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N. 104 - Agosto 2016 (CXXXV)

I RIBELLI DELLE ALPI
LE GUERRE DEI TUCHINI TRA CANAVESE E VALLE D’AOSTA - PARTE II

di Andrea Camera

 

Il primo territorio interessato dalle scorrerie era la Valle della Dora, a nord di Ivrea: a fronte di tale minaccia, il castellano della fortezza di Bard aveva ricevuto l’ordine di rafforzare la guarnigione con sette sergenti, aggiungendovi poi eccezionalmente, alcuni uomini d’arme nobili; inoltre, aveva provveduto ad inviare armati presso i castelli di Settimo e Montestrutto.

 

E i fatti davano ragione a queste misure di sicurezza. Torme di ribelli scendevano in Valsavaranche dalla valle dell’Orco attraverso il colle del Nivolet, mettendo in allarme, oltre alla nobiltà, anche le popolazioni locali: si ha notizia di scontri armati tra gli insorti e gli abitanti della Valle, che cercavano di difendere il loro territorio e il loro bestiame: una situazione che si inseriva nel vecchio quadro di conflittualità tra pastori valdostani e canavesani per lo sfruttamento di pascoli d’altura.

 

Ma erano anche frequenti gli episodi di solidarietà da parte delle popolazioni, e stanno a dimostrarlo le numerose multe e condanne inflitte ad alcuni individui per aver intrattenuto rapporti con i ribelli, fornendo vettovaglie e facendo loro da guida; se non addirittura di averli seguiti nelle imprese.

 

Come ad esempio, gli episodi di Settimo e Montestrutto: un individuo di Settimo finiva sotto processo e impiccato come seguace rebellorum Tuchinorum, mentre uomini del secondo erano stati accusati di aver partecipato al saccheggio del castello. Era una situazione di viva effervescenza, che aveva messo allarme in tutta la regione, dal Po ai territori a nord di Ivrea: ovunque si prendevano misure di sicurezza; ovunque si preparavano presidi armati e sorveglianza.

 

Nel corso del 1387 l’insurrezione si stava estendendo in aree esterne, anche se vicine al Canavese, con i caratteri di semplice saccheggio, senza occupazione stabile. Una banda, che non si sa da dove venisse, era comparsa a depredare la zona di Verrua, a sud del Po; nel gennaio di quell’anno, i ribelli aggrediscono Settimo Vittone, facendo bottino, e così anche nel caso di numerosi altri castelli, come Brosso, Lessolo, Strambinello, Chy, Montestrutto, Casteldelmonte, presi d’ assalto e distrutti dalle bande di rivoltosi.

 

Di fronte al dilagare della rivolta, la reazione del Conte rosso non si era fatta attendere. In primavera alcune squadre di ribelli erano state debellate dalle milizie del Conte e del Principe di Acaia, che, a rinforzo, avevano addirittura assoldato una milizia bretone di 600 uomini più un centinaio di soldati borgognoni; il risultato era stato raggiunto a quanto pare con un’unica spedizione punitiva, che aveva stroncato la ribellione diverse uccisioni e catture.

 

Alla repressione avevano fatto seguito, finalmente, gli arbitrati e la pacificazione, tramite importanti accordi. Nel primo di essi, tenutosi il 4 giugno di quello stesso anno, Ibleto di Challant, Capitano generale, incaricava Nicolò di Magliano di procedere alla trattativa di pace tra gli uomini di Strambino e i loro signori.

 

Nel corso di un’altra trattativa il balivo di Aosta, Nicola Marchisio, aveva ricevuto l’incarico di scendere fino a Bard per un primo incontro coi loro ambasciatori, nell’intento di valutare se avevano intenzione di sottomettersi alla signoria diretta del conte.

 

Intento delle comunità era in effetti, quello di porsi sotto la protezione del Conte, abbandonando i signorotti locali contro cui si erano ribellati; accordi e trattative tra le parti confermano che talvolta intere comunità ribelli erano pronte ad accordarsi con le “grosse potenze” del Piemonte, quali i Savoia e gli altri principi, scavalcando impavidamente i signori locali.

 

A dimostrarlo, l’altro importante atto di pacificazione, tenutosi il 9 luglio nella cattedrale di Ivrea: in questa occasione, i rappresentanti di alcune comunità della Valchiusella, della Val di Brosso e della Valle Caprina, si erano presentati a Ibleto pregandolo di essere accolti sotto la sua protezione: o meglio, sotto quella dell’autorità più alta, il Conte di Savoia. Desiderio delle povere comunità era infatti di non sottostare più sotto al giogo ferreo dei signorotti del Canavese, in particolare ai S. Martino, liberandosi da ogni tributo verso questi.

 

A nome del Conte, Ibleto accoglieva le loro volontà: essi non sarebbero stati mai più sottoposti ai loro soprusi. In secondo luogo, i ribelli erano inoltre assolti da ogni condanna per gli eccessi compiuti, e in più, gli si erano visti riconoscere delle franchigie, nonché piena libertà di disporre dei propri beni. In sostanza, l’ intento di Amedeo era, da una parte farla finita una volta per tutte, con le agitazioni di quelle comunità disperate; dall’altra, limitare le turbolenze e il potere dei Signori locali, stabilendo una dominazione diretta sul territorio.

 

Tuttavia, queste trattative non avevano spento del tutto il malcontento. Sacche di rivolta erano presenti in altri luoghi con i loro strascichi sanguinosi. Nel quadro delle vicende si erano inseriti i Marchesi di Monferrato: Teodoro II aveva approfittato della situazione, sobillando la violenza popolare e servendosene nella sua rivalità contro il Conte di Savoia.

 

Anche se è da escludere la teoria di F. Gabotto che vedeva tutta la ribellione dei Tuchini nata per sobillazione dal Marchese o di altri nobili, resta il fatto che Teodoro aveva spinto alcune bande di insorti a riprendere la guerriglia, con gli attacchi a san Martino, Agliè, Torre spingendosi fino ad Albiano. In tal modo, egli rendeva la vita difficile ad Amedeo, trovandosi così a combattere su due fronti. Per tutta l’estate del 1387, spiega A. Barbero, la “guerra… contra marchionem Montisferrati” era divampata lungo l’intero confine tra i possessi sabaudi e quelli marchionali, giungendo in diverse occasioni a coinvolgere anche l’area canavesana.

 

Il Marchese minaccia il forte di Verrua e Balangero: dopo aver ricevuto dei messi da Verrua imploranti il soccorso, Amedeo si era deciso ad fornire soccorso, invadendo così il suo territorio, e ponendo sotto assedio Mombello, dove il marchese si era nel frattempo asserragliato. Inferiore come forze, questi chiede un tregua, togliendo l’assedio a Verrua e promettendo di non appoggiare più i Tuchini.

 

Nella composizione del conflitto entrava in gioco un altro attore: Gian Galeazzo Visconti, che si era intromesso con una prima sentenza del 17 marzo 1389. In essa sono elencate diverse località canavesane ribellatesi ai Valperga o ai San Martino e sottomesse al marchese; terre che ora dovevano essere sottoposte alla Gian Galeazzo, in attesa di ulteriori decisioni; e che in un ulteriore arbitrato del settembre 1390, il signore di Milano aveva ordinato di riassegnarle al conte di Savoia.

 

Era questo di un esito perfettamente logico: l’arbitro aveva accettato di riconoscere il passaggio al marchese di quelle località i cui signori non erano stati cacciati ed erano d’accordo nel voler essere vassalli di Teodoro II; ma si era ben guardato dall’approvare le scelte di quelle comunità che si erano messe fuori legge espellendo i signori.

 

Sulla base di questa sentenza, il conte Amedeo VII aveva attaccato nel dicembre 1390 le ultime località ribelli, espugnandole con la forza e procedendo a una repressione giudiziaria che aveva comportato almeno una decina di condanne all’impiccagione e soprattutto l’imposizione di un gran numero di pesanti ammende, tanto individuali quanto collettive.

 

Alla fine il conte convocò a Ivrea i nobili e le comunità, il 2 maggio 1391, per annunciare una pacificazione definitiva. E sarà l’atto con cui il Tuchinaggio si chiude anche ufficialmente a tutti gli effetti. Ma il ricordo resterà vivo per secoli; toponimi di località come “piano delle battaglie” e “piano delle forche” in val di Brosso hanno conservato il ricordo di quei fatti di sangue.

 

E in parte rivivono, simbolicamente, ogni anno nello storico e coloratissimo carnevale di Ivrea, nel quale si mescolano, costumi ed altri elementi folkloristici che recuperano fantasiosamente episodi diversi della storia eporediese, da medioevo al periodo napoleonico, sulla base della lotta popolare contro la tirannia e i soprusi signorili rappresentati dai tiratori sui carri, contro i quali “il popolo” dal rivoluzionario berretto rosso, formato da diverse squadre con nomi pittoreschi, dà vita alla battaglia delle arance, apice della manifestazione.

 

Una delle squadre di Aranceri, i “Tuchini del Borghetto” ha pubblicato il saggio Tucc un sans despartir. Breve storia del Tuchinaggio in Canavaese di Gabriella Gianotti che sulla base di quanto scritto fino ad oggi, riassume le complesse vicende di quei drammatici anni di violenze e riscatto popolare.



 

 

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