N. 15 - Marzo 2009
(XLVI)
LA
RIVOLUZIONE IRANIANA
IL VICARIATO DEI
GIURECONSULTI
di Cristiano Zepponi
La rivoluzione iraniana
del 1979 trovò linfa e vigore abbeverandosi alla fonte
dello scontento popolare generato dalle contraddizioni
acute dello Stato, nei decenni precedenti.
Il Paese, allora conosciuto col nome di Persia, visse –
tra 1906 e 1911 – la sconfitta del moto costituzionale
che sembrava poter imprimere una svolta nella vita
politica locale. Durante la prima guerra mondiale rimase
formalmente neutrale, ma Gran Bretagna e Russia
condussero operazioni militari all’interno dei confini
persiani, rivelando lo stato di sostanziale subalternità
della monarchia dei Qājār.
Al termine del conflitto, dopo la scoperta dei
giacimenti petroliferi (che avrebbero presto portato
alla fondazione dell’Anglo-Persian Oil Company), la
politica persiana risultò sempre più soggiogata ai
voleri britannici. Nel 1919, in particolare, la Gran
Bretagna – in cambio del riconoscimento
dell’indipendenza del Paese mediorientale – ottenne
rilevanti privilegi di natura militare, fiscale ed
economica.
Ne derivò un golpe, attuato nella notte del 21 febbraio
del 1921 ad opera di un ufficiale della brigata cosacca,
Ridā (Reza) Shāh, che inizialmente strappò il ministero
della guerra, e quattro anni dopo completò l’opera
liquidando la dinastia regnante, prima di essere
riconosciuto nuovo scià di Persia.
Reza Shāh governò sulla scia di quanto Mustafà Kemàl
stava realizzando in Turchia, ed al contempo sulla base
della massiccia tradizione dei tiranni locali: alternò
istanze modernizzatrici a spietate repressioni, impose
alle donne di togliersi il velo senza concedergli il
voto, le ammise all’università di Teheran senza abolire
i privilegi maschili in fatto di diritto matrimoniale e
familiare, sostenne le moderne scuole laiche senza
imporre la chiusura delle madrase del Paese, a partire
dalla città santa di Qomm.
Quest’ambivalente politica si espresse quindi in una
modernizzazione appena abbozzata, superficiale e
soprattutto ristretta ad una fascia molto limitata della
popolazione.
A guadagnarne fu l’esercito, veicolo d’istruzione ed
alfabetizzazione, rafforzato e riorganizzato per
assumere il ruolo di sostegno della politica del
sovrano.
L’autocrazia e la modernizzazione, lo statalismo e la
repressione, quindi; ma anche la secolarizzazione. Reza
Shāh, infatti, depose il simbolismo religioso ed assunse
il titolo “laico” di “Pahlavi”, ereditato dall’antica
tradizione culturale persiana; al contempo, per le
stesse ragioni, decise di cambiare il nome del Paese in
Iran.
Fu la politica estera, a causarne la caduta; nel 1941,
in pieno conflitto, i due abituali “padrini” del Paese -
Gran Bretagna e URSS – allarmati per le ambiguità e le
simpatie mostrate da Teheran nei confronti della
Germania, intervennero per detronizzarlo, sostituendogli
il figlio Muhammad Reza.
Il nuovo sovrano dovette barcamenarsi per tutta la
guerra tra le velleità indipendentistiche
dell’Azerbaigian (dichiaratosi autonomo con l’appoggio
sovietico) e del Kurdistan (dove era stato proclamato
uno Stato indipendente, la repubblica di Mahabad), tra
le rivolte causate dalla penuria di grano e
l’ingombrante presenza di truppe sovietiche nel
territorio nazionale, tra i gruppi di guerriglia di
vario orientamento politico che proliferavano nella
clandestinità e la crescita del Tudeh, il partito
comunista.
Il problema più grave, una volta sconfitte le forze
centrifughe che minacciavano l’integrità territoriale,
era quello economico.
La ricchezza petrolifera, principale fonte di reddito
del Paese, divenne oggetto di vivaci discussioni.
Le voci, sempre più forti, che avrebbero auspicato una
nazionalizzazione dell’Anglo-Iranian Oil Company
accolsero con entusiasmo la nomina a primo ministro,
avvenuta il 30 aprile del 1951, del nazionalista
Muhammad Musaddiq (noto come ‘Mossadeq’); e non
dovettero attendere granchè, dato che il giorno
successivo alla nomina il primo ministro firmò il
decreto che sfidava gli interessi economici ed il ruolo
stesso di potenza egemone della Gran Bretagna.
Per quanto in declino, i britannici reagirono chiedendo
prima l’intervento del tribunale internazionale dell’Aia
e poi delle Nazioni Unite, ma entrambi rifiutarono
d’intervenire legittimando in forma indiretta la pratica
iraniana. Decisero allora di dare il via ad un
boicottaggio commerciale del Paese, la cui situazione
economica peggiorò rapidamente.
La politica di Mossadeq, inizialmente orientata a
limitare l’autorità dello scià trasformando l’Iran in
una monarchia costituzionale ed a promuovere una serie
di riforme sociali di stampo populista, andò sempre più
sfumando verso un personalismo autoritario e repressivo,
ostile ad ogni tentativo di riforma popolare e perfino
ad ogni velleità repubblicana delle folle.
Ciò non bastò a salvarlo dall’intervento
anglo-americano, dettato dal timore che i disordini
polari provocassero la caduta di un regime amico in un
punto strategico del Medio Oriente, ed al contempo dalla
volontà di rispondere alla sfida lanciata da Mossadeq
all’ordine internazionale. Tra luglio ed agosto del
1953, un golpe occidentale spazzò via il nazionalismo di
Mossadeq senza peraltro intervenire sul suo frutto
principale, la nazionalizzazione petrolifera; Mohammed
Reza potè riassumere la sua carica, virando rapidamente
verso un regime dittatoriale abbondantemente foraggiato
dal rubinetto petrolifero: tutto, all’apparenza,
sembrava rientrato nella normalità.
Sotto la cenere, tuttavia, covava il risentimento delle
popolazioni mediorientali verso gli occidentali:
l’allontanamento di Mossadeq era considerato solo
l’ultimo di una lunga serie di torti ed ingerenze, e non
sarebbe stato superato così in fretta.
Ciò non toglie, comunque, che negli anni seguenti
affluissero nelle casse dello Stato ricchezze notevoli,
in proporzione crescente: il 16 ottobre del 1973, in
riposta alla politica israeliana, i paesi dell’OPEC (Organization
of Petroleum Exporting Company), tra cui l’Iran,
decisero di aumentare il prezzo del barile dell’”Arabian
Light” da 2,90 a 5,11 dollari; in dicembre, il prezzo
raggiunse gli 11,65 dollari, ed in alcuni casi perfino i
17. La ricchezza era quadruplicata.
La massa di denaro che si riversò sull’Iran eccitò
l’immaginazione dello scià, che si diede ad ogni sorta
di spesa superflua, festa imperiale, sfarzo di corte e
villeggiatura chic. L’improbabile discendente di Dario e
Ciro, allora, sostenne seriamente che gli iraniani, di
lì a dieci anni, avrebbero goduto dello stesso tenore di
vita tedeschi, francesi e inglesi (settimanale Spiegel,
gennaio 1974), promulgò centinaia di decreti ed ordinò
di raddoppiare gli investimenti, importare prodotti
d’alta tecnologia, costruire mezzi militari ed
infrastrutture. Teheran cominciò allora a comprare di
tutto, dai brevetti agli elicotteri, scatenando gli
appetiti famelici degli operatori finanziari di mezzo
mondo.
Lo scià, al contempo, fu anche l’unico a non capire che
questa valanga di denaro, improvvisamente piovuta su un
Paese nel complesso sottosviluppato, e privo della rete
(infrastrutturale, burocratica, educativa) necessaria ad
accoglierla e ripartirla, avrebbe causato un mare di
problemi; inflazione, disoccupazione e povertà
cominciarono allora a pesare sensibilmente in uno Stato
che contemporaneamente viveva un’indigestione di
ricchezza capace di sottolinearne ulteriormente la
distribuzione ineguale tra le varie fasce della
popolazione.
A ciò si aggiunse la vocazione militarista e poliziesca
che lo scià, al pari del padre, mostrò di possedere
organizzando una potente polizia politica (la SAVAK) ed
assumendo il ruolo di “gendarme dell’America” nell’area,
specie durante la presidenza Nixon.
L’occidentalizzazione e la militarizzazione a marce
forzate entrarono quindi in contrasto con un substrato
tradizionale – rappresentato in prevalenza dagli ‘ulamā’
– capace di ridurre drasticamente le simpatie per il
regime, nonostante il complesso di riforme agrarie,
educative ed economiche attuate negli anni ’60 e note
come ‘rivoluzione bianca’.
Le proteste, le manifestazioni, gli scioperi, i proclami
di intellettuali, ‘ulamā’ e dissidenti s’intrecciarono
allora con i malumori del ceto mercantile dei bazari,
scatenando la foga repressiva delle forze di polizia.
Alla rivoluzione serviva un capo carismatico, e fu
trovato nella persona dell’ayatollāh Rūhollāh Khumaynī (Khomeini),
vecchio professore di teologia a Qomm protagonista di
numerose proteste contro il regime negli anni ’60,
quando aveva denunciato il servilismo nei confronti
degli USA e rifiutato il servizio militare.
Dopo una campagna contro la riforma agraria (sgradita al
clero sciita, che perdeva d’un colpo i beni religiosi di
manomorta), nel 1963, Khomeini – che dei religiosi
iraniani non era né il più famoso né il più autorevole –
fu costretto all’esilio: dapprima in Turchia e poi a
Najaf, in Iraq.
Dall’estero il vecchio teologo seppe diventare il
portavoce delle rivendicazioni popolari, e per questo la
stampa governativa prese ad attaccarlo con ferocia; dopo
14 anni d’esilio, nel gennaio del ’78, un quotidiano lo
accusò di essere una spia inglese e addirittura “un
omosessuale”.
Raramente intento fu così mal perseguito: se si voleva
screditarne l’immagine, si ottenne l’effetto contrario.
Lungi dal tollerare l’offesa, tutto il clero – anche
quella parte che più si distanziava dal rigore
dottrinale di Khomeini – scese in piazza a Qomm.
Su pressione di uno scià angosciato dagli eventi il
governo iracheno cacciò l’ayatollāh dal suo territorio,
ma neanche questo bastò: Khomeini, infatti, era ancora
più pericoloso a Parigi – dove arrivò il 12 ottobre di
quello stesso 1978 – che in Iraq.
Lo scià, a quel punto, fece marcia indietro annunciando
nuove elezioni, la revoca della legge marziale, la
cancellazione di alcune commesse, si affidò dapprima ad
un governo militare e poi ad un riformatore: corse ai
ripari quando l’intero edificio minacciava di crollare
come un castello di carte, ed era ormai troppo tardi.
Pensò anche di far intervenire l’esercito, prima che
Carter gli negasse l’appoggio politico necessario. In
dicembre però, in occasione delle celebrazioni religiose
sciite della ‘āshūrā’ (la commemorazione del martirio di
Husayn), gli scontri si fecero ancora più sanguinosi, e
diversi morti restarono sul terreno.
Tra il 5 ed il 13 gennaio del 1979, allora, milioni di
persone scesero in strada per reclamare la caduta dello
scià ed il ritorno di Khomeini; tre giorni dopo,
Muhammed Reza fuggì dall’Iran.
Il 19 del mese Khomeini atterrò da trionfatore, tra
milioni di connazionali deliranti di gioia.
A marzo, un referendum sancì la nascita della Repubblica
islamica con il 98% dei consensi.
Il vicariato dei giureconsulti (velayat-e faqih), la
dottrina secondo la quale gli ‘ulamā’ hanno il diritto
d’intervenire nella legislazione in attesa del ritorno
dell'imam nascosto della tradizione, era realtà; nasceva
allora lo stato islamico.
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