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N. 10 - Marzo 2006

RIVOLUZIONE FRANCESE

La ricostruzione dell'unità nazionale e la caduta della monarchia

di Bevar Ernesta Angela

 

L’Assemblea nazionale costituente

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“Luglio 1790: il pericolo è passato, la tensione si attenua. La soddisfazione del lavoro compiuto, la naturale inclinazione all’ordine, l’alimentazione popolare tornata alla normalità, tutto fa sperare in un clima di stabilità e di pace. Finalmente le commissioni dell’Assemblea possono lavorare in pace; finalmente, sulle rovine dell’Ancien Régime, si può cominciare a costruire lo splendido edificio del domani vagheggiato dal Terzo Stato: un edificio pieno di luce, nelle cui ampie stanze ciascuno troverà il posto destinatogli dal talento, dalla fortuna e, più di quanto non si creda generalmente, dal prestigio della tradizione. Per il paese legale e per i suoi rappresentanti la Rivoluzione è finita.”.

 

Era venuto il momento in cui i principi rivoluzionari andavano tradotti in una costituzione dettagliata. Inizialmente i due gruppi in cui era divisa l’Assemblea costituente erano gli “aristocratici” e i “patrioti”. I primi contrari alle riforme rivoluzionarie, i secondi favorevoli. Con l’avanzare della Rivoluzione questa frattura tra i due blocchi contrapposti divenne sempre più radicale e la situazione si diversificò. All’interno del secondo gruppo sorsero delle divergenze tali che si ebbe la spaccatura in monarchici (volevano fortificare l’autorità regia), costituzionali (difendevano la monarchia costituzionale rappresentavano la destra) e i radicali (rappresentavano la sinistra). Ma dietro queste divisioni e questi partiti vi erano i club che prendevano le decisioni più importanti.

 

Il più influente era il club dei giacobini fondato nel 1789. Costoro si riuniva in un convento di domenicani (detti jacobins appunto), e inizialmente il club ebbe il nome di “Società degli amici della Costituzione”. Da questo club usciranno i leaders più radicali della rivoluzione tra cui Robespierre, Arras e l’abate Grégoire. Nel 1790 questo club contava 1200 iscritti solo a Parigi. La loro ideologia politica era senza dubbio centrata su una forma diffidente di patriottismo, la loro etica era invece fondata “sull’abnegazione, la devozione, un’austerità spartana e un moralismo alla Rousseau, e su una generosità che non viene contraddetta dalla violenza, accettata e giustificata nell’interesse superiore della Rivoluzione”.

 

I moderati costituzionali, rappresentati dal triumvirato, appartenevano al club degli “Amici dell’89” e guardavano al modello inglese, cioè all’accordo tra nobiltà e borghesia. Si aggiunsero in seguito il club dei Cordiglieri e il movimento popolare dei sanculotti. Il primo più radicale nelle opinioni prendeva il nome dal soprannome francese dell’ordine francescano che ne ospitava le riunioni in un convento. Tra questi vi erano Desmoulins, Marat e Danton. Con il tempo questo club eserciterà una tutela della rappresentanza nazionale. La storia dei club segue un ritmo andante di pari passo con quello scandito dalla Rivoluzione e non va separato da tutti gli altri momenti di incontro in cui si ha il fenomeno della politicizzazione delle masse.

 

All’interno dell’Assemblea, poi, le rivalità tra il duca d’Orléans, il marchese di La Fayette e il consigliere di Mirabeau causavano non pochi problemi, ma, infine, fu il triumvirato Lameth-Duport-Barnave a tenerne la guida.

Tutti gli argomenti del giorno venivano dibattuti nella sala del Maneggio, nei giardini del Palais Royal e nei club, nei circoli che erano sorti con la Rivoluzione. Le sessioni erano piuttosto disordinate quasi anarchiche. “Immaginiamo - dice una testimone oculare - un'aula scolastica dove gli studenti, in ogni momento, sono sul punto di prendersi per i capelli; il vestire era disordinato, gli insulti frequenti”. Non era insolito che la platea sputasse sugli oratori più moderati e che il continuo rumoreggiare fosse accompagnato da fischi.

 

Ma anche fuori dall’Assemblea i Francesi vivevano, attraverso i giornali (come il “Patriote français” di Brissot; “L’Ami du peuple” di Marat; “Père Duchesne” di Hérbert), le società di quartiere, i circoli, i gabinetti di cultura, le piazze e le osterie, quel fenomeno detto della politicizzazione delle masse parigine. Tutto costituiva “una via attraverso la quale i francesi scoprirono e praticarono la politica”.

 

L’Assemblea intraprese un’opera di ricostruzione cambiando profondamente le istituzioni politiche, riformando il sistema giudiziario e quello finanziario. Fu un lavoro grandioso che abbracciò tutti i campi: politico, amministrativo, religioso e finanziario. L’opera dell’Assemblea sfociò nella Costituzione dell’anno 1791. A livello politico il nuovo ordinamento dava vita a un ibrido, un ordine monarchico-costituzionale. Era la conferma della forma monarchica con l’aggiunta di una precisa divisione dei poteri secondo il modello di Montesquieu: “Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile. […] La libertà politica, in un cittadino, consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che ciascuno ha, della propria sicurezza; e, perché questa libertà esista, bisogna che il governo sia organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino. […] Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. […] Tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri”.

 

Al re e ai suoi ministri, quindi, rimaneva il potere esecutivo, anche se sottoposto all’Assemblea legislativa che, eletta ogni due anni, deteneva appunto il potere legislativo. Il re vedeva riconosciuto a sé stesso il diritto di veto sospensivo, ma in questa eventualità l’Assemblea poteva appellarsi al popolo. Un corpo di magistrati eletto, e quindi espressione della sovranità popolare, deteneva il potere giudiziario. A questo proposito, però, Soboul sottolinea come si trattasse di un sistema elettorale che teneva conto solo della borghesia censitaria la quale sotto l’apparenza monarchica deteneva realmente il potere. Il diritto al voto, infatti, era appannaggio esclusivo dei cittadini attivi (4 milioni circa rispetto ai 3 milioni di cittadini passivi che ne erano privati). Questo smentiva il principio rivoluzionario dell’uguaglianza dei diritti dei cittadini ed era espressione della titubanza dell’Assemblea di fronte all’interrogativo se applicare o meno i principi rivoluzionari.

 

L’ordinamento amministrativo doveva corrispondere alle richieste dell’opinione pubblica la quale reclamava larghe autonomie locali che contrastassero con l’accentramento monarchico. Nel gennaio 1790 si stabilì la divisione in 83 dipartimenti al posto delle vecchie circoscrizioni fiscali e giudiziarie. Queste presero il nome dalla “innocente” natura, da fiumi montagne e particolarità geografiche. I dipartimenti erano a loro volta divisi in distretti, che erano suddivisi in comuni e cantoni. Ogni livello aveva consigli elettivi, autorità esecutive e la guardia nazionale composta da borghesi. Questo favoriva la partecipazione ai dibattiti e alle deliberazioni.

 

Ogni dipartimento diventava una piccola repubblica. La Francia era cambiata rispetto all’antico regime, là dove vigeva l’accentramento monarchico ora regnava il decentramento. Questo creò una classe politica nuova che adesso veniva investita da responsabilità di governo vere e proprie. La proclamazione dell’unità nazionale dal basso venne nella manifestazione della festa della federazione che si celebrò nel primo anniversario della presa della Bastiglia. Rimaneva il problema finanziario. Rimanevano a questo nuovo ordine in eredità i debiti della monarchia. Ma, rinunciando a riscuotere le imposte, si fu costretti a mettere le mani nell’esatto punto in cui l’assolutismo monarchico aveva fallito: il deficit e l’indebitamento. Si risolse con l’emissione dell’assegnato-moneta, che significava ricorrere all’inflazione. Questo avrebbe, alla lunga, determinato una spaccatura tra i gruppi sociali. Da un lato i rentiers, come li chiama Furet, i borghesi oziosi con i loro malumori, e dall’altro i salariati che più di tutti verranno colpiti dalla svalutazione della moneta.

 

Per alcuni settori invece il biennio 1790-91 fu di prosperità. A detta di Furet, perciò, non furono le vicende finanziarie a condizionare quelle politiche, bensì il contrario. L’abbattimento dell’antico regime, come abbiamo visto, aveva abolito le imposte. Si ricorse perciò anche alla soppressione degli ordini monastici e, di conseguenza, all’incameramento dei beni del clero (“La nazione può appropriarsi dei beni delle comunità religiose, garantendo il sostentamento degli individui che le compongono” così sosteneva il vescovo di Autun, Talleyrand). L’erario fu costretto a moltiplicare l’emissione di assegnati, che erano nati inizialmente come buoni fruttiferi, finchè l’assegnato divenne quasi una cartamoneta. L’inflazione andò a colpire maggiormente le classi lavoratrici mentre faceva la fortuna degli speculatori e delle classi abbienti urbane.

 

Quando vennero emessi gli assegnati si stabilì che i biglietti sarebbero stati una garanzia in base alla futura vendita dei beni precedentemente appartenuti alla chiesa (Così scrive Furet: “messi in vendita all’incanto delle municipalità, a piccoli lotti […] con ampie facilitazioni di pagamento i beni nazionali cementano la grande alleanza della borghesia e del ceto contadino, anche se il borghese che fa incetta di terreni trae maggior profitto del contadino da questo immenso trasferimento di proprietà”). Ma furono proprio questi biglietti, nel momento in cui subirono una rapida svalutazione, che portarono all’inflazione causando un ennesimo aggravamento delle condizioni popolari.

 

Al problema finanziario era legato quello religioso. La Rivoluzione aveva avuto sin dal principio un carattere anti-cattolico: nella notte del 4 agosto 1789 furono aboliti tutti i privilegi ecclesiastici; in seguito ci fu l'abolizione delle decime; con la Dichiarazione dei Diritti dell'uomo fu stabilita la libertà per tutti i culti; poco dopo i beni della Chiesa furono “secolarizzati”, cioè, espropriati; infine l'Assemblea proibì l'emissione dei voti religiosi e decretò che ogni religioso era libero di ritornare allo stato secolare quando voleva. Tutto ciò condusse a un conflitto che tra il 1793 e il 1794 si concretizzò nella violenta fiammata scristianizzatrice.

 

Ma il vero assalto alla Chiesa avvenne nel luglio del 1790 quando si discusse l’approvazione di una Costituzione civile del clero che riorganizzasse radicalmente la Chiesa francese “alla luce delle tradizioni gallicane e dei principi di razionalizzazione che presiedevano al riordinamento politico-amministrativo del regno”. In qualche modo i vescovi e i curati divennero funzionari dello Stato. Lo spirito egualitario della Rivoluzione non poteva tollerare della Chiesa la sua struttura gerarchica. Era necessario distruggere la gerarchia ecclesiastica, creare una nuova Chiesa, ugualitaria, che assomigliasse al giansenismo e al calvinismo, che fosse un ritorno alla semplicità primitiva della Chiesa cattolica.

 

Nel dicembre si impose un giuramento di fedeltà alla Rivoluzione, ciò condusse a un vero e proprio scisma: i preti si divisero in refrattari e costituzionalisti. La distribuzione sul territorio di questa divisione dipese moltissimo dai precedenti processi di laicizzazione come pure dall’atteggiamento della comunità locale nei confronti della Rivoluzione. I preti refrattari, per esempio, furono particolarmente numerosi nei dipartimenti occidentali. Fu così che in alcune località si ebbe la presenza di due parroci.

 

Questo costituirà una vera frattura a livello sociale, un fattore di inquietudine che porterà a nuove spinte controrivoluzionarie nelle regioni del sud e dell’ovest. La Francia precipitava in una grave crisi religiosa.

Nell’inverno 1791-92 si assisté all’aggravarsi dei contrasti sociali. La figura del sanculotto (dal francese sans culotte cioè senza calzoni cioè vestito con pantaloni lunghi e non stretti al ginocchio come quelli portati dagli aristocratici) divenne in questo quadro una figura chiave. Chi erano i sanculotti? Erano i popolani di Parigi, i padri di famiglia, appartenenti al mondo del piccolo commercio o dell’artigianato, ferocemente attaccati alla Rivoluzione e sospettosi degli aristocratici e dei ricchi. (Vovelle li definisce così: [avevano] una visione del mondo e un atteggiamento davanti alla vita comune, dell’uguaglianza della Carmagnole, del darsi del tu, è la fraternità messa in atto nella pratica sociale quotidiana, ma anche una militanza che arriva all’intolleranza e alla violenza simboleggiata dalla picca “il mio potere esecutivo”).

 

Gli storici forniscono del sanculotto immagini estremamente differenti. Alcuni, come lo storico inglese Cobb, li descrivono alteri, pieni di senso di superiorità, di atteggiamenti puritani pur essendo dediti ai piaceri del vino, tra di essi domina il conformismo, ma soprattutto sono influenzati da un sentimento di violenza accompagnato da tipici atteggiamenti di sospetto come la delazione, la caccia ai latitanti, la vigilanza sui discorsi e il programma repressivo ferocissimo il cui simbolo è la “Santa Ghigliottina”. Altri storici, come Soboul, descrivono il sanculotto come un uomo che ha una precisa visione del mondo e un atteggiamento che si riflettono in una determinata etica, nella partecipazione politica come nel vissuto quotidiano. Ma il sanculotto è soprattutto il militante che pur di servire il nuovo mondo può giungere alle estremità della propria intolleranza. In ogni caso alla domanda “che cos’è un sanculotto?” si può rispondere che in questa immagine è racchiuso un groviglio di contraddizioni.

 

La fuga a Varennes

 

Nell’estate del 1791 il re, sollecitato dalla corte, tenta la fuga per rifugiarsi con la famiglia in Lorena, al confine orientale dove molti aristocratici erano emigrati con l’intento di muovere su Parigi e ripristinare la “legalità”. La famiglia reale pensava così di gettare il paese nella confusione che avrebbe giustificato il colpo di forza della monarchia. Ma la fuga venne bloccata a Varennes. Il re venne riconosciuto e ricondotto a Parigi dove lo accolse una folla muta e ostile (“Luigi XVI è morto per la prima volta il 22 giugno 1791” così fu scritto). Il mito della regalità era così definitivamente tramontato nell’animo dei francesi.

 

Ma non solo la corona subì una diminuzione di prestigio, anche l’ordine monarchico-costituzionale dell’Assemblea ne risentì al punto che la stessa non potè che dichiararlo sospeso dalle sue funzioni. Scrive Mathiez “Per dominare la crisi che s’annunciava, ci sarebbe voluto alla testa della monarchia un re. Non si ebbe che Luigi XVI. Quest’uomo pesante, di modi borghesi, si trovava bene solo a tavola, a caccia, o nell’officina di serramenti di Gamain: il lavoro intellettuale lo opprimeva, dormiva in Consiglio. Divenne ben presto oggetto di dileggio da parte dei cortigiani frivoli e leggeri […]. La sua sposa, figlia di Maria Teresa, era graziosa, civetta e impudente: si lanciava nei piaceri con foga spensierata. La si vedeva al ballo dell’Opéra compiacersi delle familiarità più audaci, mentre il suo frigido sposo se ne restava a Versailles”.

 

Come ribadisce anche Salvemini, nel ritratto che fa di Luigi XVI, si faceva fatica a vedere in questo giovane ventenne il principe-eroe capace di gestire quelle difficoltà che aveva ereditato con la corona. La formazione del sovrano non serbava alcuna traccia di cultura politica, non aveva pratica d’affari nel campo dell’amministrazione dal quale il padre l’aveva escluso, aveva però un qualche buon senso, sempre oscurato dal suo essere pigro, pesante e volgare. Anche Maria Antonietta ne aveva pena: lo chiamava “le pauvre homme”.

 

Robespierre, Marat e altri chiesero la deposizione del re, in quanto incombeva una sollevazione popolare. La maggioranza dell’Assemblea deliberò di far passare la fuga come un rapimento.

Nonostante Luigi XVI fosse un re costituzionale, ma non per sua scelta, e non fosse un personaggio enigmatico, prima di Varennes pochi diffidavano di lui (tra questi Marat). Dopo Varennes crollarono tutte le apparenze. Tutti i tentativi di continuare a perseguire una politica conservatrice fallirono perché mancò a questa politica l’elemento centrale: un re che venisse rispettato e amato da tutti.

 

La mistificazione ebbe come conseguenza la sollevazione del movimento democratico parigino e si arrivò all’episodio del Campo di Marte dove il 17 luglio 1791 fu organizzata una manifestazione dai Cordiglieri (che nel frattempo si erano separati dall’ala più moderata dei Foglianti) per chiedere la repubblica. La manifestazione venne dispersa proprio al Campo di Marte.

 

Si intravedevano già dietro questo episodio due nuove forze in contrasto aperto con la borghesia: i sanculotti e il Quarto stato. È proprio nel passaggio dall’89 al ’91 che la folla parigina e provinciale matura progressivamente, simbolo di questi cambiamenti l’Ami du peuple in cui Marat elabora la teoria della guerra di strada, dalla folla che si arma in maniera confusa si passa alla folla organizzata che fa della picca il suo strumento per eccellenza.

 

Nel frattempo un’ala si era distaccata, l’ala moderata dei Foglianti alla cui testa stava La Fayette e il triumvirato, mentre l’Assemblea aveva portato a termine il suo lavoro per la redazione della Costituzione. Le nuove regole giudiziarie vennero dette legge organica. Gradualmente la sinistra riuscì a imporre la sua egemonia all’Assemblea perché era meglio organizzata, disponeva di elementi abili quali Brissot e Condorcet e anche perché era spalleggiata dal club dei giacobini. L’arma vincente dei brissottini fu l’intransigenza nel fare appello all’orgoglio nazionale e alla fierezza rivoluzionaria.

 

La guerra

 

La crisi economica dovuta al crescere dell’anarchia rivoluzionaria ispirò ai rivoluzionari l’idea che la guerra fosse l’unico mezzo per attirare l’attenzione della pubblica opinione, per deporre il re e per fortificare il loro potere e diffondere in Europa la Rivoluzione. Per Luigi XVI la vittoria o la sconfitta gli avrebbero permesso di recuperare il potere.

 

La questione della guerra era del tutto preventiva. Alla preoccupazione dei sovrani europei si doveva rispondere in tempo, prima che il loro progetto di restaurazione dell’assolutismo monarchico si mettesse in moto: l’idea di una guerra preventiva all’Austria si era già fatta strada tra i Francesi, soprattutto in seguito alla notizia di un accordo tra l’imperatore d’Austria e il re di Prussia (dichiarazione di Pillnitz). La guerra era caldeggiata per diversi motivi dai girondini (ragioni ideologiche, cioè guerra ai sovrani per liberare i popoli, per consolidare i nuovi ordinamenti e per mettere alla prova il re); dagli aristocratici e da Luigi XVI (che speravano nella sconfitta della Francia e nella successiva restaurazione dell’ancien régime); dai brissottini (la guerra nella loro visione diventava una crociata di libertà universale “la sola calamità da temersi è che la guerra non ci sia” diceva Brissot).

 

Solo Robespierre, con un lucido realismo, vi si oppose ritenendola un fattore che potenzialmente avrebbe indebolito la nazione, che avrebbe messo il paese a rischio di una dittatura militare e che avrebbe potuto annullare tutte le conquiste della Rivoluzione (dal discorso di Robespierre del 2 gennaio 1792 al club dei giacobini: “Durante la guerra esterna gli avvenimenti militari distraggono il popolo dalle deliberazioni politiche che interessano le basi essenziali della sua libertà e fanno sì che esso presti minore attenzione alle sorde manovre degli intriganti che le minano […] questa politica fu adoperata in tutti i tempi, l’esempio degli aristocratici di Roma è indicativo ed espressivo in questo senso”).

 

Ma il terrore dovuto alla guerra, terrore in cui la Francia avrebbe dovuto naufragare, tanto auspicata dai reali, non ebbe queste conseguenze. Forse il politico più lucido a lunga scadenza non fu Robespierre ma Barnave il quale previde che le prime sconfitte avrebbero sollevato l’irruzione e determinato la fine della monarchia. La parola chiave è patriottismo, il patriottismo della patria dichiarata in pericolo, quello che si incarna perfettamente nelle parole della canzone simbolo della rivoluzione: la Marsigliese.

 

La guerra fu dichiarata il 20 aprile 1792. Ma le previsioni di Robespierre non si avverarono proprio perché la guerra, non appena si manifestarono i primi insuccessi vista anche l’impreparazione dei francesi, divenne una missione di popolo, in quanto l’orgoglio nazionale ne usciva ferito. E così la guerra si mischiò al patriottismo rivoluzionario (scrive Furet “con questa sintesi tra messianismo e passione nazionale i Francesi hanno, per primi, integrato le masse popolari e lo Stato, formando una nazione moderna”).

 

La guerra coincise con una grave crisi economica dovuta non al raccolto ma agli assegnati. I disordini furono di diverso tipo: dalle jacqueries alle proteste per il carovita. “A Parigi, il 20 gennaio, la popolazione dei faubourgs obbliga i droghieri a ribassare il prezzo di vendita dello zucchero; il 14 febbraio le lavandaie dei Gobelins saccheggiano le botteghe.”. Si tratta di un vero e proprio movimento autonomo che agisce per rivendicazioni economiche e che afferma l’esigenza di una democrazia politica. Non è, però, un movimento proletario, tra di loro ci sono artigiani, piccoli bottegai, operai. Un gruppo tra questi era quello dei cosiddetti sanculotti. La sanculotteria conquista le società fraterne aperte ai cittadini passivi, e si esalta nelle grandi feste patriottiche.”.

 

Le prime delusioni della guerra ebbero anche come conseguenza il diffondersi del sospetto di un complotto aristocratico, di una connivenza del re col nemico. La sensazione che si diffuse a Parigi fu quella di una vertigine, di un panico diffuso. L’insicurezza generale, il sospetto, la mancanza di fiducia erano gli atteggiamenti che dominavano nelle piazze e nelle strade. Al centro di tutti i sospetti il re, quel re decaduto che sembrava aver perso le Tuileries ma non l’Europa, come scrive Michelet “aveva tutti i re per alleati, [mentre] la Francia era sola. Egli aveva tutti i preti per amici, difensori e avvocati in tutte le nazioni; ogni giorno si predicava per lui in tutta la terra, gli si donava il cuore delle popolazioni credule, si creavano a lui dei soldati, e dei nemici mortali della Rivoluzione”.

 

Il duca di Brunswick chiese la resa incondizionata minacciando la distruzione e il saccheggio di Parigi se si fosse fatto del male alla famiglia reale. Era la conferma: Luigi XVI aveva tradito! Le sezioni parigine insorsero, si impadronirono del Municipio e vi insediarono una Comune insurrezionale di stampo schiettamente popolare.

 

La Comune insurrezionale

 

“Nel 1792 il popolo si è levato con un meraviglioso sangue freddo, per rivendicare le leggi fondamentali della sua libertà violata, per mettere a posto tutti i tiranni che cospiravano contro di lui e tutti i suoi rappresentanti infedeli che ancora una volta cercavano di affossare i diritti imprescrittibili dell’umanità. Esso ha messo in opera i principi proclamati tre anni addietro dai suoi primi rappresentanti, ha esercitato la sua riconosciuta sovranità ed ha spiegato la sua potenza e la sua giustizia per assicurarsi la salute e la felicità. Nel 1792 esso ha tratto tutte le sue risorse dai suoi lumi e dalla sua forza; ha protetto la giustizia, l’eguaglianza e la ragione da solo contro tutti i suoi nemici”.

 

Non si trattava di una sommossa nata dal disordine, non era una congiura. I manifesti per le strade indicavano il giorno e il piano dell’insurrezione e il popolo, si disse, agiva da sovrano. Ovunque risuonava la campana a martello che radunava i cittadini di tutte le sezioni, le guardie nazionali, il popolo, la gendarmeria nazionale, i federati di tutti i dipartimenti.

 

Il 20 giugno una folla invase le Tuileries e obbligò il re a indossare il berretto frigio e a brindare alla salute della nazione. Il 10 agosto si arrivò a una vera e propria giornata insurrezionale in cui venne creata una nuova municipalità: la Comune insurrezionale e in cui si attaccarono nuovamente le Tuileries.

 

La difesa alle Tuileries era troppo eterogenea, su una gran parte delle truppe non si poteva fare fiducia, e chi era invece fedele non aveva armi a sufficienza. A complicare la situazione l’assenza di un comandante che organizzasse la resistenza. Luigi XVI terrorizzato si ritirò ancor prima che iniziasse la lotta. Quando il castello fu invaso anche i cuochi vennero assassinati e il palazzo venne dato alle fiamme mentre un folle suonava all’organo della chiesa il “dies irae”.

L’Assemblea legislativa optò per la deposizione del sovrano e il riconoscimento della Comune. E, in attesa dell’elezione di una Convenzione nazionale, si creò un Consiglio esecutivo provvisorio. La sollevazione popolare per la prima volta aveva esautorato la rappresentanza nazionale, rovesciato la monarchia e abrogato la Costituzione emanata appena un anno prima.

 

La caduta della monarchia rappresentava l’avvio di un nuovo periodo rivoluzionario. Ha inizio la seconda fase rivoluzionaria quella repubblicano-democratica che sembrò consacrare la vittoria della democrazia sul liberalismo borghese. Il suffragio universale introdusse sulla scena politica anche i cittadini passivi.

 

La manifestazione del 20 giugno 1792, con la quale il popolo occupa l'Assemblea e le Tuileries, l'insurrezione del 10 agosto dello stesso anno, che determina la caduta della monarchia, le feste della Indivisibilità della Repubblica del 10 agosto 1793 e dell'Ente supremo dell’8 giugno 1794 sono tutte iniziative consapevoli in cui sentimenti e motivazioni erano messi in comune. Anche se i livelli di coscienza collettiva erano molto diversi. Secondo gli storici i due terzi dei rivoltosi erano persone di mestiere, artigiani, compagnons, piccolo-borghesi. Non rientravano tra di loro i rentiers e i capitalisti. Molti rivoluzionari della Bastiglia abitavano nel sobborgo di Sant’Antonio, non si trattava perciò di “plebaglia coinvolta in mestieri infami” come diceva Taine, perché si recarono alla Bastiglia armati e anche perché risultavano iscritti alla milizia cittadina della borghesia. La rivoluzione fu guidata da borghesi e dal popolo lavoratore. Nell’insurrezione nazionale del 10 agosto 1792 prevalsero gli artigiani, i commercianti e i salariati. “Fu invece tra i sanculotti, il cosiddetto Quarto stato, quello che diede alla rivoluzione il carattere più radicale, che si trovarono i senza tetto e i disoccupati”.

 

Una corretta definizione di quello che è la folla è necessaria quanto la visione complessiva di quello che fu ogni giornata rivoluzionaria. La folla delle Tuileries viene definita come il popolaccio, la feccia, la turba, l’orda che suscita orrore e inquietudine nel cronista Blanc Gilly.

 

Nell’iconografia, invece, la descrizione della folla del 10 agosto sembra più ridimensionata all’idea del popolo per cui risulta al contempo infantile, impulsiva, violenta, coraggiosa, generosa e innocente. Queste due concezioni sono ben sintetizzate in alcune metafore come quella della folla “scimmia malvagia e lubrica” o ancora quella della folla come un essere collettivo, un uomo ubriaco.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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A. M. Rao, La Rivoluzione francese, in Storia Moderna, Donzelli, Roma 1998

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M. Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Laterza Roma Bari 1999

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Memorie della signora Roland, F. De Silva 1947, trad. di M. Zini, pp. 160-184

A. Thiers, Storia della Rivoluzione francese, Dall’Oglio, Milano 1963, trad. di S. Fusero, pp. 48-50, 154-158

J. Michelet, Storia della Rivoluzione, trad. di Giardini, Rizzoli, Milano 1981, pp. 216-236, 299-307, 311-331



 

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