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N. 49 - Gennaio 2012 (LXXX)

la rivoluzione del vapore
nascita e diffusione delle ferrovie

di Lorenzo Tacconi

 

Il 27 settembre del 1825, dopo aver percorso trentadue chilometri da Stockton al distretto minerario di Darlington, il primo convoglio ferroviario, progettato da George Stephenson (1781-1848), inaugurava una nuova era.

 

Dopo oltre vent'anni di tentativi, l'intuizione dell'ingegner Richard Trevithick (1771-1833), che per primo aveva intravisto le possibilità dischiuse dall'applicazione della macchina a vapore alla trazione su rotaia, divenne finalmente realtà.

 

Da quel giorno nulla fu più come prima: al flusso delle informazioni che correvano lungo i fili del telegrafo, si accompagnò il movimento di uomini e merci lungo i binari della ferrovia, su cui viaggiavano spediti anche la posta e i giornali.

 

Grazie all'insostituibile ausilio del Bradshaw's Continental Railway Steam Transit and General Guide, Phileas Fogg vinse la scommessa di fare in ottanta giorni il giro del mondo, un impresa semplicemente impossibile soltanto una generazione precedente.

 

Con la comparsa dei viaggi in treno la percezione dello spazio e del tempo cambiò radicalmente: le distanze parvero accorciarsi, i viaggi divennero più frequenti, confortevoli e regolari, gli scambi si infittirono. Il treno significava prevedibilità e certezza degli spostamenti, non più soggetti ai capricci del clima come avveniva precedentemente con carrozze e diligenze.

 

A bordo occorreva fare attenzione ai vicini molesti, così come al rischio di perdere il cappello a causa del vento. Consigli del Padre di Pinocchio, Carlo Lorenzini, che nel 1856 pubblicava a beneficio del lettore digiuno di cose ferroviarie un'amena guida del viaggiatore sulla Firenze-Livorno, una delle prime linee dell'Italia preunitaria – Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida Storico- Umoristica.

 

Dai vagoni prima scoperti e poi attraverso i finestrini dei nuovi compartimenti a carrozza, l'immaginario collettivo si trasformava rapidamente, come testimoniano le parole di un anonimo cronista del «Revue de Paris» alle prese con il suo primo viaggio in locomotiva, il cui articolo tradotto apparve nel 1836 anche sul «Bollettino di notizie italiane e straniere»:

 

La macchina procede a tutta prima lentamente; ma in breve si anima, si accalora, e vola come se fuggisse atterrita dal fragore dei tanti carri che si trae dietro; ella corre rapida come l'impazienza; il suo corso pareggia in velocità il pensiero. […] Chiudete gli occhi per riposarli un istante; e poi riapriteli; la scena è già cangiata, i pascoli sono divenuti campi e l'aratro ha espulso gli armenti.

 

In cinque minuti ciò che era prima lembo dell'orizzonte è divenuto centro d'un altro orizzonte; la circonferenza è divenuta centro (La strada ferrata tra Brusselles e Malines, «Annali universali statistica», 1836, 346-350).

 

Alcuni anni dopo, nel celebre scritto Delle strade ferrate italiane e del migliore ordinamento di esse (1845), Carlo Ilarione Petitti esordiva definendo le ferrovie “il più grande avvenimento del secolo”, paragonabile soltanto alle grandi scoperte “della bussola e della stampa”, per il suo inestimabile contributo al cammino di sviluppo della civiltà:

 

La molteplicità, la facilità ed il comodo, come la sicurezza e l'economia de' mezzi di trasporto, sì delle persone che delle merci, possono chiamarsi il vero tormento della civiltà, e della prosperità materiale e morale d'un popolo.

 

Perocchè, coll'accrescere e coll'agevolare lo scambio delle idee, degli affetti e delle cose, que' mezzi concorrono ad una fusione di principi, d'opinioni e d'interessi, onde nascono i primi elementi della vera civiltà, le più sicure cautele d'una condizione quieta ed agiata (Delle strade ferrate italiane e del migliore ordinamento di esse. Cinque discorsi, 1845, 11).

 

A partire dagli anni trenta dell'Ottocento le ferrovie erano diventate il più intenso settore d'interesse economico in Europa e nel mondo, principale campo di raccolta di risparmi e di trasformazione di questi in capitale azionario, oggetto privilegiato di complesse strategie di borsa e di speculazioni finanziarie, simbolo stesso del progresso e dell'irrefrenabile avanzata della modernità.

 

Vapore, ferro, carbone e l'uomo che spinge in avanti i confini del sapere tecnico: tutto ciò trovava nelle ferrovie la sintesi ideale, a tal punto che nella letteratura ottocentesca l'immagine del treno occupò uno spazio centrale, offrendo spunti di creatività a non finire (R. Ceserani, 2002).

 

Ad essere ispirati nel loro discorso poetico e letterario dalle strade ferrate furono tra gli altri Giacomo Belli – il sonetto Le carozze a vapore (1843) –, Edmondo De Amicis, Giosuè Carducci – nel suo Inno a Satana (1863), dove il passaggio della vaporiera faceva “palpitare il piano” – e Giovanni Pascoli, con la splendida poesia intitolata agli Eroi del Sempione, sull'indomito lavoro degli operai nello scavo della montagna, “al rombo della dinamite”.

 

Di particolare interesse la capacità, sempre di Pascoli, di cogliere lo stretto legame tra il treno e il telegrafo – applicato per la prima volta in Italia nel 1847 lungo la linea Pisa-Livorno, per opera di Carlo Meucci allora docente di fisica all'Università di Pavia –, nei celebri versi de La via ferrata (1886):

 

Tra gli argini su cui mucche

tranquillamente pascono, bruna si difila

la via ferrata che lontano brilla;

e nel cielo di perla dritti, uguali,

con loro trama delle aree fila

digradano in fuggente ordine i pali.

Qual di gemiti e d'ululi rombando

cresce e dilegua femminil lamento?

I fili di metallo a quando a quando

squillano, immensa arpa sonora, al vento.

 

Dal 1830 nuove parole ed espressioni entrarono lentamente nella lingua nazionale. Si trattava soprattutto di anglicismi, giunti con ogni probabilità attraverso la Francia. Lo stesso termine “ferrovia” derivava dalla traduzione inglese di railway (forse addirittura dal tedesco Eisenbahn) e per questo non piaceva ai puristi, che a lungo preferirono l'uso del termine italiano “strada ferrata”, bollando il neologismo come “goffo e barbaro” (S. Maggi, 2003, 241).

 

Il primo a riconoscerne la praticità fu nel 1858 Gerolamo Boccardo nel suo Dizionario della economia politica e del commercio: Ferrovie. Parola di origine recente, creata in Piemonte per esprimere con un solo bene appropriato vocabolo ciò che una volta indicavasi con la perifrasi di strade di ferro cioè le strade a rotaie ferrate percorse ordinariamente da convogli di persone e di merci, mediante la forza locomotrice del vapore.

 

Nonostante le pedantesche obbiezioni onde fu atta segno, e sebbene non abbia avuto la privilegiata sorte di nascere sulle rive dell'Arno, noi crediamo però questa parola d'indole perfettamente italiana, per ogni riguardo preferibile alle circonlocuzioni che altri le vorrebbero sostituire.

 

All'abilità dei pittori spettò poi il compito di immortalare in immagini suggestive il fragoroso passaggio dei treni, in una spirale di vapore, fumo e vento, immersi tra le brume del paesaggio naturale o sullo sfondo di città trasformate dalla rivoluzione industriale, in cangianti metamorfosi cromatiche.

 

Tra questi, il napoletano Salvatore Fregola in L'inaugurazione della ferrovia Napoli- Portici (1840), Carlo Bossoli con una serie di vedute della Torino-Genova appena aperta all'esercizio, Giuseppe de Nittis – che nel 1869 dipingeva il passaggio del treno come una bianca soffice matassa di fumo tra i campi coltivati – e, infine, Luigi Selvatico nel quadro la Partenza mattutina, esposto alla Biennale internazionale dell'arte di Venezia nel 1899.

 

A subire il fascino travolgente delle ferrovie furono prima gli impressionisti, che con colori sgargianti dipinsero locomotive fumanti e convogli in corsa – come se fossero elementi della natura –, poi i futuristi – intenti nel cogliere invece il dinamismo del movimento impresso dalla macchina a vapore e la drammaticità del viaggio, pensiamo agli Addii, Quelli che Vanno, Quelli che restano di Umberto Boccioni (1911) e, soprattutto, il Treno partorito dal Sole di Fortunato Depero (1924) – (A. Lodolini, 1961, 251-253).

 

“Le locomotive dall'ampio petto”, scriveva Tommaso Marinetti nel Manifesto del futurismo (1909), “scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di

tubi”, celebrando infine la folle corsa di sfreccianti convogli ferroviari.

 

Il trasporto ferroviario nasceva nell'Inghilterra della rivoluzione industriale, con l'inaugurazione nel 1830 della linea Liverpool-Manchester, ma si diffuse rapidamente in tutta Europa: la Francia costruì la sua prima linea nel 1832, la Germania e il Belgio subito dopo, nel 1835, la Russia nel 1837, l'Austria nel 1838, l'Olanda nel 1839, la Danimarca e la Svizzera nel 1847, la Spagna nel 1848.

 

Naturalmente non si trattava che di un inizio; il ritmo e il numero delle costruzioni variò da paese a paese, e lo sviluppo della rete ferroviaria andò di pari passo con quello dell'industrializzazione. Nel maggio 1829, nei pressi di Honnesdale, in Pennsylvania, venne organizzata un corsa di prova grazie ad una vaporiera importata direttamente dall'Inghilterra.

 

Un anno dopo la prima locomotiva costruita in America fece il suo viaggio inaugurale su un tratto di tredici miglia tra Baltimora e le Ellicotts Mills nel Maryland. Era l'inizio di un travolgente sviluppo: i milleseicento chilometri aperti al traffico nel 1835, dieci anni dopo erano oltre settemila, sarebbero saliti a 28.800 nel 1855 e quasi a cinquantamila nel 1860.

 

Negli Stati Uniti le ferrovie, date le dimensioni del paese, giocarono un ruolo essenziale prima nella conquista delle immense praterie dell'Ovest, poi nello sviluppo di città e commerci. Attorno alla ferrovie si costruirono alcune delle grandi fortune americane – Morgan, Vandebilt –, si forgiarono capitali d'impresa, si affermarono finanzieri e managers.

 

La Borsig di Berlino costruì la prima locomotiva nel 1841 e diciassette anni più tardi, nel 1858, celebrò la consegna dell'esemplare numero mille, mentre Henschel di Kassel ne produsse duemila tra il 1848 e il 1886 (M. Robbins, 1962).

 

A partire dagli anni venti, si sviluppò anche in Italia un fervido dibattito sull'introduzione delle strade ferrate, la cui costruzione e gestione venne lasciata in gran parte nelle mani dei privati, non senza una presenza spesso decisiva di quella pubblica in una anomala commistione d'interessi che sopravvisse fino alle nazionalizzazioni del 1905.

 

Spinti da motivazioni diverse e orientati verso obiettivi spesso divergenti – desiderio di prestigio, motivazioni commerciali o aspirazioni di modernità – i governanti italiani, la borghesia più aperta e una nuova leva di tecnici si accostarono al problema ferroviario.

 

Mancavano la tecnologia, importata quasi interamente dalla Gran Bretagna – binari, locomotive, vagoni –, i capitali, anch'essi raccolti in gran parte presso le principali case finanziarie europee – in particolare inglesi, francesi e austriache –, e soprattutto lo spirito imprenditoriale, che soltanto lentamente maturò tra gli italiani.

 

Più concreti e consapevoli furono i toscani – grazie al dinamismo dei banchieri Pietro Senn ed Emanuele Fenzi, agevolati dalla politica liberista di Leopoldo II (A. Giuntini, 1991) – e i piemontesi guidati da Cavour, il quale, indovinando già dalla metà degli anni quaranta il destino unitario del paese, affidò alle ferrovie un ruolo cruciale rispetto al processo di unificazione politica ed economica (F. Arese, 1953).

 

Egli era convinto che le strade ferrate avrebbero favorito in modo particolare i paesi arretrati: “Per queste nazioni le ferrovie saranno più che un mezzo per arricchirsi; saranno una potente arma con il cui aiuto esse riusciranno a trionfare sulle forze ritardatrici che le mantengono in un pernicioso stato d'infanzia industriale e politica”.

 

O meglio, come scrisse Carlo Cattaneo nel 1861, la ferrovia sarebbe stata lo strumento

“per correggere rapidamente i vizi della storia e della geografia”. Assai meno amichevolmente vennero accolte le prime proposte ferroviarie nello Stato della Chiesa, dove il papa Gregorio XVI negò loro ospitalità.

 

Nemmeno la salita al soglio pontificio del più liberale Pio IX cambiò di molto la situazione, risolvendo in un nulla di fatto i numerosi progetti frutto dell'attivismo delle legazioni emilano-romagnole e delle provincie umbro-marchigiane (E. Petrucci, 2002; P. Negri, 1967, 1968).

 

Il primo tratto ferroviario venne inaugurato a Napoli nel 1839, quando Ferdinando II, accompagnato da bande musicali e dal frastuono di salve di cannone, giunse a bordo di un convoglio ferroviario a Granatello di Portici, dopo un breve tragitto di sette chilometri e mezzo realizzato dall'ingegnere francese Armand Bayard de la Vingtrie, tra ali di folla festanti in trepidante attesa (N. Ostuni, 1980).

 

Lungo il tragitto, di lì a breve, sorsero anche le officine ferroviarie di Pietrarsa dove furono fabbricate le prime locomotive italiane. Nel giro di qualche anno nella penisola seguirono numerose altre realizzazioni: al momento della nascita del nuovo Regno la dotazione complessiva – 1.625 chilometri, concentrati prevalentemente in Piemonte, Lombardia e Toscana – si componeva di sistemi regionali scollegati tra loro e sostanzialmente non comunicanti.

 

In particolare le ferrovie erano quasi totalmente assenti dal Meridione, tanto che nel 1860, in procinto di raggiungere Napoli, Garibaldi si vide costretto a prendere il treno a Vietri poiché nemmeno i lavori di collegamento con la vicina Salerno erano stati ancora completati.

 

La linea lungo la dorsale adriatica – da Ancona ad Otranto, la cui società concessionaria era presieduta da Pietro Bastogi, con Bettino Ricasoli vicepresidente – versava poi in uno stato di tale precarietà da temere, durante il viaggio inaugurale del 1863 – da Pescara a Foggia –, addirittura per la sicurezza del vagone su cui viaggiava il re Vittorio Emanuele II (R. Lorenzetti, 1989. 4).

 

Bisognava ricucire assieme la tela, cosa che il nuovo Regno fece dopo il 1861, affastellando linee su linee con l'obiettivo soprattutto di unire il Nord del paese con il Sud e affidando alle ferrovie il compito di favorire l'integrazione tra le varie economie locali e tra i diversi microcosmi regionali, distanti tra loro per cultura, tradizione e mentalità.

 

Scriveva infatti nel 1860 Stefano Jacini, allora Ministro dei Lavori Pubblici: “Le ferrovie che collegando colla rapidità dei mezzi di trasporto le varie parti della penisola, disgiunte e scomposte fino ad ora, più che per le circostanze topografiche, per la molteplicità degli Stati distinti, per i disparati principii di governo, e per le vedute preponderanti di straniera tirannide o diffidenza, debbono cementare mirabilmente la appena conquistata unità politica della Patria” (S. Jacini, 1861, 3-4).

 

I risultati, tra luci ed ombre, furono quantitativamente apprezzabili: nel 1866 la rete raggiungeva l'invidiabile estensione di oltre 4.000 chilometri, ma rispondeva solo parzialmente a logiche coerenti, quanto piuttosto ad un generico bisogno di modernizzazione, mentre era ancora poco sfruttata per il trasporto delle merci e la densità di traffico era di molto inferiore a quella della media dei paesi europei.

 

Al momento della conquista di Roma la rete nazionale aveva ormai raggiunto i 6.000 chilometri – era triplicata rispetto a soli dieci anni prima – e delle 34 provincie inizialmente senza ferrovie, soltanto nove rimanevano ancora del tutto prive di binari.

 

L'ascesa al potere della Sinistra nel 1876 – dopo che la Destra era inciampata proprio sulla questione delle ferrovie, alla cui costruzione aveva destinato ben 451 milioni di lire – segnava il secolo del boom ferroviario – una vera e propria railway mania (A. Giuntini, 1999, 21-43) –: in undici anni, dal 1881 al 1895, si costruirono così ben 6.500 chilometri di ferrovie.

 

In gran parte si trattava però di linee secondarie d'integrazione alla rete principale. I tratti più impegnativi furono quelle di montagna – dai Giovi (1855) alla Porrettana (1864), dal Brennero (1867) al Fréjus (1872), dal Gottardo (1882) al Sempione (1905) – che rappresentarono un banco di prova per generazioni di ingegneri (A. Crispo, 1940; C. De Biase, 1940; F. Tajani, 1939; M. Di Gianfrancesco, 1979).

 

Oltre allo sviluppo del settore siderurgico e meccanico, le strade ferrate permisero il decollo industriale di un ingente indotto, formato da imprese che tagliavano e lavoravano il legname per le traversine e le casse delle vetture, vetriere e fabbriche per l'estrazione della lignite – usata come combustibile – e per la produzione di laterizi, prezzi di ricambio e vagoni.

 

Con la nazionalizzazione nel 1905, giunta al termine di un confronto aspro dai toni esagitati spesso sopra le righe e prolungato nel tempo, si chiudeva così “l'età d'oro” delle ferrovie; un nuovo concorrente, il motore, avrebbe caratterizzato il mondo dei trasporti del nuovo secolo.

 

Le strade ferrate si diffusero rapidamente in tutto il continente nel momento in cui il nation building iniziava a mescolarsi e a scontrarsi con la nascita della moderna società di massa, contribuendo ad accelerare lo sviluppo di entrambi i fenomeni. Sbuffanti locomotive riempirono allora le copertine dei giornali di tutta Europa, generando passioni politiche e intrecci d'affari – A Londra, l'inventore John Herapath ebbe la geniale idea di pubblicare già nel 1836 il primo periodico interamente dedicato alle ferrovie, il celebre «The Railway Magazine» –.

 

Perfino il costume venne rivoluzionato e le ferrovie si imposero come fenomeno di moda: tutto ciò contribuì ad alimentare un clima di entusiasmo e di grandi aspettative per l'avvento di una nuova età di incontrastato, fulgido progresso.

 

Acuto osservatore della realtà del suo tempo, su di un giornale di varietà milanese, Cattaneo stesso prese atto di come “la moda si far progetti di strade ferrate” si diffondeva “irresistibilmente in paese e fuori”: Volete una prova che la moda delle strade ferrate è in gran voga?

 

Osservate il Journal des Débats corrente e vedrete che il giorno 8 furono presentati alla Camera dei Deputati di Francia sei progetti di strade ferrate: uno da Parigi a Roano, uno da Parigi a Orleans, uno da Thann a Mulhauser, uno da Lione a Marsiglia, uno da Parigi alla frontiera Belgica, ed uno col nome di strada di ferro del Gerd.

 

Che se si volesse stendere la lista di tutte le strade ferrate in corso di lavoro od in progetto non solo in Francia ed in Italia, ma in Inghilterra, in Germania, in America ed altrove, non basterebbe tutto il foglio per farla completa (testo in «La Moda. Giornale dedicato al bel sesso»,18 maggio 1837, 1).

 

Anche le metropoli europee oltre ad essere sconvolte nel loro assetto urbanistico, immutato da secoli, si dilatarono parallelamente alla costruzione delle reti ferroviarie: Londra passò da 2,2 a 6,6 milioni di abitanti, Parigi da 1,1 a 3,3, mentre Roma e Milano da 200.00 a mezzo milione (A. Mioni, 1976, 45-150).

 

Le sedici miglia di binario inglesi del 1825, cinquant'anni più tardi divennero nel mondo oltre centosessantamila; le locomotive costruite passarono dalle due del 1825 alle circa settantamila di fine secolo, e la loro velocità oraria crebbe da venti a oltre sessanta chilometri orari.

 

In campo ferroviario il ritardo italiano era molto forte rispetto all'Inghilterra, ma più contenuto rispetto alle altre nazioni europee. Nel 1860 la Gran Bretagna aveva completato quasi la metà delle linee, la Francia e la Germania circa un quinto, mentre l'Italia poco più di un settimo, ma alle soglie della prima guerra mondiale la rete era sostanzialmente completata.

 

Ancora nell'Ottocento, le gerarchie economiche tra i vari paesi europei rispecchiavano l'estensione delle rispettive linee ferroviarie. Gli Stati Uniti, un mondo ancora lontano dall'Europa, sopravanzarono rapidamente qualunque altro paese.

 

La progredita Inghilterra era seguita a ruota dalla Prussia, dal piccolo Belgio, e a maggiore distanza dalla Francia. Ma grazie a tecnici e capitali provenienti dall'estero, sfreccianti locomotive con il loro fumo bianco e il crepitio delle ruote sui binari attraversarono anche regioni industrialmente arretrate: si costruirono ferrovie in India, Turchia e Russia – dove agli inizi del Novecento, grazie all'impegno profuso dal conte Witte, venne ultimata la Transiberiana che da Mosca giungeva fino al porto di Vladivostok, percorrendo ben 9.300 chilometri –.

 

Nell'entusiasmo dell'ora, commentando nella Prefazione alla seconda edizione de «Il Politecnico» l'incalzante diffusione che le strade ferrate avevano avuto in pochi decenni in tutto il mondo, anche Cattaneo si lasciò andare a parole di compiaciuto stupore: “Nel breve corso di una generazione […] quante migliaia di migliaia di ridotte a carriera ferrata in Europa e in America! Anche l'Algeria, l'Egitto, l'India, l'Australia udirono il primo sibilo della locomotiva; la locomotiva presso i vetusti idoli dell'India, fra i nomadi dell'Africa, fra i cannibali dell'Australia!” (testo in Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, vol. I, 1960, 278).



 

 

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