N. 74 - Febbraio 2014
(CV)
ROD LAVER
IL PIÙ GRANDE
di Massimo Manzo
Ogni
sport
ha i
suoi
Pelé,
Maradona
o
Michael
Jordan,
giocatori
che
lasciano
un
segno
indelebile
nel
tempo
entrando
nella
leggenda.
Nel
tennis
è la
figura
di
Rod Laver
ad
essere
diventata
il
simbolo
stesso
della
perfezione
di
gioco,
tanto
che
nemmeno
le
prodezze
di
campioni
come
Borg
o
Federer
hanno
potuto
oscurarne
la
fama.
Unico
tennista
uomo
a
vincere
per
ben
due
volte
il
Grande
Slam,
Laver
appartiene
alla
generazione
di
australiani
che
dominarono
la
scena
del
tennis
mondiale
negli
anni
cinquanta
e
sessanta.
Figlio
di
un
allevatore
di
bestiame,
nacque
nel
1938
a
Rockhampton,
nel
Queensland.
Cresciuto
nei
ranch
del
padre
immersi
nella
campagna
australiana,
Rod
era
un
ragazzino
dai
capelli
rossi
energico
e
sportivo.
Nelle
varie
tenute
dove
nel
corso
del
tempo
si
trasferì
la
famiglia
c’era
sempre
un
rozzo
campo
da
tennis
in
giardino,
sul
quale
insieme
ai
fratelli
cominciò
a
tirare
le
prime
palle.
Ben
presto
fu
chiaro
che
il
ragazzo
aveva
un
talento
naturale.
Abbandonò
dunque
gli
studi
e si
affidò
alle
cure
di
Charlie
Hollis,
il
suo
primo
allenatore,
per
poi
passare
nelle
mani
del
grande
Harry
Hopman,
capitano
della
squadra
australiana
di
Coppa
Davis.
Fu
proprio
Hopman
ad
affibbiargli
il
soprannome
di
Rocket
(razzo),
che
sintetizzava
perfettamente
il
suo
gioco
esplosivo
fatto
di
velocità
e
potenza.
Furono
quelli
gli
anni
in
cui,
dopo
il
predominio
degli
americani
all’indomani
della
seconda
guerra
mondiale,
la
squadra
australiana
sfornò
un
gran
numero
di
campioni,
fino
ad
ottenere
il
primato
nella
competizione
a
squadre.
Affiatati
e
talentuosi,
sotto
la
ferrea
guida
di
Hopman
emersero
tennisti
di
classe
come
Neale
Frasier,
Roy
Emerson,
Ken
Rosewall,
grazie
ai
quali
l’Australia
divenne
una
superpotenza
tennistica,
imbattibile
in
Coppa
Davis.
Laver
era
parte
integrante
di
questa
nuova
generazione
e
interpretava
al
meglio
lo
stile
di
gioco
del
tempo,
basato
sulla
tecnica
del
serve
and
volley.
Mancino,
possedeva
colpi
molto
precisi
e
riusciva
a
lavorare
la
palla
con
una
naturalezza
incredibile,
imprimendogli
tagli
e
rotazioni
che
fintava
magnificamente,
mettendo
in
seria
difficoltà
gli
avversari.
Pur
non
essendo
di
grande
statura,
il
gioco
a
rete
di
Laver
era
ottimo,
mentre
il
servizio,
che
variava
con
una
facilità
impressionante,
coniugava
precisione
e
forza.
Con
le
dovute
differenze,
l’unico
giocatore
simile
a
Rod
per
originalità
e
intuito
nell’esecuzione
in
tempi
moderni
è
Roger
Federer,
che
infatti
dichiara
apertamente
di
ispirarsi
all’australiano.
Con
un
bagaglio
tecnico
del
genere
i
successi
non
tardarono
ad
arrivare.
Nel
1957
Laver
vinse
il
titolo
juniores
sia
in
America
che
Australia
e da
allora
collezionò
le
sue
prime
importanti
vittorie,
non
solo
in
Coppa
Davis
ma
anche
nei
tornei
maggiori.
Nel
1960
conquistava
i
campionati
australiani
dopo
una
combattutissima
finale
con
il
connazionale
Frasier,
mentre
l’anno
seguente
vinceva
per
la
prima
volta
Wimbledon,
battendo
in
soli
tre
set
l’americano
Chuck
McKinley.
Uno
dei
momenti
d’oro
nella
carriera
di
Rod
fu
il
1962,
quando
trionfando
in
tutti
e
quattro
i
maggiori
tornei
del
circuito
(Wimbledon,
Campionati
d’Australia,
Forest
Hills
e
Roland
Garros)
completò
il
cosiddetto
“Grand
Slam”.
Prima
di
lui,
c’era
riuscito
solo
Don
Budge
nel
1938.
Il
Grande
Slam
e
gli
altri
17
tornei
conquistati
quell’anno
non
segnarono
però
un
punto
d’arrivo
ma
l’inizio
di
una
nuova
serie
di
sfide
nel
percorso
dell’australiano.
Nel
dicembre
del
1962,
nel
pieno
della
gloria,
Laver
decise
infatti
di
diventare
professionista,
unendosi
alla
pattuglia
formata
dall’americano
Jack
Kramer,
pioniere
del
tennis
professionistico
moderno.
Fu
una
scelta
importante,
che
se
da
un
lato
gli
permise
di
migliorare
ulteriormente
lo
stile
di
gioco,
dall’altro
gli
precluse
per
cinque
anni
la
partecipazione
ai
tornei
dello
Slam.
Per
quanto
possa
sembrare
assurdo
oggi,
prima
del
1968
il
circuito
tennistico
era
nettamente
diviso
tra
dilettanti
e
professionisti
e
solo
i
primi
potevano
disputare
i
campionati
più
prestigiosi.
Esclusi
dalle
competizioni
maggiori,
i
professionisti
si
confrontavano
in
diversi
tornei
in
giro
per
il
mondo,
contendendosi
premi
in
denaro.
Nonostante
le
gratificazioni
economiche,
per
Laver
il
primo
anno
in
questa
nuova
dimensione
fu
duro.
I
giocatori
con
i
quali
si
confrontava
adesso,
molto
più
allenati
e
competitivi
dei
dilettanti,
gli
diedero
filo
da
torcere.
Nei
mesi
iniziali
due
tra
i
suoi
futuri
avversari
storici,
Rosewall
e
Hoad,
lo
sconfissero
ripetutamente,
anche
se
non
gli
impedirono
di
piazzarsi
al
numero
due
del
ranking
professionistico.
Deciso
a
dare
il
meglio,
Rod
si
adattò
presto
dimostrando
una
solidità
mentale
e
fisica
incredibile.
Già
nel
‘64
si
aggiudicava
sette
titoli,
strappando
Wembley
e i
Campionati
degli
Stati
Uniti
a
Rosewall
e
Gonazales
e
volando
poco
dopo
alla
vetta
della
classifica.
Fu
un
periodo
ricco
di
successi
e
soddisfazioni,
nel
quale
l’australiano
disputò
match
epici
contro
avversari
temibili,
dando
spettacolo.
E al
pubblico
stava
simpatico
quel
mancino
dai
capelli
rossi,
in
apparenza
così
timido
e
gentile
con
tutti,
ma
implacabile
sul
campo.
Persino
nelle
“giornate
no”,
quando
la
partita
sembrava
volgere
al
peggio,
“Rocket”
riusciva
a
tirar
fuori
dal
cilindro
qualche
prodezza
inaspettata,
lasciando
di
stucco
lo
sfortunato
che
gli
stava
di
fronte
e
risalendo
la
china
fino
alla
vittoria.
Quando
nel
1968
mutarono
finalmente
le
regole
del
circuito
e
iniziò
la
cosiddetta
“Era
open”
(nella
quale
tutti
i
tornei
furono
aperti
sia
ai
dilettanti
che
ai
professionisti)
Laver
era
pronto
a
imporsi
nuovamente
sull’erba
di
Wimbledon,
dopo
cinque
anni
di
assenza
forzata,
asfaltando
in
soli
tre
set
il
connazionale
Tony
Roche.
L’anno
successivo
compì
di
nuovo
il
miracolo,
aggiudicandosi
per
la
seconda
volta
il
Grand
Slam.
Nella
finale
degli
U.S.
open,
ultima
tappa
prima
del
trionfo,
Laver
si
confronta
nuovamente
con
Roche.
Quel
giorno,
per
la
pioggia,
il
centrale
di
Forest
Hills
sembra
un
pantano.
Nel
primo
set
Rod
scivola
più
volte
mentre
cerca
di
resistere
alle
cannonate
di
Roche,
nuovo
astro
del
tennis
e
sette
anni
più
giovane
di
lui.
È
una
bella
lotta
ma
Tony
ha
la
meglio.
Finisce
9-7.
Il
sogno
del
mancino
di
Rockhampton
sembra
sfumare
lentamente.
“Stavolta
Roche
è
troppo
forte”,
si
sussurra
tra
gli
spalti.
E
invece
nel
secondo
set
Laver
sembra
rinato.
Calmo
e
concentrato
come
sempre,
dipinge
pennellate
stupende,
stordendo
l’incredulo
avversario.
Ora
il
punteggio
è
cambiato:
Rod
conduce
per
6-1,
6-2,
5-2
e
solo
un
punto
lo
separa
dal
trofeo.
40-15.
Laver
serve
sul
rovescio
dell’avversario
e
scende
a
rete
piazzando
una
splendida
voleé
di
diritto
dalla
parte
opposta
del
campo.
Roche
tenta
il
recupero
ma
la
palla
finisce
in
rete
e
lui
cade
a
terra
scivolando.
Così,
ad
appena
trentun
anni,
“Rocket”
scolpiva
il
suo
nome
nella
storia.
Dopo
di
lui,
nel
tennis
maschile
nessuno
è
più
riuscito
a
ripetere
l’impresa,
malgrado
molti
ci
siano
andati
vicini.
Pur
essendosi
ritirato
dalle
scene
alla
fine
degli
anni
‘70,
arricchendo
ulteriormente
il
suo
palmares,
il
1969
rappresentò
l’apice
della
carriera
dell’australiano.
A
rivedere
i
vecchi
filmati
delle
partite
di
Laver
si
ha
la
sensazione
di
assistere
ad
uno
spettacolo
molto
diverso
dal
tennis
odierno.
Nulla
di
paragonabile
agli
infiniti
e
spesso
soporiferi
match
attuali,
fatti
di
potenza
fisica
e
interminabili
palleggi
da
fondo.
Indubbiamente
in
quell’epoca
era
tutta
un’altra
cosa:
si
giocava
soprattutto
sull’erba
e
sulla
terra,
con
attrezzi
pesantissimi
che
rallentavano
il
ritmo
complessivo
dello
scambio.
Eppure
proprio
in
quell’epoca
lontana
si
trovano
eleganza
nell’esecuzione,
tocco,
inventiva,
classe,
oltre
ad
un
fair
play
unico.
Aspetti
probabilmente
figli
del
passato,
che
solo
Federer
e
pochi
altri
riescono
a
riproporre
oggi,
per
la
gioia
degli
esteti.
In
questo
senso
Laver
fu
davvero
il
più
grande
di
tutti.