N. 123 - Marzo 2018
(CLIV)
ROBERTO ARDIGÒ, SACERDOTE POSITIVISTA
L'agire morale - PARTE IIi
di Raffaele Pisani
Senza
i
presupposti
della
coscienza
e
della
libertà,
così
come
sono
comunemente
intese
da
gran
parte
del
pensiero
teologico
e
filosofico,
ha
senso
parlare
di
agire
morale?
Per
Ardigò
la
risposta
è
affermativa;
si
potrebbe
anche,
giocando
un
po’
con
le
parole,
dire:
positiva.
La
morale
si
basa
sull’evoluzione
della
società,
non
su
motivazioni
teologiche
né
su
altre
astrazioni
che
pretendano
di
essere
di
guida
e di
riferimento
alle
azioni
umane.
Egli
afferma
che:
«Nella
idealità
sociale
è
tutta
la
ragione
della
moralità.
La
morale
del
positivismo
è il
corollario
più
diretto
e
più
schietto
del
Vangelo».
A
chi
afferma
che
essere
positivista
e
praticare
una
morale
altruistica
è
una
contraddizione
egli
risponde
che
i
fatti
dicono
spesso
ben
altro:
vi
sono
positivisti
che
praticano
una
morale
antiegoistica
e vi
sono
dei
teorizzatori
di
alte
idealità
spirituali
che
nella
pratica
della
loro
esistenza
le
negano;
da
ciò
ne
consegue
che
la
causa
della
moralità
«può
avere
la
sua
efficacia
anche
indipendentemente
da
determinati
principi
teorici
di
dati
individui,
di
date
scuole,
di
date
istituzioni».
Che
la
morale
abbia
una
relativa
indipendenza
dai
principi
teorici
non
esclude
che,
per
il
caso
presente,
possano
invece
esserne
la
matrice
o,
quantomeno,
contribuiscano
a
chiarirne
il
dinamismo.
All’inizio
della
sua
opera
intitolata:
La
morale
dei
positivisti,
Ardigò
afferma
con
forza
che
dai
principi
della
filosofia
positiva
ne
deriva
una
morale
antiegoistica.
Leggiamo
nelle
prime
pagine
dell’opera
sopra
menzionata
che
«la
causa
prima
nell’animale
di
un
atto
volontario
qualunque,
e
per
l’esistenza
di
esso
atto,
e
per
la
direzione
o
forma,
è
nella
impulsività
propria
della
sensazione».
Questo
porta
a
considerare
l’atto
volontario
un
tutt’uno
con
l’organismo
dal
quale
scaturisce,
senza
nessun
riferimento
ad
alcuna
presunta
sostanza
spirituale
distinta
dal
corpo.
Secondo
il
pensiero
della
metafisica
tradizionale,
la
cognizione
del
moralmente
giusto,
per
ottenere
l’efficacia
dell’azione,
deve
accompagnarsi
alla
speranza
di
un
premio
e/o
al
timore
di
un
castigo,
il
che
conferisce
all’atto
un
carattere
prettamente
egoistico.
Le
morali
tradizionali
avevano
in
un
primo
tempo
concepito
il
bene
e il
male
come
scaturenti
da
rispettive
divinità,
in
seguito,
il
dolore
di
qualsiasi
tipo
veniva
visto
come
la
giusta
punizione
per
una
legge
divina
violata.
Per
spiegare
il
dolore
degli
innocenti
si
introdusse
l’idea
di
peccato
originale
e
poi
di
redenzione
attraverso
il
pentimento,
la
mortificazione
e
l’ascesi.
Tali
morali,
secondo
Ardigò,
sono
tutte
irrispettose
della
natura;
a
queste
egli
oppone
quella
positivistica,
che
è
uno
sviluppo
delle
forze
interiori
che
si
sono
costituite
attraverso
gli
infiniti
passaggi
derivanti
dall’ambiente
fisico
e
sociale.
Cita
al
proposito
il
filosofo
veronese
Gaetano
Trezza
che
nella
sua
opera
intitolata
Epicuro
e
l’epicureismo
afferma
che:
«Più
l’uomo
cresce
sopra
se
stesso
e
acquista
potenze
nuove
di
spirito,
e
più
castiga
la
viltà
tumultuante
degli
istinti
disonesti,
creando
negli
organi
purificati
una
virtù
che
li
fa
veicoli
del
divino».
Nella
morale
positivistica
la
virtù
è
premio
a se
stessa
e
l’agire
virtuoso
non
ha
bisogno
di
ricevere
dall’esterno
alcun
riconoscimento
o
premio.
Approfondendo
ulteriormente
il
discorso,
si
potrebbe
dire
che
anche
questa
soddisfazione
interiore
derivante
dall’azione
morale
compiuta
sarebbe
pur
sempre
un
atteggiamento
di
compiaciuto
egoismo,
questo
allineerebbe
la
morale
positivistica
a
quelle
sopra
contestate.
Egli
spiega,
ricorrendo
a un
parallelo
tratto
dal
modo
fisico,
che
la
morale
positivisticamente
intesa
è in
primo
luogo
un
bisogno
ed è
questo
che
spinge
all’azione,
il
soddisfacimento
non
è
causa
ma
effetto,
come
al
bisogno
di
respirare
segue
una
sensazione
di
benessere.
Il
pensiero
filosofico
tradizionale,
quello
che
Ardigò,
con
una
certa
ironia,
chiama:
la
sana
filosofia,
ritiene
che,
se
si
afferma
la
causalità
della
volontà,
si
nega
la
possibilità
dell’azione
morale,
il
positivismo
invece
«senza
negare
la
causalità
del
volere
trova
e
dimostra
nell’uomo
la
libertà».
In
esso
c’è
il
libero
arbitrio
in
virtù
di
un
elevato
grado
di
autonomia
che
egli
possiede
in
quanto
uomo,
ma
qualche
traccia
si
può
intravvedere
anche
negli
animali,
nei
vegetali
e
pure
nei
minerali.
Egli
fa
l’esempio
di
un
seme
che
a
contatto
con
gli
elementi
del
terreno
e
dell’atmosfera
si
sviluppa,
sottoponendo
queste
forze
a
una
regola
derivante
dalla
sua
struttura;
diventando
una
grande
pianta
produrrà
tantissime
foglie,
tutte
diverse
fra
di
loro
ma
tutte
riferibili
ad
una
determinata
specie
vegetale.
In
maniera
immensamente
più
grande
l’uomo,
investito
per
così
dire
da
queste
forze
e da
altre
che
sono
costituite
dagli
elementi
sociali
e
culturali,
le
trasforma
in
base
alla
sua
natura
in
una
molteplicità
di
atti.
Questi
sono
diversi
da
uomo
a
uomo
e
diversi
pure
nello
stesso
individuo
a
seconda
del
tempo
e
delle
condizioni,
tutti
comunque
hanno
per
così
dire
il
marchio
dell’umanità.
L’uomo
è un
essere
sociale
e le
idealità
umane
sono
la
condizione
necessaria
della
socialità,
negli
esseri
inferiori
queste
idealità
sono
solo
accennate
mentre
nell’uomo
trovano
il
massimo
compimento
nella
molteplice
varietà
di
situazioni.
Le
leggi
morali
si
formano
a
poco
a
poco
nei
vari
gruppi
sociali
e
sono
soggette
a
variare
a
seconda
dei
tempi
e
delle
condizioni
storiche.
Pretendere
come
fa
il
pensiero
metafisico
di
definire
una
morale
assoluta
è un
assurdo
contraddetto
dall’esperienza.
Riferimenti
bibliografici:
Ardigò
R.,
La
filosofia
come
scienza
positiva,
Edizioni
Biblioteca
digitale.
Ardigò
R.,
La
morale
dei
positivisti,
Edizioni
Biblioteca
digitale.
Saloni
A.
Il
positivismo
e
Roberto
Ardigò,
Ed.
Armando,
Roma
1969.