N. 78 - Giugno 2014
(CIX)
ROBERT Capa e gerda Taro, fotografi della libertà
una Leica per raccontare il mondo
di Gaetano Cellura
Due
recenti
libri
sul
più
importante
fotografo
della
guerra.
Uno
l’ha
pubblicato
l’editore
Contrasto
(dicembre
2012):
Robert
Capa.
Tracce
di
una
leggenda.
Duecentotrenta
pagine
scritte
da
Bernard
Lebrun
e
Michel
Lefebvre,
che
affermano:
“Cinquantanove
anni
dopo
la
morte
l’opera
e la
vita
del
fotografo
ungherese
naturalizzato
americano
sembrano
le
tombe
dei
faraoni:
ce
n’è
sempre
una
da
esplorare...
Il
mondo
era
il
suo
territorio
di
caccia:
e lo
ha
cosparso
di
segni,
tracce,
foto,
pubblicazioni,
amici
e
nemici”.
Dagli
anni
di
rifugiato
ungherese
a
Parigi,
a
quelli
della
Guerra
Civile
spagnola,
da
corrispondente
della
Seconda
guerra
mondiale
al
conflitto
arabo
israeliano
del
1948
e
all’Indocina
dove
muore
al
seguito
delle
truppe
francesi
ucciso
da
una
mina,
la
sua
vita
avventurosa
mescola
storia
e
mito.
Era
alto
a
stento
un
metro
e
sessanta
e
viene
raccontato
nelle
biografie
come
“indomito
amante,
cronometrico
nello
sparire
–
scrive
Roberto
Saviano
–
quando
l’amata
mostrava
di
volerglisi
legare
in
un
progetto
di
vita
insieme”.
La
foto
che
lo
ha
reso
celebre
è
quella
del
miliziano
colpito
a
morte
in
Spagna.
Pare
sia
stata
scattata
con
una
Leica:
e
questo
ha
generato
la
leggenda
del
suo
indissolubile
legame
con
quella
macchina
fotografica.
In
realtà
ne
usò
altre,
come
la
Contax
e
soprattutto
la
Rolleiflex
per
il
formato
6x6.
Di
Robert Capa
è
caduto
a
ottobre
del
2013
il
centenario
della
nascita.
Una
mostra
fotografica
al
Palazzo
reale
di
Torino
lo
ha
celebrato
dal
15
marzo
al
14
luglio.
I
due
giornalisti
francesi
autori
dell’ultima
biografia
che
lo
riguarda,
si
soffermano
sui
momenti
della
sua
vita
a
Parigi
e
sullo
sbarco
in
Normandia:
decisivo
per
le
sorti
del
Secondo
conflitto
mondiale
e
per
la
liberazione
dell’Europa
dal
nazifascismo.
“Non
possiamo
purtroppo
dire
che
sia
l’inizio
della
fine,
–
disse
quel
giorno
Winston
Churchill
– ma
credo
che
possiamo
dire
che
è la
fine
dell’inizio”.
Solo
pochissime
righe
– ed
è
una
lacuna
dell’opera
–
vengono
dedicate
allo
sbarco
degli
Alleati
in
Sicilia.
Che
Capa
seppe
ben
documentare
con
il
“vil
mestiere
della
lastra”.
Così
Alberto
Savinio
definiva
il
mestiere
del
fotografo.
E
c’era
in
questo
suo
giudizio
l’ostilità
quasi
prevenuta
del
pittore
per
i
nefasti
della
fotografia:
“regina
della
plebe
che
tanti
bei
progressi
aveva
fatto
fare
al
cinismo”.
L’altro
libro
su
di
lui,
Robert
Capa
mi
ha
detto,
è di
John
Morris
che
del
fotografo
è
stato
amico
e
collega.
Oggi
Morris
vive
a
Parigi
e fa
il
corrispondente
per
il
National
Geografic.
Come
Capa,
anche
l’autore
di
questo
libro
ha
dedicato
la
vita
alla
fotografia.
È
stato
pure
giornalista
del
New
York
Times,
del
Washington
Post
e
responsabile
della
redazione
di
Londra
della
rivista
Life.
Ma
crediamo
che
la
sua
esperienza
più
bella
sia
stata
quella
di
direttore
esecutivo
dell’Agenzia
Magnum.
Una
Società
Cooperativa
per
tutelare
il
diritto
d’autore
dei
fotografi
e
per
renderli
più
autonomi
nel
lavoro.
Non
più
costretti
a
rispettare
gli
spazi
imposti
dalle
riviste,
ma
liberi
di
pensare
i
propri
reportage
sulla
dimensione
del
libro
o
della
mostra.
Non
più
costretti
a
vedere
le
proprie
foto
diventare
proprietà
di
chi
le
pubblicava.
L’Agenzia
è
stata
fondata
nel
1947
da
Robert
Capa,
Henri
Cartier-Bresson,
David
Seymour
e
George
Rodger.
Ognuno
di
loro
scelse
una
parte
del
mondo
dove
svolgere
il
proprio
lavoro.
Cartier-Bresson
e
Rodger
partirono
rispettivamente
per
l’Oriente
e
per
l’Africa.
Seymour
si
occupò
dell’Europa;
e
Capa
dell’America,
della
sua
scalcagnata
provincia
soprattutto,
ma
pronto
ad
andare
in
ogni
parte
del
mondo
dove
erano
necessari
la
sua
presenza
e i
suoi
scatti.
“Sono
tornato
a
fotografare
Budapest
–
diceva
–
perché
mi è
capitato
di
essere
nato
lì;
ho
avuto
modo
di
fotografare
Mosca
che
di
solito
non
si
offre
a
nessuno;
ho
fotografato
Parigi
perché
ho
vissuto
lì
prima
della
guerra;
Londra
perché
ho
vissuto
lì
durante
la
guerra;
e
Roma
perché
mi
dispiaceva
non
averla
mai
vista
e
avrei
invece
voluto
viverci”.
Non
manca
nel
libro
di
Morris
il
racconto
dei
momenti
di
vita
e di
svago,
fuori
dall’obiettivo,
trascorsi
con
il
fotografo
che
sapeva
essere
sempre
in
prima
linea.
Con
passione
e
coraggio.
E
questo
essere
in
prima
linea,
sempre
dentro
la
vita,
lo
aveva
imparato
dalla
sua
compagna,
Gerda
Taro.
Morta
a
soli
27
anni
sotto
i
cigolati
del
carro
armato
che
l’ha
investita
durante
la
guerra
di
Spagna.
Si
trovava
sul
predellino
di
un
altro
mezzo
militare:
anche
lei
per
“guardare
meglio
in
camera”,
stare
dentro
la
vita.
Perché
“se
le
tue
foto
non
sono
abbastanza
buone
–
diceva Capa
e lo
pensava
anche
Gerda
–
vuol
dire
che
non
eri
abbastanza
vicino”.
Ma
Gerda
non
deve
essere
ricordata
solo
per
questo:
per
essere
stata
la
compagna
di
Robert
Capa.
Ma
per
l’alta
capacità
artistica,
la
professionalità,
il
coraggio,
l’antifascismo
internazionale.
È
stata
la
prima
donna
fotoreporter
a
morire
in
guerra,
impegnata
a
svolgere
al
meglio
il
proprio
lavoro,
a
scattare
immagini
sensazionali
sulla
linea
del
fronte.
E
bene
ha
fatto
Irme
Shaber
a
raccontarne
la
vita
nel
bel
libro
Gerda
Taro.
Una
fotografa
rivoluzionaria
nella
guerra
civile
spagnola.
Il
vero
nome
era
Gerda
Pohorylle.
La
sua
famiglia,
di
origini
galiziane,
vide
nella
Germania
di
Weimar,
dove
si
trasferì,
la
società
aperta
che
a
tutti
poteva
offrire
opportunità
di
vita,
lavoro,
affermazione
sociale.
Come
Capa,
che
si
chiamava
André
Friedmann,
anche
lei
aveva
dunque
un
nome
d’arte.
Con
Robert
si
conobbero
a
Parigi,
mentre
immortalavano
le
immagini
della
vittoria
elettorale
del
Fronte
popolare
con
le
sue
grandi
manifestazioni,
e ne
nacque
(come
scrive
Patrizia
Dogliani,
che
ha
recensito
il
libro
della
Shaber)
un
sodalizio
amoroso,
amicale
e
soprattutto
professionale
che
durò
un
anno
appena,
sino
al
momento
in
cui
–
andati
in
Spagna
per
raccontare
insieme
al
mondo
la
Guerra
Civil
–
finì
investita
e
schiacciata
da
un
carro
armato.
A
questa
donna
dalla
vita
breve,
che
aveva
dovuto
lasciare
la
Germania
hitleriana
e
trovare
scampo
a
Parigi,
dove
fu
costretta
a
tenere
nascoste
agli
altri
esuli
le
proprie
origini
ebree,
a
questa
donna
venne
distrutta
la
tomba
nel
cimitero
di
Père
Lachaise
durante
l’occupazione
tedesca
della
città
e
sterminata
l’intera
famiglia
in
Serbia,
dove
inutilmente
aveva
provato
a
rifugiarsi.
Niente
quindi
rimase
di
Gerda:
non
un
padre,
una
madre
o un
fratello
a
tenerne
vivo
il
ricordo,
nessun
Pohorylle
a
tramandarne
la
memoria
di
fotogiornalista
grande
e
moderna.
Tanto
che
molte
sue
immagini,
molti
suoi
scatti,
molti
suoi
“momenti
decisivi”,
senza
un
erede
a
rivendicarli,
furono
attribuiti
al
suo
compagno.
A
quel
Robert
Capa
la
cui
fama
era
diventata
mondiale.
A
quel
Robert
Capa
che
dal
1938,
sviluppandole
meglio
negli
anni
successivi,
quelli
della
Seconda
guerra
mondiale
e
del
dopoguerra,
aveva
cominciato
ad
adoperare
le
pellicole
a
calori.
Memorabile
la
foto
a
colori
scattata
a
Roma
all’attrice
Capucine
affacciata
al
balcone
e
quella
del
1947
che
mostra
la
piazza
di
Mosca,
il
mausoleo
di
Lenin
e i
visitatori
in
attesa
di
entrarvi.
A
Mosca
Capa
era
andato
con
lo
scrittore
John
Steinbeck,
l’autore
del
romanzo
manifesto
dell’epopea
degli
okies,
i
contadini
cui
le
banche
avevano
requisito
le
terre.
Furore
era
stato
tradotto
in
Italia
sette
anni
prima,
grazie
alla
scoperta
(e
alla
divulgazione)
della
narrativa
sociale
americana
da
parte
di
Pavese
e di
Vittorini.
E le
parole
che
meglio
si
ricordano
del
romanzo
di
Steinbeck
sono
quelle
del
suo
protagonista.
Le
parole
di
Tom
Joad:
“Dovunque
ci
sono
bambini
affamati
che
piangono/dovunque
non
c’è
libertà/dovunque
uomini
e
donne
lottano
per
i
loro
diritti/io
sarò
là,
mamma/io
ci
sarò”.
Roberto
Saviano
ha
scritto
su
Repubblica
un
bell’articolo
sul
fotografo
della
guerra
–
l’anno
scorso
ricordato
per
il
centenario
della
nascita
e
quest’anno
per
i
sessant’anni
dalla
morte.
E ci
dice
che
tutte
le
immagini
rimaste
nella
nostra
mente
–
della
Guerra
Civile
spagnola
e
della
Seconda
guerra
mondiale,
le
città
bombardate,
lo
sbarco
in
Normandia,
le
madri
in
lutto
intorno
alle
bare
dei
ragazzi
del
liceo
Sannazzaro
morti
nelle
Quattro
giornate
di
Napoli,
gli
ebrei
sopravvissuti
allo
sterminio
–
tutte
queste
immagini
esistono
perché
è
esistito
Robert
Capa,
il
fotoreporter
“che
ha
fatto
letteratura
e
comunicazione
nelle
loro
accezioni
più
moderne”.