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filosofia & religione


N. 121 - Gennaio 2018 (CLII)

Roberto ardigò, sacerdote positivista
la vita - Parte I

di Raffaele Pisani

 

Cordiale e comprensivo nei rapporti con gli altri, ma al tempo stesso intransigente nella difesa del suo pensiero, il filosofo Roberto Ardigò ha vissuto il dramma personale del passaggio da una visione del mondo cristiana a una positivista. La sua vita è stata un lungo cammino laborioso e produttivo, durante il quale la sua concezione teoretica e morale è stata attaccata da più parti, pur con significativi apprezzamenti di intellettuali illustri, talvolta anche del campo avverso.

 

È nostro intendimento delineare alcuni brevi tratti della sua vita per soffermarci poi su qualche opera. Data la complessità e la grandissima quantità di testi che l’autore ha scritto, non avanziamo la minima pretesa di completezza.

 

Era nato nel 1828 a Casteldidone in provincia di Cremona, la sua famiglia, in seguito a gravi problemi economici, si trasferì a Mantova, dove il piccolo Roberto frequentò le scuole elementari e il liceo, seguirono gli studi di filosofia e di teologia presso il seminario, erano gli anni immediatamente precedenti il ritorno del tomismo come filosofia egemone negli istituti per la formazione del clero.

 

Si può dire comunque che nel piccolo e decentrato seminario mantovano, sia negli anni precedenti la sua ordinazione sacerdotale che dopo, si mantenne un clima di apertura culturale, accompagnato da un rigore storico e scientifico negli studi, che fece emergere delle notevoli figure di dotti sacerdoti.

 

Il 1851 fu per Ardigò l’anno dell’ordinazione sacerdotale. L’amicizia e l’aiuto morale e anche economico di mons. Luigi Martini, rettore del seminario mantovano, era colui che aveva assistito i martiri di Belfiore nei giorni precedenti l’esecuzione, contribuirono a spianargli la strada alla carriera ecclesiastica e alla docenza, prima al ginnasio e poi al liceo di Mantova.

 

Le sue letture spaziavano ben oltre quelle di un normale prete professore del suo tempo: dalla patristica alla scolastica, a Malebranche e Gerdil, per arrivare a Gioberti e Rosmini; uno sforzo per allargare e approfondire un qualcosa che sentiva di non aver ancora trovato.

 

Il suo soggiorno a Vienna, nel 1854, presso l’Istituto di teologia sublime di Sant’Agostino, dove era stato inviato per il perfezionamento nelle discipline teologiche e per lo studio della lingue semitiche, durò poco tempo; motivi di salute, ma ancor più convinzioni personali lo portarono a operare in altri campi.

 

Sostenne il concorso per l’insegnamento, prima della religione e poi della filosofia, al liceo “Virgilio” di Mantova. Le sue lezioni avevano un carattere singolare, era capace di suscitare un grande interesse negli studenti, s’impegnava talvolta in questioni che, se esprimevano certamente un animo generoso e libero nella ricerca, causavano una certa apprensione nelle autorità, non solo quelle religiose.

 

Arriviamo quindi al 1869, quando al Teatro Scientifico del liceo-ginnasio di Mantova pronunciò il Discorso su Pietro Pomponazzi. Dopo aver esaltato il Rinascimento che aveva riportato l’Italia al primo posto grazie ai suoi letterati, artisti e pensatori, affrontava senza preconcetti la riforma protestante e la rivoluzione francese. Da un punto di vista più strettamente filosofico egli vedeva nel pensatore rinascimentale una nuova interpretazione di Aristotele, che permetteva di separare la filosofia naturale dal discorso teologico basato sulla fede nella rivelazione, ne conseguiva anche la non dimostrabilità razionale dell’immortalità dell’anima.

 

Questa idea non è ancora una completa rottura con la concezione cristiana, ma le cose andranno ben presto nella direzione dell’indistinto psico-fisico, concetto cardine del suo pensiero più maturo, e quindi nella negazione stessa dell’anima spirituale, affermazione che il filosofo rinascimentale mantovano non aveva mai fatto.

 

Alla messa all’indice del Discorso su Pomponazzi, che nel frattempo era stato pubblicato, seguì una netta presa di distanza dall’atto di ossequio all’autorità religiosa che il clero mantovano aveva proclamato. Ardigò in quella occasione affermò il suo pieno disaccordo sull’infallibilità pontificia. A nulla valsero i tentativi di quanti lo stimavano, in particolare di mons. Martini, di evitare la rottura definitiva. La sua sospensione a divinis, lo faceva vivere in una specie di limbo, per cui fu lui stesso a decidere di lasciare l’abito talare.

 

Viene da chiedersi come Ardigò sia arrivato a questo passo così radicale, vissuto non senza turbamenti; si tratta certo di un cammino mentale maturato lentamente dentro di sé e aperto al confronto con i pensatori del passato e con i suoi contemporanei.

 

Non è raro nei filosofi che parlano della loro vita descrivere un passaggio fondamentale del loro pensamento come una sorta di rivelazione, di illuminazione o di risveglio. Ardigò non è da meno e lo spiega nello scritto intitolato Guardando il rosso di una rosa; nell’atto di osservare il fiore esclama: «Ma vedi che bel rosso!». Se questo rosso particolare è applicabile agli infiniti altri vuol dire è un universale colto con i sensi. Ma quanto vale per il rosso, perché non dovrebbe valere anche per quelle idee che tradizionalmente si attribuiscono all’intelletto, con tutti i conseguenti corollari metafisici?

 

Continuava peraltro il suo insegnamento della filosofia presso il liceo cittadino, dove era molto apprezzato sia dalle autorità scolastiche che dagli studenti. Non mancavano però coloro che lo vedevano come un pericolo perché andava contro un sentire comune molto radicato nella tradizione, per questo motivo venne ufficialmente richiamato dalle autorità scolastiche nel 1880.

 

Egli rispose difendendo il suo agire secondo coscienza, che costituisce un dovere ancor prima che un diritto, dice in proposito: «Io credo che se, insegnando, non mi regolassi con criteri attinti alla verità propria della scienza insegnata, sarei un prevaricatore, un vile davanti a me stesso, davanti agli altri, e anche davanti al R. Ministro della Pubblica Istruzione».

 

Il Carducci, che era stato incaricato dal ministero di un’ispezione, in una lettera del gennaio 1881 espresse parole di grande apprezzamento per il professore: «Io studio e ammiro nello scrittore l’ingegno più severamente forte e più fortemente nutrito, del quale si onori in Italia la figura positiva non volgarmente e comodamente scettica».

 

Poco dopo arriverà dal Ministero della Pubblica Istruzione la sua nomina a professore straordinario di Storia della filosofia all’Università di Padova, dove già nel febbraio dello stesso anno iniziava le sue lezioni.

 

Questa sua nuova posizione gli permetterà di dedicarsi con più libertà alla ricerca scientifica, ravvivata dagli stimoli provenienti dall’attività didattica. Il successo e i riconoscimenti, che peraltro non cercava, nel 1885 sarà nominato Senatore del Regno, non lo distolsero dal suo ininterrotto lavoro.

 

Continuerà a produrre scritti in grande quantità; anche se a settant’anni diceva di presentare il suo testamento filosofico, la sua attività non si interruppe fino agli ultimi giorni di vita, in un clima culturale a lui alquanto avverso, dominato ormai dall’idealismo.

 

Morirà suicida nel 1920.



 

 

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