N. 120 - Dicembre 2017
(CLI)
SULLA RIVOLUZIONE (ARTISTICA) RUSSA
IL CAMBIAMENTO SECONDO GLI ARTISTI
di Lorenzo Pio Massimo Martino
Ciò che accadde in quella domenica di sangue del gennaio 1905 a San Pietroburgo fece capire al mondo che il modo di pensare della Russia zarista, inalterato da troppi secoli, era destinato a mutare per sempre. Quel mondo stava ormai sgretolandosi da dentro. La rivolta del 1905 era pronta a divenire Rivoluzione.
Dodici
anni
dopo,
quelle
istanze
rivoluzionarie
ripresero
vita
e,
nonostante
il
paese
fosse
impegnato
nel
massacro
della
Grande
Guerra,
con
un
dispendio
di
energie
straordinario,
che
si
concluderà
con
circa
dieci
milioni
di
caduti,
sfociarono
in
quello
che
il
giornalista
John
Reed
definì
“i
dieci
giorni
che
sconvolsero
il
mondo”.
Non
si
poteva
più
tornare
indietro.
Già
nel
1863
un
gruppo
di
tredici
pittori,
capitanato
da
Ivan
Kramskoj,
che
si
facevano
chiamare
‘gli
Ambulanti’,
avevano
organizzato
una
serie
di
mostre
itineranti.
Furono
capaci
così
di
diffondere
la
loro
arte
oltre
i
confini
nazionali,
rendendola
fruibile
non
solo
agli
intellettuali.
Era
il
1907
quando
Pablo
Picasso
presentava
al
mondo
Les
demoiselles
d’Avignon
dicendo
addio
alla
pittura
convenzionale;
alla
pittura
di
un
mondo
che
non
esisteva
più.
Sembrava
fatta,
ma
fu
così
soltanto
in
parte.
Grandissime
e
ulteriori
sofferenze
attendevano
coloro
che,
con
cuore
puro,
miravano
alla
giustizia,
alla
bellezza.
Nello
stesso
anno
Michajl
Larionov
e
Natalja
Gončarova,
insieme
ad
altri
sognatori,
fondano
il
Neo-primitivismo
con
l’ardire
di
comunicare,
attraverso
le
loro
tele,
a
tutte
le
etnie
e
culture
presenti
in
Russia
in
quel
momento
storico.
Un’arte
trasversale.
.
Michajl
Larionov,
Barbiere
degli
Ufficiali,
1907-1909,
Albertina,
Vienna
.
Natalia
Gon-ìarova,
La
mucca
blu,
1911,
Albertina,
Vienna
Mentre
i
politici
si
sfregano
le
mani
per
organizzare
una
Grande
Guerra
al
meglio
delle
loro
capacità,
molti
di
loro
sopra
quelle
capacità,
Casimir
Malevič
presenta
Quadrato
nero.
La
Natura
non
è
vinta,
a
quello
ci
aveva
pensato
già
Raffaello
quattro
secoli
prima.
La
Natura
non
sarà
più
il
soggetto
dei
dipinti
moderni,
ma
la
vita
stessa
quale
palcoscenico
multiforme
e
multicolore
da
cui
attingere.
L’ultima
mostra
futurista
di
quadri
0.10
di
Pietrogrado
del
1915
è un
successo
e il
Suprematismo
è
ormai
una
realtà
con
i
suoi
spazi
e le
sue
tinte
così
inediti.
Prima
ancora
ci
aveva
pensato
Vasilij
Kandinsky
e in
maniera
netta.
Il
suo
Primo
acquerello
astratto
del
1910
dà
il
senso
e il
nome
a
quell’avanguardia
che
diventerà
globale,
ma
in
maniera
pacifica.
Pacifiche
sono
le
sue
teorie
ne
Lo
spirituale
nell’arte
dello
stesso
anno,
in
cui
alla
materialità
della
vita
deve
succedere
l’essenza.
.
Vasilij
Kandinskij,
Primo
acquerello
astratto,
Centro
Pompidou,
Parigi
Per
fortuna,
le
fortune
di
Kandinsky
non
tardano
ad
arrivare
e,
dopo
una
personale
del
1912,
i
suoi
colori
sono
esposti,
l’anno
dopo,
insieme
a
quelli
di
altri
trecento
autori
quali
Monet,
Cezanne,
Picabia,
Picasso
e
vengono
mostrati
alla
celeberrima
International
Exhibition
of
Modern
Art
di
New
York,
meglio
nota
come
Armory
Show,
che
si
replicherà
con
successo
a
Chicago
e
Boston.
La
nuova
pittura
sveglia
quella
sopita
e
sembra
farlo
in
maniera
del
tutto
naturale.
Sembra
tutto
proceda
bene
e
invece
no,
i
politici
hanno
detto
la
loro.
Hanno
detto
“Basta!”
perché
si
stanno
progettando
cose
‘serie’,
si
sta
progettando
la
guerra,
la
Grande
Guerra.
Vasilij
Rientra
in
Russia
dai
suoi
successi
professionali
internazionali;
ma
non
per
molto.
Il
tempo
di
organizzare
mostre
ed
eventi
culturali
e
poi
sì,
basta
davvero.
Le
sue
idee
artistiche
non
coincidono
affatto
con
quelle
politiche
e,
quindi,
via
da
lì.
Via
nella
Germania
del
1920,
fra
i
sorrisi
e le
strette
di
mani
di
Josef
Albers,
Hinnerk
Scheper,
Georg
Muche,
László
Moholy-Nagy,
Herbert
Bayer,
Joost
Schmidt,
Walter
Gropius,
Marcel
Breuer,
Paul
Klee,
Lyonel
Feininger,
Gunta
Stozl
e
Oskar
Schlemmer,
sul
tetto
della
Bauhaus
a
Weimar,
protagonisti
di
una
fotografia
in
bianco
e
nero.
.
Weimar,
foto
di
gruppo
sul
tetto
della
Bauhaus
Anche
quell’istantanea
è
celeberrima
come
ciò
che
crearono
quel
gruppo
di
geni,
uno
più
dell’altro.
Non
li
seppero
ascoltare
i
politici.
Dovettero
smammare
a
una
certa.
Che
spreco!
Lo
stesso
accadrà
per
il
Monumento
alla
III
Internazionale
di
Vladimir
Tatlin
della
fine
della
seconda
decade
di
quel
secolo
breve,
perché
non
si
troveranno
le
forze
per
recuperare
sufficiente
materiale
per
costruire
davvero
quel
capolavoro.
L’arte
non
mente.
Alla
stessa
stregua,
infatti,
non
si
trovarono
le
forze
per
il
compiersi
davvero
della
Rivoluzione
bolscevica
di
cui
quel
capolavoro
doveva
esserne
l’emblema.
Nonostante
le
istanze
dei
potenti,
gli
artisti
non
cedono.
Nel
1925
Sergej
M.
Ejzenstejn
realizza
un
grande
capolavoro
del
grande
schermo:
La
corazzata
Potemkin.
Insieme
ai
rivoluzionari
bolscevichi
scrive
una
nuova
pagina
dalla
quale
non
si
tornerà
più
indietro.
Neanche
Brian
De
Palma
potrà
far
meglio
nella
scena
dell’infante
nella
carrozzina
che
rovina
per
le
scale,
giù
verso
il
disastro,
riproponendola,
sessantacinque
anni
dopo
il
suo
collega
russo,
ne
Gli
intoccabili.
Né
Spielberg
può
celare
il
suo
riferimento
a
Ejzenstejn,
e il
suo
unico
tratto
di
colore
dipinto
a
mano
sui
fotogrammi
della
bandiera
rossa
che
sventola
senza
fine
dal
pilone
della
Potemkin,
nel
cappottino
dalla
stessa
tinta,
in
Schindler’s
List.
Gli
artisti
non
si
arrendono
e
Nikolaj
Punin
nel
1932
a
Leningrado,
mette
insieme
più
di
2.640
opere
di
oltre
quattrocento
artisti
in
una
grande
mostra
che
doveva
raccontare
i
primi
quindici
anni
d’arte
della
Rivoluzione
del
1917.
Lenin
è
morto
otto
anni
prima
e
questo
fatto
si
respira
profondamente.
Lo
respira
Petrov-Vodkin
che
non
dipinge
più
cavalli
e
cavalieri
bolscevichi
liberi
in
corsa.
E
con
lui
anche
molti,
moltissimi
autori
russi
che
non
si
riflettono
più
nel
mondo
in
cui
si
trovano
costretti
a
vivere.
Si
respira
un’aria
davvero
pesante.
L’anno
successivo,
le
alte
sfere
del
Governo
decidono
di
replicare
a
Mosca
la
mostra
di
Leningrado,
direttamente
sulla
Piazza
Rossa,
all’interno
del
nuovo
Museo
Storico
Statale,
ma
senza
l’ausilio
di
Punin.
Il
titolo
è
bello:
Quindici
anni
degli
artisti
della
Repubblica
Sovietica
Russa,
i
contenuti
meno.
Nonostante
le
opere
esposte
fossero
ben
3.500
e
gli
artisti
cinquecento,
si
pensò,
inadeguatamente,
di
escludere
più
della
metà
dei
dipinti
dell’avanguardia
russa
che
aveva
animato
le
sale
di
Leningrado.
Malevič
era
presente
solo
con
qualche
tela,
ma
fu
escluso
dal
catalogo
ufficiale,
mentre
quello
della
mostra
di
Leningrado
venne
pian
piano
rimosso
da
tutti
gli
scaffali
di
biblioteche
e
librerie
russe.
Era
iniziata,
e da
tempo,
la
revisione
politico-culturale
di
Stalin
e la
sua
idea
di
‘rieducazione’
delle
masse,
non
dissimile
da
quella
di
Hitler
per
mano,
famigerata,
di
Joseph Goebbels.
Kazimir
Melevic,
Quadrato
nero,
1915,
Galleria
Tret'jakov,
Mosca
L’arte
che
seguì
fu
espressione
di
quella
visione
miope.
Infatti
fu
un’arte
povera
dal
punto
di
vista
contenutistico
ed
emotivo.
Ci
provò
fino
all’ultimo
secondo
di
vita
Lev
Davidovič
Bronštejn,
più
noto
con
lo
pseudonimo
Lev
Trockij
a
riprendere
i
concetti
che
avevano
acceso
gli
entusiasmi
dei
rivoluzionari,
per
questo
fuggito
e
protetto
dalla
migliore
intelligencija
mondiale,
ultima
in
ordine
cronologico
quella
messicana.
Ci
provarono
a
salvargli
la
vita
e le
idee
che
portava
con
sé
Frida
Kahlo
e il
marito
Diego
Rivera
riparandolo
nella
celebre
casa
azzurra
di
Coyoacan,
ma
dovettero
cedere
alle
ire
di
Stalin
e i
suoi
mercenari
che
la
rubarono
quella
vita,
ma
nulla
poterono
fare
con
il
vuoto
che
quell’atto
criminale
lasciò
dietro
di
sé,
consegnando
Lev
Trockij
alla
Storia,
integro
e
sublime
come
i
suoi
scritti.
Per
celebrare
i
100
anni
della
Rivoluzione,
si
ricordano
tre
fra
i
tanti
grandi
eroi
della
cultura
russa:
Nikolaj
Punin
che,
a
causa
delle
sue
idee,
fu
pian
piano
emarginato
e i
suoi
articoli
ritirati
dalla
circolazione
fino
alla
carcerazione
e
l’esilio
in
Siberia
dove
perì
ignominiosamente,
per
non
tradire
la
sua
coscienza;
Sabina
Nikolaevna
Špil’rejn
che
ebbe
il
merito,
insieme
agli
sforzi
psicoanalitici
di
Freud
e il
suo
promettente
allievo
Carl
Gustav
Jung,
di
fare
capire
come
si
possano
trasformare
le
brutture
delle
menti
malate
e
delle
difficoltà
della
vita
in
pagine
di
straordinaria
bellezza.
Ironia
della
sorte
volle
Sabina
occuparsi
anche
di
un
figlio
di
Stalin, Vasilij,
nel
suo
rivoluzionario
Asilo
bianco.
Asilo
che
dovette
poi
cedere
alla
furia
nefasta
dello
stalinismo
e
poi,
a
scapito
della
sua
vita
di
ebrea
e
quella
dei
suoi
cari,
in
quella
del
nazionalsocialismo.
Le
presero
tutto,
ma
non
l’anima;
Alexej
von
Jawlensky
che
morirà,
tra
indicibili
sofferenze,
nel
marzo
del
1941,
anche
lui
vittima
di
una
feroce
critica
che
non
aveva
saputo
guardare
oltre,
per
ridossarsi
dietro
scogli
ormai
divenuti
terribilmente
pesanti
delle
vecchie
accademie,
ma
potendo
vantarsi
di
essere
stato
inserito
dai
nazisti
nella
Mostra
di
arte
degenerata
del
1937
di
Monaco,
un
po’
come
accadde,
molto
prima,
agli
impressionisti
che,
con
un
senso
di
rivalsa
e
protesta,
difesero
a
Parigi
il
loro
modo
di
dipingere
la
realtà
nel
Salon
des
Refusés.
.
Alexei
Jawlensky,
Donna
pallida
con
capelli
rossi,
1911-1912,
Milwaukee
Art
Museum