Il
sottotitolo di questo articolo, che nella sua
versione completa è La risoluzione che
l'Assemblea deve prendere riguardo alla proposta di
guerra annunciata dal potere esecutivo, altro
non è che il titolo di una relazione che
Maximilien Robespierre produsse nell’inverno del
1791.
Con questo discorso Robespierre rende
note all’Assemblea le sue posizioni riguardo
l’opportunità per la Francia di entrare in
guerra contro i paesi nemici della Rivoluzione,
dichiarandosi apertamente contrario e puntando il
dito contro gli atteggiamenti della Corte, degli
aristocratici e del girondino Brissot.
Nel dicembre del 1791 la Rivoluzione
procedeva ormai da più di due anni e si erano già
evidenziate le differenti posizioni degli
schieramenti legislativi, governativi e regi.
All’interno dell’Assemblea i
giacobini erano i più accaniti oppositori della
guerra, mentre sul fronte opposto questa era
auspicata dagli aristocratici, consapevoli
che così avrebbero forse potuto riappropriarsi di
posizioni e diritti che la Rivoluzione aveva loro
tolto. Anche i moderati e gli illuminati
di La Fayette erano contrari alla guerra, per
paura di perdere i diritti ottenuti con la
costituzione. I girondini, sotto l’ideologia
dell’esportazione della Rivoluzione e della lotta
alla tirannide, cercavano invece di ampliare le loro
possibilità di commercio estero. Il Re, infine,
sperava in una sconfitta della Francia ed in una
vittoria degli stati assolutistici volta a
ripristinare l’Ancien regime.
Robespierre, intuiti gli interessi
delle fazioni che lo circondavano, impostò il suo
intervento al fine di smascherare le trame ed i
progetti di queste, sulla base degli eventi che
avevano caratterizzato l’andamento della Rivoluzione
fino a quel momento.
Innanzitutto viene evidenziato come
la Francia non fosse effettivamente pronta ad
affrontare un conflitto, soprattutto sotto il punto
di vista economico: la crisi finanziaria che
aveva dato vita alla Rivoluzione stessa non era
ancora sopita e di certo una guerra non avrebbe
fatto altro che peggiorare la situazione, stremando
definitivamente le classi più povere, per le quali
peraltro l’Assemblea non aveva fatto molto,
limitandosi ad abolire alcuni diritti feudali.
Robespierre fa anche notare che è
proprio durante la guerra che un popolo tende a
dimenticare i suoi diritti politici e civili
per preoccuparsi di ciò che succede all’esterno, ed
è sempre durante la guerra che distoglie
l’attenzione dai suoi legislatori per volgere le
speranze ai suoi generali, vicini al Re… La guerra,
afferma Robespierre, è necessaria solo quando è
finalizzata all’acquisizione di maggiori libertà,
e non era questo il caso.
Ma la Corte sapeva bene come
sfruttare i propri mezzi, ed era promotrice, in quel
periodo, di un’opera di sensibilizzazione
patriottica mirata a suscitare negli animi della
nazione la necessità di impugnare le armi per
difendere i propri confini... Robespierre afferma a
tal proposito che i veri nemici della Rivoluzione
non erano fuori, ma dentro i confini francesi, e
continuavano ad essere fomentati dal re. Lo stesso
Luigi XVI aveva, nell’estate del 1791,
tentato una fuga per organizzare con i nobili
emigrati una coalizione antirivoluzionaria.
Su queste basi Robespierre fa notare
come la Corte, che aveva sempre voluto la guerra,
avesse atteso il momento più conveniente: le forze
ribelli degli emigrati erano in quell’inverno ben
organizzate ed il potere esecutivo era riuscito a
scongiurarne ogni indebolimento. Il Re sapeva bene,
inoltre, che conveniva attaccare per primi, evitando
così l’insurrezione e la sfiducia della popolazione,
che vedendosi attaccata avrebbe potuto trovare le
motivazione e la forza per debellare definitivamente
il suo vero nemico.
Robespierre sottolinea anche come sia
utile, per le mire reali, combattere lontano
dal territorio francese, laddove senza l’occhio
vigile del popolo sarebbe più facile mettere in atto
i propri progetti e tradire la nazione.
Altre accuse Robespierre le riserva
all’atteggiamento del legislatore patriota Brissot
(uno dei massimi esponenti dei girondini,
appartenenti al dipartimento marittimo della
Gironda e propensi ad una espansione del
territorio francese nell’ottica di una parallela
espansione dei loro commerci). Brissot aveva
affermato che, qualsiasi direzione avrebbero preso
gli eventi, la libertà avrebbe comunque trionfato,
in quanto il popolo era lì… vigile e pronto a
ribellarsi.
Robespierre ricorda così che il
popolo francese “era lì” anche quando in più di
un’occasione venne abilmente incatenato e privato
dei propri diritti… “era lì” anche quando il 17
luglio di quel 1791 venne fucilato sui Campi
di Marte (il riferimento è all’eccidio che
ci fu quando la Guardia Nazionale, per ordine
di La Favette, aprì il fuoco contro una
manifestazione repubblicana).
Il popolo, suggerisce Robespierre,
non dovrebbe essere lasciato “lì”, ma dovrebbe
essere ben guidato dai suoi rappresentanti, troppo
presi, al momento, appresso ai propri interessi.
Robespierre aveva capito che la
Francia stava rischiando di andare incontro ad un
massacro annunciato… stava rischiando di andare a
combattere contro se stessa.
La nazione, secondo lui, non voleva
la guerra, ma solo essere tutelata ed illuminata
dai suoi rappresentanti, per far trionfare la
libertà.
Quel che accadde fu che, pochi mesi
dopo questo discorso di Robespierre, la Francia
entrò in guerra.
E le sue previsioni si avverarono.
Il Re fece di tutto per attuare i
suoi progetti controrivoluzionari e per facilitare
il massacro delle proprie truppe: pose il veto alla
richiesta di leva di massa e continuò la sua
politica di tacito favoreggiamento ai ribelli,
soprattutto al clero refrattario
(quella parte di clero che non riconosceva la
costituzione del 1790 laddove definiva al Chiesa
come un’istituzione della nazione e non più come
un’organizzazione dipendente da Roma).
La guerra stremò inoltre le classi
più deboli, soprattutto i contadini, dando vita a
rivolte sanguinose e ad un accanito odio verso tutti
i gruppi antirivoluzionari (l’episodio più
significativo è quello delle stragi di
settembre, quando il popolo affamato
massacrò molti prigionieri politici chiusi nelle
prigioni di stato).
Robespierre chiuse il suo discorso
con queste parole: “siamo giunti ad una profonda
crisi per la nostra Rivoluzione… guai a coloro che,
in questa circostanza, non immoleranno alla pubblica
salvezza lo spirito di parte, le loro passioni, e i
loro stessi pregiudizi!”.