
Mantenere
la
pax
deorum
era
quindi
fondamentale
perché
era
temporanea
e
andava
costantemente
disciplinata
con
interventi
che
non
offendessero
le
divinità
con
riti
imprecisi
o
scarsamente
devoti;
quasi
un
contratto
tra
l’uomo
e il
dio,
si
fondava
sul
rito
eseguito
in
modo
corretto,
anche
se,
nei
primi
tempi,
era
più
vicino
e
più
rispondente
ad
esigenze
magiche.
La
rottura
del
contratto
si
manifestava
con
i
prodigi,
letti
sempre
come
sfavorevoli,
assunsero
carattere
di
presagio,
fausto
o
infausto,
solo
dopo
il
III
secolo
a.C.
Verrà
così
ad
accumularsi
nel
tempo
una
raccolta
di
prescrizioni
per
regolare
la
condotta
umana
e
renderla
ben
accetta
all’
essere
divino,
la
religio,
da
non
confondere
con
l’accezione
odierna
di
religione;
a
Roma
infatti
con
tale
termine
si
indicava
sia
un
atteggiamento
nei
confronti
del
soprannaturale,
sia
i
fenomeni
naturali
inspiegabili,
sia
la
sfera
divina,
sia
le
pratiche
del
culto;
in
questo
termine
convivevano
timore
e
rispetto
connessi
con
l’obbligo
e il
vincolo,
in
una
prassi
rituale
quasi
ossessiva.
Le
due
sfere
principali
che
regolavano
la
vita
del
singolo
e
della
comunità,
quella
civile
e
quella
divina,
si
trovavano
quindi
a
coincidere
nel
concetto
di
dovere:
verso
lo
Stato
e
verso
le
divinità.
La
religio
si
connetteva
con
il
rituale;
la
pietas,
la
devozione,
si
risolveva
in
un
percorso
freddo,
calcolato
e
impostato
sull’esecuzione
di
quanto
agli
dei
è
dovuto
o
gradito,
al
fine
di
predisporli
in
modo
benevolo.
La
religio
quindi
con
i
suoi
rituali
prescritti
e
puntuali
è
una
religione
di
Stato
complessa,
ufficiale
e
pragmatica
che
non
offre
elementi
emotivi,
ma
si
muove
solo
sulla
base
del
giusto
e
del
doveroso.
Nella
Roma
antica,
dalle
origini
fino
all’
incontro
con
le
civiltà
orientali
e
soprattutto
con
la
filosofia
e la
cultura
greca,
coesistevano
una
visione
animistica
del
mondo
accompagnata
da
riti
a
carattere
apotropaico,
sistematizzati
nella
ritualità
rigorosa,
pragmatica
e
ufficiale;
era
pertanto
difficile
delimitare
i
confini
tra
le
ritualità
magiche
legate
allo
spirito
religioso
delle
origini
e le
pratiche
della
religio;
anche
nel
mondo
colto
possiamo
trovare
conferma
di
una
spiritualità
composita
che
riconosce
sia
i
poteri
della
magia
sia
quelli
delle
pratiche
religiose.
Plinio
nella
Naturalis
Historia
elenca
infatti
i
benefici
magici
di
piante,
animali
e
pietre
e
nel
trentesimo
libro
si
sofferma
sulla
magia
attribuendole
valore
di
scienza
che
ne
incontra
e
abbraccia
altre
tre;
scrive
infatti
che
“essa
deriva
dalla
medicina,
che
coniuga
la
forza
della
religione
con
gli
allettamenti
che
le
sono
propri,
che
usa
le
leggi
matematiche,
che
governano
gli
astri,
soddisfacendo
l’ansia
di
ogni
uomo
di
conoscere
il
proprio
futuro”.
Ma a
questo
elogio
aggiunge
anche
che
“è
un’arte
detestabile,
impotente,
vana,
e
tuttavia
possiede
alcune
ombre
di
verità”;
una
definizione
decisamente
ambigua,
ma
che
sottintende
la
convinzione,
non
solo
degli
strati
più
popolari,
della
capacità
dell’uomo
di
manipolare
il
mondo
soprannaturale,
sebbene
con
qualche
scetticismo
e
distacco.
A
Roma
la
tendenza
era
comunque
quella
di
incanalare
le
pratiche
di
magia
tollerate
nelle
ritualità
ufficiali,
in
modo
che
potessero
essere
controllate.
Ad
un
certo
punto
della
storia
della
società
romana,
qualcosa
di
dirompente
si
intrometterà
tra
la
società
civile
e lo
stato;
qualcosa
che
porterà
a
mutare
l’atteggiamento
del
cittadino
romano
e lo
spingerà
ad
accogliere
nuove
teorie
attraverso
le
quali
indagare
il
mondo
degli
uomini
e
quello
naturale,
attingendo
dalla
filosofia
greca,
aprendo
ad
altre
modalità
con
le
quali
rispondere
a
desideri,
aspettative,
illusioni,
paure.
Qualcosa
infatti
riuscirà
a
scatenare
angosce
così
profonde
nell’animo
del
civis,
da
spingerlo
a
rivolgersi
a
nuovi
riti,
a
divinità
straniere,
a
leggere
nei
prodigi
della
natura
messaggi
di
catastrofi
imminenti,
considerandoli
annunciatori
della
collera
divina.
In
molti
segnano
nelle
guerre
puniche
un
momento
fondamentale
di
passaggio
per
il
civis
romanus,
uomo
operoso,
pratico,
convinto
dell’efficacia
dei
riti
e
dei
culti
riconosciuti
ufficialmente,
verso
forme
di
dilagante
misticismo
e di
incredulità
nei
confronti
delle
antiche
pratiche
della
religio,
che
non
ritiene
da
sole
capaci
di
scacciare
un
pericolo
così
possente
e
destabilizzante
nato
dalle
guerre
annibaliche;
l’annuncio
della
disfatta
della
battaglia
di
Canne
scatenò
infatti
sgomento
e
incertezza
verso
le
istituzioni
e il
futuro
della
comunità.
E’
la
seconda
guerra
punica
a
segnare
un
confine
non
solo
nell’ambito
del
pensiero
religioso,
ma
anche
in
tutta
la
visione
del
mondo
da
parte
del
civis.
Livio
raccontando
nella
storia
di
Roma
gli
avvenimenti
legati
alla
guerra
annibalica,
scrive
chiaramente
che
ora
i
successi
ora
i
rovesci
facevano
variare
non
tanto
la
situazione
quanto
lo
stato
d’animo
degli
uomini,
un’ondata
di
superstizioni,
in
gran
parte
venute
dal
di
fuori,
al
punto
che
all’improvviso
o
gli
uomini
o
gli
dei
non
sembravano
gli
stessi.
Non
solo
in
segreto
tra
le
pareti
domestiche
cadevano
in
disuso
le
cerimonie
religiose
dei
Romani,
ma
anche
in
pubblico
(
libro
XXV,
1) ;
a
questo
marasma
fa
riscontro
la
posizione
netta
del
Senato
che
vi
contrappone
il
rigido
cerimoniale
della
religione
tradizionale.
La
seconda
guerra
punica
(218-202)
è
contrassegnata
da
tragiche
sconfitte
per
i
Romani,
ma
si
conclude
vittoriosamente
con
la
battaglia
conosciuta
con
il
nome
di
Zama,
ma
combattuta
tra
Zama
e
Naraggara.
Molte
le
forze
impegnate
dell’una
e
l’altra
parte
in
conflitto;
notevoli
le
conseguenze
in
ambito
socio-politico-economico,
almeno
tanto
quanto
lo
furono
gli
eventi:
durata
quasi
vent’anni
aveva
causato
perdite
notevoli
di
vite
umane
con
la
morte
di
circa
trecentomila
uomini;
portò
Roma
alle
soglie
dell’impero
e
Cartagine
alla
decadenza;
da
società
prevalentemente
rurale,
Roma
divenne
una
potenza
commerciale
e
anche
marittima;
da
quel
momento
Roma
inaugurerà
una
politica
sempre
più
di
tipo
imperialista
che
produrrà
un
profondo
cambiamento
sociale
legato
alla
nascita
di
una
potente
e
nuova
borghesia.
Le
ripercussioni
in
ambito
più
propriamente
religioso
si
palesano
dall’annientamento
di
Cartagine:
dopo
il
terrore
prodotto
dalle
vittorie
di
Annibale,
alla
felice
conclusione
del
conflitto
fece
eco
un’ondata
di
misticismo
eversivo
accompagnato
da
un’
acuta
incredulità
religiosa.
La
storia
di
Roma
non
era
stata
certamente
estranea
alla
magia
se
molti
riti
si
correlavano
con
le
arti
magiche
apotropaiche
e
neppure
alla
magia
nera
se
le
leggi
delle
XII
tavole
ne
punivano
i
reati,
ma
solo
dalle
guerre
puniche
e, a
seguire,
dalle
guerre
civili,
si
assiste
ad
una
sempre
maggiore
attenzione
a
cerimoniali
che
sconfinano
nella
superstizione
e
nella
magia
oscura,
mentre
divinità
del
vicino
oriente
sostituiscono
il
culto
degli
antichi
dei:
già
nel
II
secolo
a.C.
erano
diffusi
i
culti
di
Iside
e
Serapide,
di
Mitra
o
della
dea
Ma,
romanizzata
in
Bellona;
verso
la
fine
della
repubblica
inoltre
i
misteri
dionisiaci
erano
celebrati
in
molte
città
della
Campania.
Decisa
fu
la
reazione
dei
difensori
della
religione
ufficiale
tra
i
quali
lo
stesso
Cicerone,
ma
non
mancarono
voci
dissenzienti
come
quella
di
Lucrezio.
Nel
suo
poema
De
rerum
natura
(I
secolo
a.C),
il
poeta
dedica
nel
primo
libro
un
elogio
ad
Epicuro
che
con
la
sua
dottrina
tendeva
a
liberare
l’uomo
dall’ossessione
del
divino
inteso
come
timore
irragionevole
verso
gli
dei
e la
morte,
ossessione
veicolata
dalle
pratiche
religiose
della
religio
ufficiale
e
pertanto
considerate
negative
e
lesive
dell’intelligenza
del
popolo.
La
vera
pietas
secondo
il
poeta
risiede
in
quella
filosofia
che
aiuta
l’uomo
a
liberarsi
da
questi
irragionevoli
timori.
Già
lo
storico
greco
Polibio
aveva
giudicato
la
religione
a
Roma
un
efficace
strumento
della
classe
dirigente
per
ottenere
obbedienza
dal
popolo.
Cicerone
si
rese
conto
immediatamente
della
possibile
forza
sovvertitrice
del
poema
in
quanto
la
filosofia
epicurea
escludeva
l’ambizione,
la
competizione,
la
corsa
alle
cariche
pubbliche,
valori
che
definivano
il
buon
cittadino
romano
il
quale,
da
tempo,
logorato
dalle
guerre
civili,
ambiva
ad
una
vita
più
serena,
lontana
dal
clamore
e
dalla
lotta
per
il
potere,
non
disdegnando
di
liberarsi
altresì
da
irragionevoli
paure
e
pregiudizi.
Nel
pensiero
stoico
ciceroniano
la
presenza
degli
dei
come
giudici
e
testimoni
nel
mondo
degli
uomini
è
necessaria
in
quanto
ne
garantisce
e
regola
la
convivenza
sociale;
in
questo
ambito
diventa
rilevante
per
Cicerone
stabilire
il
modo
più
corretto
per
l’uomo
di
entrare
in
contatto
con
il
divino
senza
sconfinare
dalla
devozione
verso
la
superstizione,
a
cui
potevano
essere
assimilate
molte
pratiche
divinatorie
e il
ricorso
ai
Libri
Sybillini.
Nella
visione
di
uno
Stato
ordinato
diventa
stretta
la
relazione
tra
prassi
della
religio
e
organizzazione
statale,
in
contrasto
con
la
convinzione
epicurea
di
un
mondo
governato
esclusivamente
dal
caso.
Mentre
la
classe
colta,
a
contatto
con
il
razionalismo
delle
filosofie
greche,
analizza
alla
luce
delle
nuove
dottrine
il
politeismo
tradizionale,
ma
non
vi
si
identifica
più,
la
popolazione,
non
trovando
rassicurazione
nei
riti
e
nei
culti
ufficiali,
la
ricerca
nelle
pratiche
magiche,
nell’astrologia,
nei
culti
misterici
che
si
sommano
e si
aggiungono
nel
tempo
a
quelli
praticati
ufficialmente.
Gli
intellettuali
infatti
vedono
nella
religio
un
mezzo
di
coesione
socioculturale
e un
valore
civile
mentre
criticano
le
credenze
e le
manifestazioni
superstiziose
assai
diffuse
fin
dall’antichità:
l’infinito
numero
delle
divinità
minori,
il
ricorso
a
filtri
ed
amuleti,
l’interpretazione
di
alcuni
segni
o
accadimenti
come
presagi
negativi
(versare
l’olio
accidentalmente
o il
canto
del
gallo
durante
un
banchetto
o il
verso
del
gufo),
proteggere
la
porta
di
casa
con
scritte
apotropaiche
o
fuggire
quelle
ritenute
infestate
dagli
spiriti.
A
Roma
c’è
infatti
un
dio
per
tutti
i
singoli
momenti
della
vita
umana;
il
loro
numero
diventerà
tale
che
il
cittadino
era
spesso
indeciso
su
quale
ingraziarsi,
come
accadde
alla
notizia
del
disastro
della
battaglia
di
Canne.
Non
so
più
a
che
santo
votarmi,
recita
ancora
oggi
un
vecchio
adagio;
un
modo
di
dire
abbastanza
comune,
uno
spiraglio
sul
mondo
antico.
Se
il
mondo
politico
riflette,
comprende
e
discute
le
cause
e
denuncia
i
pericolosi
effetti
di
un
allontanamento
dalla
religio
e
dalle
pratiche
ufficiali
e un
avvicinamento
ai
riti
misterici
o a
ritualità
magiche
oscure,
più
tardi,
soprattutto
in
età
augustea,
il
mondo
letterario
racconta
e
descrive
un
fenomeno
non
più
trascurabile,
utilizzando
a
modello
stilistico
l’opera
di
quell’Apollonio
Rodio
che,
con
le
storie
degli
Argonauti
e di
Medea,
aveva
offerto
un
modello
alto
e
consacrato
della
figura
della
maga
nel
mondo
antico.
Fiorisce
pertanto
una
vasta
produzione
che
si
protrae
nel
tempo
e
vede
impegnati
i
poeti
e
letterati
come
Catullo
(87-54
a.C.)
e
che
in
seguito
vedrà
impegnati
anche
autori
quali
Virgilio
(70-19
a.C,)
Orazio
(65-8
a.C.)
e
Ovidio
43-18d.C)
fino
ad
Apuleio
(125-180
d.C.)
processato
per
magia
e
cultore
dei
misteri
di
Iside
e
Osiride.
Non
solo
la
poesia,
ma
anche
le
novelle
riferiscono
pratiche
magiche
attingendo
direttamente
dalle
credenze
popolari
e
dai
loro
racconti,
come
quella
di
Nicerote
che
narra
un
caso
di
licantropia
o di
Trimalcione
nell'episodio
delle
streghe
e
del
fantoccio
nel
Satyricon
di
Petronio.
Maghe,
fattucchiere,
esperte
di
incantesimi
e
sortilegi
diventano
protagoniste
della
letteratura
anche
accreditata:
Virgilio
nell’ottava
egloga
racconta
la
cerimonia
per
riportare
a
casa
l’amante
traditore
e
suona
quasi
come
un
intercalare
rituale
quel
Ducite
ab
urbe
domum
,
mea
carmina,
cucite
Daphnin;
Orazio
negli
Epodi
descrive
la
strega
Canidia,
la
fattucchiera
che
sceglie
per
le
sue
opere
di
magia
amorosa
l’Esquilino,
dove
si
lasciavano
i
cadaveri
insepolti
dei
poveri.
Conosciuta
fattucchiera
per
i
fatti
d’amore,
si
serve
dei
cadaveri
anche
dei
più
giovani
pur
di
raggiungere
il
suo
scopo;
la
descrizione
vuole
gettare
discredito
sulla
donna
e
sui
suoi
intrugli
magici
e ne
descrive
la
testa
scarmigliata
con
piccole
vipere
intrecciate
ai
capelli;
la
sua
pozione
è
composta
da
rami
di
fico
selvatico
divelti
dalle
tombe,
di
cipresso,
da
uova
di
rana
intrise
del
suo
sangue,
da
penne
di
gufo,
da
erbe
avvelenate
provenienti
da
Iolco
in
Tessaglia,
dalla
Hiberia,
sul
Ponto,
terre
fertili
in
veleni,
ossa
strappate
dalla
bocca
di
una
iena,
il
tutto
cotto
sulle
fiamme
magiche
della
Colchide,
terra
della
maga
Medea.
Qualcosa,
da
un
certo
punto
della
storia
di
Roma,
ha
spostato
l’accento
della
visione
della
collettività:
il
mondo
della
comunità
dei
cives
si
contrappone
al
mondo
del
singolo,
dell’individuo;
la
realizzazione
della
grandezza
di
Roma
e
del
suo
potere
sull’umanità
nel
disegno
per
lei
voluto
dagli
dei
si
scontra
con
una
visione
più
ridotta,
più
limitata
al
rapporto
tra
il
singolo
e il
proprio
destino.
Fino
ad
un
certo
punto
nella
storia
di
Roma
prevale
la
sicurezza
della
coincidenza
tra
bene
privato
e
pubblico,
garantita
dall’insieme
delle
pratiche
della
religione
ufficiale
che
a
Roma
appartengono
comunque
ai
cittadini
che
come
privati
celebrano
i
sacra
privata
e
come
funzionari
pubblici
i
culti
e i
riti
per
iniziativa
e a
vantaggio
dello
Stato;
più
tardi,
in
reazione
ad
avvenimenti
scardinanti
quali
la
guerra
annibalica
e le
guerre
sociali,
si
avanza
il
dubbio
che
le
rigide
procedure
altro
non
siano
che
un
impietoso
instrumentum
regni:
prima
c’è
il
pensiero,
fino
ad
allora
dominante,
di
un’
armonia
con
il
sacer
a
garanzia
e
beneficio
del
singolo
e
dello
Stato
che
così
prospereranno,
dopo
prevale
una
visione
laica
che
relega
il
divino
a
molta
distanza
dall’umano.
Quando
le
pratiche
ufficiali
non
vengono
più
ad
essere
essenziali
nella
vita
del
civis,
la
risposta
al
bisogno
di
controllare
e
piegare
le
forze
ignote
diventa
privata:
i
nuovi
mediatori
con
il
divino
sono
maghi
e
streghe;
il
bisogno
di
superare
la
paura
e
l’insicurezza
derivate
dall’ignoto
ha
come
fine
quello
di
ottenere,
con
tutti
i
mezzi,
anche
illeciti,
ciò
che
l’individuo
desidera
e
allontanare
ciò
che
teme.