N. 49 - Gennaio 2012
(LXXX)
la rivoluzione del vapore
nascita e diffusione delle ferrovie
di Lorenzo Tacconi
Il 27 settembre del 1825, dopo aver percorso trentadue chilometri da Stockton al distretto minerario di Darlington, il primo convoglio ferroviario, progettato da George Stephenson (1781-1848), inaugurava una nuova era.
Dopo
oltre
vent'anni
di
tentativi,
l'intuizione
dell'ingegner
Richard
Trevithick
(1771-1833),
che
per
primo
aveva
intravisto
le
possibilità
dischiuse
dall'applicazione
della
macchina
a
vapore
alla
trazione
su
rotaia,
divenne
finalmente
realtà.
Da
quel
giorno
nulla
fu
più
come
prima:
al
flusso
delle
informazioni
che
correvano
lungo
i
fili
del
telegrafo,
si
accompagnò
il
movimento
di
uomini
e
merci
lungo
i
binari
della
ferrovia,
su
cui
viaggiavano
spediti
anche
la
posta
e i
giornali.
Grazie
all'insostituibile
ausilio
del
Bradshaw's
Continental
Railway
Steam
Transit
and
General
Guide,
Phileas
Fogg
vinse
la
scommessa
di
fare
in
ottanta
giorni
il
giro
del
mondo,
un
impresa
semplicemente
impossibile
soltanto
una
generazione
precedente.
Con
la
comparsa
dei
viaggi
in
treno
la
percezione
dello
spazio
e
del
tempo
cambiò
radicalmente:
le
distanze
parvero
accorciarsi,
i
viaggi
divennero
più
frequenti,
confortevoli
e
regolari,
gli
scambi
si
infittirono.
Il
treno
significava
prevedibilità
e
certezza
degli
spostamenti,
non
più
soggetti
ai
capricci
del
clima
come
avveniva
precedentemente
con
carrozze
e
diligenze.
A
bordo
occorreva
fare
attenzione
ai
vicini
molesti,
così
come
al
rischio
di
perdere
il
cappello
a
causa
del
vento.
Consigli
del
Padre
di
Pinocchio,
Carlo
Lorenzini,
che
nel
1856
pubblicava
a
beneficio
del
lettore
digiuno
di
cose
ferroviarie
un'amena
guida
del
viaggiatore
sulla
Firenze-Livorno,
una
delle
prime
linee
dell'Italia
preunitaria
–
Un
romanzo
in
vapore.
Da
Firenze
a
Livorno.
Guida
Storico-
Umoristica.
Dai
vagoni
prima
scoperti
e
poi
attraverso
i
finestrini
dei
nuovi
compartimenti
a
carrozza,
l'immaginario
collettivo
si
trasformava
rapidamente,
come
testimoniano
le
parole
di
un
anonimo
cronista
del
«Revue
de
Paris»
alle
prese
con
il
suo
primo
viaggio
in
locomotiva,
il
cui
articolo
tradotto
apparve
nel
1836
anche
sul
«Bollettino
di
notizie
italiane
e
straniere»:
La
macchina
procede
a
tutta
prima
lentamente;
ma
in
breve
si
anima,
si
accalora,
e
vola
come
se
fuggisse
atterrita
dal
fragore
dei
tanti
carri
che
si
trae
dietro;
ella
corre
rapida
come
l'impazienza;
il
suo
corso
pareggia
in
velocità
il
pensiero.
[…]
Chiudete
gli
occhi
per
riposarli
un
istante;
e
poi
riapriteli;
la
scena
è
già
cangiata,
i
pascoli
sono
divenuti
campi
e
l'aratro
ha
espulso
gli
armenti.
In
cinque
minuti
ciò
che
era
prima
lembo
dell'orizzonte
è
divenuto
centro
d'un
altro
orizzonte;
la
circonferenza
è
divenuta
centro
(La
strada
ferrata
tra
Brusselles
e
Malines,
«Annali
universali
statistica»,
1836,
346-350).
Alcuni
anni
dopo,
nel
celebre
scritto
Delle
strade
ferrate
italiane
e
del
migliore
ordinamento
di
esse
(1845),
Carlo
Ilarione
Petitti
esordiva
definendo
le
ferrovie
“il
più
grande
avvenimento
del
secolo”,
paragonabile
soltanto
alle
grandi
scoperte
“della
bussola
e
della
stampa”,
per
il
suo
inestimabile
contributo
al
cammino
di
sviluppo
della
civiltà:
La
molteplicità,
la
facilità
ed
il
comodo,
come
la
sicurezza
e
l'economia
de'
mezzi
di
trasporto,
sì
delle
persone
che
delle
merci,
possono
chiamarsi
il
vero
tormento
della
civiltà,
e
della
prosperità
materiale
e
morale
d'un
popolo.
Perocchè,
coll'accrescere
e
coll'agevolare
lo
scambio
delle
idee,
degli
affetti
e
delle
cose,
que'
mezzi
concorrono
ad
una
fusione
di
principi,
d'opinioni
e
d'interessi,
onde
nascono
i
primi
elementi
della
vera
civiltà,
le
più
sicure
cautele
d'una
condizione
quieta
ed
agiata
(Delle
strade
ferrate
italiane
e
del
migliore
ordinamento
di
esse.
Cinque
discorsi,
1845,
11).
A
partire
dagli
anni
trenta
dell'Ottocento
le
ferrovie
erano
diventate
il
più
intenso
settore
d'interesse
economico
in
Europa
e
nel
mondo,
principale
campo
di
raccolta
di
risparmi
e di
trasformazione
di
questi
in
capitale
azionario,
oggetto
privilegiato
di
complesse
strategie
di
borsa
e di
speculazioni
finanziarie,
simbolo
stesso
del
progresso
e
dell'irrefrenabile
avanzata
della
modernità.
Vapore,
ferro,
carbone
e
l'uomo
che
spinge
in
avanti
i
confini
del
sapere
tecnico:
tutto
ciò
trovava
nelle
ferrovie
la
sintesi
ideale,
a
tal
punto
che
nella
letteratura
ottocentesca
l'immagine
del
treno
occupò
uno
spazio
centrale,
offrendo
spunti
di
creatività
a
non
finire
(R.
Ceserani,
2002).
Ad
essere
ispirati
nel
loro
discorso
poetico
e
letterario
dalle
strade
ferrate
furono
tra
gli
altri
Giacomo
Belli
– il
sonetto
Le
carozze
a
vapore
(1843)
–,
Edmondo
De
Amicis,
Giosuè
Carducci
–
nel
suo
Inno
a
Satana
(1863),
dove
il
passaggio
della
vaporiera
faceva
“palpitare
il
piano”
– e
Giovanni
Pascoli,
con
la
splendida
poesia
intitolata
agli
Eroi
del
Sempione,
sull'indomito
lavoro
degli
operai
nello
scavo
della
montagna,
“al
rombo
della
dinamite”.
Di
particolare
interesse
la
capacità,
sempre
di
Pascoli,
di
cogliere
lo
stretto
legame
tra
il
treno
e il
telegrafo
–
applicato
per
la
prima
volta
in
Italia
nel
1847
lungo
la
linea Pisa-Livorno,
per
opera
di
Carlo
Meucci
allora
docente
di
fisica
all'Università
di
Pavia
–,
nei
celebri
versi
de
La
via
ferrata
(1886):
Tra
gli
argini
su
cui
mucche
tranquillamente
pascono,
bruna
si
difila
la
via
ferrata
che
lontano
brilla;
e
nel
cielo
di
perla
dritti,
uguali,
con
loro
trama
delle
aree
fila
digradano
in
fuggente
ordine
i
pali.
Qual
di
gemiti
e
d'ululi
rombando
cresce
e
dilegua
femminil
lamento?
I
fili
di
metallo
a
quando
a
quando
squillano,
immensa
arpa
sonora,
al
vento.
Dal
1830
nuove
parole
ed
espressioni
entrarono
lentamente
nella
lingua
nazionale.
Si
trattava
soprattutto
di
anglicismi,
giunti
con
ogni
probabilità
attraverso
la
Francia.
Lo
stesso
termine
“ferrovia”
derivava
dalla
traduzione
inglese
di
railway
(forse
addirittura
dal
tedesco
Eisenbahn)
e
per
questo
non
piaceva
ai
puristi,
che
a
lungo
preferirono
l'uso
del
termine
italiano
“strada
ferrata”,
bollando
il
neologismo
come
“goffo
e
barbaro”
(S.
Maggi,
2003,
241).
Il
primo
a
riconoscerne
la
praticità
fu
nel
1858
Gerolamo
Boccardo
nel
suo
Dizionario
della
economia
politica
e
del
commercio:
Ferrovie.
Parola
di
origine
recente,
creata
in
Piemonte
per
esprimere
con
un
solo
bene
appropriato
vocabolo
ciò
che
una
volta
indicavasi
con
la
perifrasi
di
strade
di
ferro
cioè
le
strade
a
rotaie
ferrate
percorse
ordinariamente
da
convogli
di
persone
e di
merci,
mediante
la
forza
locomotrice
del
vapore.
Nonostante
le
pedantesche
obbiezioni
onde
fu
atta
segno,
e
sebbene
non
abbia
avuto
la
privilegiata
sorte
di
nascere
sulle
rive
dell'Arno,
noi
crediamo
però
questa
parola
d'indole
perfettamente
italiana,
per
ogni
riguardo
preferibile
alle
circonlocuzioni
che
altri
le
vorrebbero
sostituire.
All'abilità
dei
pittori
spettò
poi
il
compito
di
immortalare
in
immagini
suggestive
il
fragoroso
passaggio
dei
treni,
in
una
spirale
di
vapore,
fumo
e
vento,
immersi
tra
le
brume
del
paesaggio
naturale
o
sullo
sfondo
di
città
trasformate
dalla
rivoluzione
industriale,
in
cangianti
metamorfosi
cromatiche.
Tra
questi,
il
napoletano
Salvatore
Fregola
in
L'inaugurazione
della
ferrovia
Napoli-
Portici
(1840),
Carlo
Bossoli
con
una
serie
di
vedute
della
Torino-Genova
appena
aperta
all'esercizio,
Giuseppe
de
Nittis
–
che
nel
1869
dipingeva
il
passaggio
del
treno
come
una
bianca
soffice
matassa
di
fumo
tra
i
campi
coltivati
– e,
infine,
Luigi
Selvatico
nel
quadro
la
Partenza
mattutina,
esposto
alla
Biennale
internazionale
dell'arte
di
Venezia
nel
1899.
A
subire
il
fascino
travolgente
delle
ferrovie
furono
prima
gli
impressionisti,
che
con
colori
sgargianti
dipinsero
locomotive
fumanti
e
convogli
in
corsa
–
come
se
fossero
elementi
della
natura
–,
poi
i
futuristi
–
intenti
nel
cogliere
invece
il
dinamismo
del
movimento
impresso
dalla
macchina
a
vapore
e la
drammaticità
del
viaggio,
pensiamo
agli
Addii,
Quelli
che
Vanno,
Quelli
che
restano
di
Umberto
Boccioni
(1911)
e,
soprattutto,
il
Treno
partorito
dal
Sole
di
Fortunato
Depero
(1924)
–
(A.
Lodolini,
1961,
251-253).
“Le
locomotive
dall'ampio
petto”,
scriveva
Tommaso
Marinetti
nel
Manifesto
del
futurismo
(1909),
“scalpitano
sulle
rotaie,
come
enormi
cavalli
d'acciaio
imbrigliati
di
tubi”,
celebrando
infine
la
folle
corsa
di
sfreccianti
convogli
ferroviari.
Il
trasporto
ferroviario
nasceva
nell'Inghilterra
della
rivoluzione
industriale,
con
l'inaugurazione
nel
1830
della
linea
Liverpool-Manchester,
ma
si
diffuse
rapidamente
in
tutta
Europa:
la
Francia
costruì
la
sua
prima
linea
nel
1832,
la
Germania
e il
Belgio
subito
dopo,
nel
1835,
la
Russia
nel
1837,
l'Austria
nel
1838,
l'Olanda
nel
1839,
la
Danimarca
e la
Svizzera
nel
1847,
la
Spagna
nel
1848.
Naturalmente
non
si
trattava
che
di
un
inizio;
il
ritmo
e il
numero
delle
costruzioni
variò
da
paese
a
paese,
e lo
sviluppo
della
rete
ferroviaria
andò
di
pari
passo
con
quello
dell'industrializzazione.
Nel
maggio
1829,
nei
pressi
di
Honnesdale,
in
Pennsylvania,
venne
organizzata
un
corsa
di
prova
grazie
ad
una
vaporiera
importata
direttamente
dall'Inghilterra.
Un
anno
dopo
la
prima
locomotiva
costruita
in
America
fece
il
suo
viaggio
inaugurale
su
un
tratto
di
tredici
miglia
tra
Baltimora
e le
Ellicotts
Mills
nel
Maryland.
Era
l'inizio
di
un
travolgente
sviluppo:
i
milleseicento
chilometri
aperti
al
traffico
nel
1835,
dieci
anni
dopo
erano
oltre
settemila,
sarebbero
saliti
a
28.800
nel
1855
e
quasi
a
cinquantamila
nel
1860.
Negli
Stati
Uniti
le
ferrovie,
date
le
dimensioni
del
paese,
giocarono
un
ruolo
essenziale
prima
nella
conquista
delle
immense
praterie
dell'Ovest,
poi
nello
sviluppo
di
città
e
commerci.
Attorno
alla
ferrovie
si
costruirono
alcune
delle
grandi
fortune
americane
–
Morgan,
Vandebilt
–,
si
forgiarono
capitali
d'impresa,
si
affermarono
finanzieri
e
managers.
La
Borsig
di
Berlino
costruì
la
prima
locomotiva
nel
1841
e
diciassette
anni
più
tardi,
nel
1858,
celebrò
la
consegna
dell'esemplare
numero
mille,
mentre
Henschel
di
Kassel
ne
produsse
duemila
tra
il
1848
e il
1886
(M.
Robbins,
1962).
A
partire
dagli
anni
venti,
si
sviluppò
anche
in
Italia
un
fervido
dibattito
sull'introduzione
delle
strade
ferrate,
la
cui
costruzione
e
gestione
venne
lasciata
in
gran
parte
nelle
mani
dei
privati,
non
senza
una
presenza
spesso
decisiva
di
quella
pubblica
in
una
anomala
commistione
d'interessi
che
sopravvisse
fino
alle
nazionalizzazioni
del
1905.
Spinti
da
motivazioni
diverse
e
orientati
verso
obiettivi
spesso
divergenti
–
desiderio
di
prestigio,
motivazioni
commerciali
o
aspirazioni
di
modernità
– i
governanti
italiani,
la
borghesia
più
aperta
e
una
nuova
leva
di
tecnici
si
accostarono
al
problema
ferroviario.
Mancavano
la
tecnologia,
importata
quasi
interamente
dalla
Gran
Bretagna
–
binari,
locomotive,
vagoni
–, i
capitali,
anch'essi
raccolti
in
gran
parte
presso
le
principali
case
finanziarie
europee
– in
particolare
inglesi,
francesi
e
austriache
–, e
soprattutto
lo
spirito
imprenditoriale,
che
soltanto
lentamente
maturò
tra
gli
italiani.
Più
concreti
e
consapevoli
furono
i
toscani
–
grazie
al
dinamismo
dei
banchieri
Pietro
Senn
ed
Emanuele
Fenzi,
agevolati
dalla
politica
liberista
di
Leopoldo
II
(A.
Giuntini,
1991)
– e
i
piemontesi
guidati
da
Cavour,
il
quale,
indovinando
già
dalla
metà
degli
anni
quaranta
il
destino
unitario
del
paese,
affidò
alle
ferrovie
un
ruolo
cruciale
rispetto
al
processo
di
unificazione
politica
ed
economica
(F.
Arese,
1953).
Egli
era
convinto
che
le
strade
ferrate
avrebbero
favorito
in
modo
particolare
i
paesi
arretrati:
“Per
queste
nazioni
le
ferrovie
saranno
più
che
un
mezzo
per
arricchirsi;
saranno
una
potente
arma
con
il
cui
aiuto
esse
riusciranno
a
trionfare
sulle
forze
ritardatrici
che
le
mantengono
in
un
pernicioso
stato
d'infanzia
industriale
e
politica”.
O
meglio,
come
scrisse
Carlo
Cattaneo
nel
1861,
la
ferrovia
sarebbe
stata
lo
strumento
“per
correggere
rapidamente
i
vizi
della
storia
e
della
geografia”.
Assai
meno
amichevolmente
vennero
accolte
le
prime
proposte
ferroviarie
nello
Stato
della
Chiesa,
dove
il
papa
Gregorio
XVI
negò
loro
ospitalità.
Nemmeno
la
salita
al
soglio
pontificio
del
più
liberale
Pio
IX
cambiò
di
molto
la
situazione,
risolvendo
in
un
nulla
di
fatto
i
numerosi
progetti
frutto
dell'attivismo
delle
legazioni
emilano-romagnole
e
delle
provincie
umbro-marchigiane
(E.
Petrucci,
2002;
P.
Negri,
1967,
1968).
Il
primo
tratto
ferroviario
venne
inaugurato
a
Napoli
nel
1839,
quando
Ferdinando
II,
accompagnato
da
bande
musicali
e
dal
frastuono
di
salve
di
cannone,
giunse
a
bordo
di
un
convoglio
ferroviario
a
Granatello
di
Portici,
dopo
un
breve
tragitto
di
sette
chilometri
e
mezzo
realizzato
dall'ingegnere
francese
Armand
Bayard
de
la
Vingtrie,
tra
ali
di
folla
festanti
in
trepidante
attesa
(N.
Ostuni,
1980).
Lungo
il
tragitto,
di
lì a
breve,
sorsero
anche
le
officine
ferroviarie
di
Pietrarsa
dove
furono
fabbricate
le
prime
locomotive
italiane.
Nel
giro
di
qualche
anno
nella
penisola
seguirono
numerose
altre
realizzazioni:
al
momento
della
nascita
del
nuovo
Regno
la
dotazione
complessiva
–
1.625
chilometri,
concentrati
prevalentemente
in
Piemonte,
Lombardia
e
Toscana
– si
componeva
di
sistemi
regionali
scollegati
tra
loro
e
sostanzialmente
non
comunicanti.
In
particolare
le
ferrovie
erano
quasi
totalmente
assenti
dal
Meridione,
tanto
che
nel
1860,
in
procinto
di
raggiungere
Napoli,
Garibaldi
si
vide
costretto
a
prendere
il
treno
a Vietri
poiché
nemmeno
i
lavori
di
collegamento
con
la
vicina
Salerno
erano
stati
ancora
completati.
La
linea
lungo
la
dorsale
adriatica
– da
Ancona
ad
Otranto,
la
cui
società
concessionaria
era
presieduta
da
Pietro
Bastogi,
con
Bettino
Ricasoli
vicepresidente
–
versava
poi
in
uno
stato
di
tale
precarietà
da
temere,
durante
il
viaggio
inaugurale
del
1863
– da
Pescara
a
Foggia
–,
addirittura
per
la
sicurezza
del
vagone
su
cui
viaggiava
il
re
Vittorio
Emanuele
II
(R.
Lorenzetti,
1989.
4).
Bisognava
ricucire
assieme
la
tela,
cosa
che
il
nuovo
Regno
fece
dopo
il
1861,
affastellando
linee
su
linee
con
l'obiettivo
soprattutto
di
unire
il
Nord
del
paese
con
il
Sud
e
affidando
alle
ferrovie
il
compito
di
favorire
l'integrazione
tra
le
varie
economie
locali
e
tra
i
diversi
microcosmi
regionali,
distanti
tra
loro
per
cultura,
tradizione
e
mentalità.
Scriveva
infatti
nel
1860
Stefano
Jacini,
allora
Ministro
dei
Lavori
Pubblici:
“Le
ferrovie
che
collegando
colla
rapidità
dei
mezzi
di
trasporto
le
varie
parti
della
penisola,
disgiunte
e
scomposte
fino
ad
ora,
più
che
per
le
circostanze
topografiche,
per
la
molteplicità
degli
Stati
distinti,
per
i
disparati
principii
di
governo,
e
per
le
vedute
preponderanti
di
straniera
tirannide
o
diffidenza,
debbono
cementare
mirabilmente
la
appena
conquistata
unità
politica
della
Patria”
(S.
Jacini,
1861,
3-4).
I
risultati,
tra
luci
ed
ombre,
furono
quantitativamente
apprezzabili:
nel
1866
la
rete
raggiungeva
l'invidiabile
estensione
di
oltre
4.000
chilometri,
ma
rispondeva
solo
parzialmente
a
logiche
coerenti,
quanto
piuttosto
ad
un
generico
bisogno
di
modernizzazione,
mentre
era
ancora
poco
sfruttata
per
il
trasporto
delle
merci
e la
densità
di
traffico
era
di
molto
inferiore
a
quella
della
media
dei
paesi
europei.
Al
momento
della
conquista
di
Roma
la
rete
nazionale
aveva
ormai
raggiunto
i
6.000
chilometri
–
era
triplicata
rispetto
a
soli
dieci
anni
prima
– e
delle
34
provincie
inizialmente
senza
ferrovie,
soltanto
nove
rimanevano
ancora
del
tutto
prive
di
binari.
L'ascesa
al
potere
della
Sinistra
nel
1876
–
dopo
che
la
Destra
era
inciampata
proprio
sulla
questione
delle
ferrovie,
alla
cui
costruzione
aveva
destinato
ben
451
milioni
di
lire
–
segnava
il
secolo
del
boom
ferroviario
–
una
vera
e
propria
railway
mania
(A.
Giuntini,
1999,
21-43)
–:
in
undici
anni,
dal
1881
al
1895,
si
costruirono
così
ben
6.500
chilometri
di
ferrovie.
In
gran
parte
si
trattava
però
di
linee
secondarie
d'integrazione
alla
rete
principale.
I
tratti
più
impegnativi
furono
quelle
di
montagna
–
dai
Giovi
(1855)
alla
Porrettana
(1864),
dal
Brennero
(1867)
al
Fréjus
(1872),
dal
Gottardo
(1882)
al
Sempione
(1905)
–
che
rappresentarono
un
banco
di
prova
per
generazioni
di
ingegneri
(A.
Crispo,
1940;
C.
De
Biase,
1940;
F.
Tajani,
1939;
M.
Di
Gianfrancesco,
1979).
Oltre
allo
sviluppo
del
settore
siderurgico
e
meccanico,
le
strade
ferrate
permisero
il
decollo
industriale
di
un
ingente
indotto,
formato
da
imprese
che
tagliavano
e
lavoravano
il
legname
per
le
traversine
e le
casse
delle
vetture,
vetriere
e
fabbriche
per
l'estrazione
della
lignite
–
usata
come
combustibile
– e
per
la
produzione
di
laterizi,
prezzi
di
ricambio
e
vagoni.
Con
la
nazionalizzazione
nel
1905,
giunta
al
termine
di
un
confronto
aspro
dai
toni
esagitati
spesso
sopra
le
righe
e
prolungato
nel
tempo,
si
chiudeva
così
“l'età
d'oro”
delle
ferrovie;
un
nuovo
concorrente,
il
motore,
avrebbe
caratterizzato
il
mondo
dei
trasporti
del
nuovo
secolo.
Le
strade
ferrate
si
diffusero
rapidamente
in
tutto
il
continente
nel
momento
in
cui
il
nation
building
iniziava
a
mescolarsi
e a
scontrarsi
con
la
nascita
della
moderna
società
di
massa,
contribuendo
ad
accelerare
lo
sviluppo
di
entrambi
i
fenomeni.
Sbuffanti
locomotive
riempirono
allora
le
copertine
dei
giornali
di
tutta
Europa,
generando
passioni
politiche
e
intrecci
d'affari
– A
Londra,
l'inventore
John
Herapath
ebbe
la
geniale
idea
di
pubblicare
già
nel
1836
il
primo
periodico
interamente
dedicato
alle
ferrovie,
il
celebre
«The
Railway
Magazine»
–.
Perfino
il
costume
venne
rivoluzionato
e le
ferrovie
si
imposero
come
fenomeno
di
moda:
tutto
ciò
contribuì
ad
alimentare
un
clima
di
entusiasmo
e di
grandi
aspettative
per
l'avvento
di
una
nuova
età
di
incontrastato,
fulgido
progresso.
Acuto
osservatore
della
realtà
del
suo
tempo,
su
di
un
giornale
di
varietà
milanese,
Cattaneo
stesso
prese
atto
di
come
“la
moda
si
far
progetti
di
strade
ferrate”
si
diffondeva
“irresistibilmente
in
paese
e
fuori”:
Volete
una
prova
che
la
moda
delle
strade
ferrate
è in
gran
voga?
Osservate
il
Journal
des
Débats
corrente
e
vedrete
che
il
giorno
8
furono
presentati
alla
Camera
dei
Deputati
di
Francia
sei
progetti
di
strade
ferrate:
uno
da
Parigi
a
Roano,
uno
da
Parigi
a
Orleans,
uno
da
Thann
a
Mulhauser,
uno
da
Lione
a
Marsiglia,
uno
da
Parigi
alla
frontiera
Belgica,
ed
uno
col
nome
di
strada
di
ferro
del
Gerd.
Che
se
si
volesse
stendere
la
lista
di
tutte
le
strade
ferrate
in
corso
di
lavoro
od
in
progetto
non
solo
in
Francia
ed
in
Italia,
ma
in
Inghilterra,
in
Germania,
in
America
ed
altrove,
non
basterebbe
tutto
il
foglio
per
farla
completa
(testo
in
«La
Moda.
Giornale
dedicato
al
bel
sesso»,18
maggio
1837,
1).
Anche
le
metropoli
europee
oltre
ad
essere
sconvolte
nel
loro
assetto
urbanistico,
immutato
da
secoli,
si
dilatarono
parallelamente
alla
costruzione
delle
reti
ferroviarie:
Londra
passò
da
2,2
a
6,6
milioni
di
abitanti,
Parigi
da
1,1
a
3,3,
mentre
Roma
e
Milano
da
200.00
a
mezzo
milione
(A.
Mioni,
1976,
45-150).
Le
sedici
miglia
di
binario
inglesi
del
1825,
cinquant'anni
più
tardi
divennero
nel
mondo
oltre
centosessantamila;
le
locomotive
costruite
passarono
dalle
due
del
1825
alle
circa
settantamila
di
fine
secolo,
e la
loro
velocità
oraria
crebbe
da
venti
a
oltre
sessanta
chilometri
orari.
In
campo
ferroviario
il
ritardo
italiano
era
molto
forte
rispetto
all'Inghilterra,
ma
più
contenuto
rispetto
alle
altre
nazioni
europee.
Nel
1860
la
Gran
Bretagna
aveva
completato
quasi
la
metà
delle
linee,
la
Francia
e la
Germania
circa
un
quinto,
mentre
l'Italia
poco
più
di
un
settimo,
ma
alle
soglie
della
prima
guerra
mondiale
la
rete
era
sostanzialmente
completata.
Ancora
nell'Ottocento,
le
gerarchie
economiche
tra
i
vari
paesi
europei
rispecchiavano
l'estensione
delle
rispettive
linee
ferroviarie.
Gli
Stati
Uniti,
un
mondo
ancora
lontano
dall'Europa,
sopravanzarono
rapidamente
qualunque
altro
paese.
La
progredita
Inghilterra
era
seguita
a
ruota
dalla
Prussia,
dal
piccolo
Belgio,
e a
maggiore
distanza
dalla
Francia.
Ma
grazie
a
tecnici
e
capitali
provenienti
dall'estero,
sfreccianti
locomotive
con
il
loro
fumo
bianco
e il
crepitio
delle
ruote
sui
binari
attraversarono
anche
regioni
industrialmente
arretrate:
si
costruirono
ferrovie
in
India,
Turchia
e
Russia
–
dove
agli
inizi
del
Novecento,
grazie
all'impegno
profuso
dal
conte
Witte,
venne
ultimata
la
Transiberiana
che
da
Mosca
giungeva
fino
al
porto
di
Vladivostok,
percorrendo
ben
9.300
chilometri
–.
Nell'entusiasmo
dell'ora,
commentando
nella
Prefazione
alla
seconda
edizione
de
«Il
Politecnico»
l'incalzante
diffusione
che
le
strade
ferrate
avevano
avuto
in
pochi
decenni
in
tutto
il
mondo,
anche
Cattaneo
si
lasciò
andare
a
parole
di
compiaciuto
stupore:
“Nel
breve
corso
di
una
generazione
[…]
quante
migliaia
di
migliaia
di
ridotte
a
carriera
ferrata
in
Europa
e in
America!
Anche
l'Algeria,
l'Egitto,
l'India,
l'Australia
udirono
il
primo
sibilo
della
locomotiva;
la
locomotiva
presso
i
vetusti
idoli
dell'India,
fra
i
nomadi
dell'Africa,
fra
i
cannibali
dell'Australia!”
(testo
in
Scritti
filosofici,
a
cura
di
N.
Bobbio,
vol.
I,
1960,
278).