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N. 103 - Luglio 2016 (CXXXIV)

I ribelli delle alpi
Le guerre dei Tuchini tra Canavese e Valle d’Aosta - Parte i
di Andrea Camera

 

Nel dicembre del 1390 il conte Bonifacio di Challant preleva a Ivrea alcuni personaggi di cui ci sono prevenuti i nomi: tra questi figurano un certo Francesco “Malacarn”, Martino, detto “Bastardo di Chaillot” e Giachetto, chiamato l’Oysel (uccello), per affidarli al braccio secolare nelle prigioni del castello di Bard.

 

Altre condanne si erano susseguite in quegli ultimi decenni del Trecento nei territori tra Canavese e Valle D’Aosta, tramite impiccagioni singole o collettive, punizioni corporali o semplici multe. I capi di accusa erano sempre gli stessi: insurrezione, banditismo, violenze efferate, o complicità verso i ribelli.

 

Tra i tanti nomi figura anche qualche donna, come una certa Alaina Pelotta, o quella Montanegra, della Valsesia; entrambe avevano partecipato attivamente a furti e scorrerie contro le dimore feudali.

 

Tuttavia, si trattava, sostengono gli studiosi, di un fenomeno più complesso del semplice banditismo; gli statuti dell’epoca dimostrano, invece, un radicamento nell’organizzazione comunitaria connotazioni di autodifesa contro le violenze signorili. Inoltre, al di qua delle alpi, l’identità ribelli-comunità rurali era più marcata.

 

Più politiche le motivazioni delle sommosse, rispetto ad analoghi fenomeni che si erano verificati nelle terre dell’Alvernia, Linguadoca, Occitania. Tuchiens erano chiamati in quelle regioni; e quel nome sarebbe presto entrato nel gergo canavese caricandosi di valori etici e utopistici.

 

Descritti come una feccia umana, individui dall’aspetto spaventoso, vestiti di stracci o seminudi, si distinguevano, a quanto pare, per un copricapo rosso: curiosamente quattro secoli più tardi sarà uno dei simboli della Rivoluzione francese, il “berretto frigio”: così immagina quei disperati lo storico locale Antonino Bertolotti, nel saggio, a dir la verità piuttosto datato, Fasti canavesani.

 

Erano raccolti in conventicole o leghe giurate, nascosti di giorno nelle caverne con le proprie famiglie; giuravano di far piazza pulita dei nobili, li attendevano armati di arnesi rurali, di notte attaccavano le loro schiere, facendone carneficine. Oppure davano l’assalto ai castelli. «L’incendio coronava sempre la presa – continua lo storico – e sulle fumanti rovine gozzovigliavano; non le castellane, non i bambini erano risparmiati, volendo far sparire la razza dei nobili».

 

Episodi legati al tuchinaggio per molto tempo rimarranno nella memoria delle zone a cavallo delle Alpi e quel curioso nome continuerà a echeggiare per quelle vallate suscitando paura: basti pensare che, addirittura, un editto del 1515 emanato da Carlo II proibiva di menzionare quella parola. Un nome che derivava forse dall’espressione francese “tous q’un”, nel senso di agire tutti come un solo uomo, “tutti per uno”; oppure secondo alcuni da “tue-chien”, cioé “ammazza cani”, i cani da caccia delle classi nobiliari.

 

Un’altra ipotesi riconduce all’idea della macchia, “tuche”, porzione del bosco, a indicare uomini che si nascondevano nelle foreste. In ogni caso, la derivazione francese del nome è facilmente accostabile a un fenomeno analogo esploso nelle terre d’oltralpe anni prima, quando, raccolti in bande che potevano raggruppare anche un centinaio di persone, i Tuchiens si erano sollevati contro l’aristocrazia e l’alta borghesia, con sequestri di signori per averne il riscatto, agguati ai viaggiatori; e senza risparmiare il clero, odiato perché esente da tasse.

 

Paragonate dagli storici alla Jacquerie francese, tutte queste sommosse erano provocate, in generale, da una concatenazione di cause generata dalle epidemie che nel XIV secolo avevano decimato città e campagne d’Europa: in uno scenario di miseria, fame, sofferenza e morte, i sopravvissuti si vedevano ancora più oppressi dalle angherie della feudalità, che inaspriva imposte e balzelli alle popolazioni rurali. Questo stato di violenza e soprusi vita non avevano risparmiato le terre del Canavese.

 

Qui, in una particolare e disomogenea situazione geografica, dove la pianura lasciava il posto a boscose zone collinari e a valli profonde, qualche manciata di povere comunità si trovava a subire tutte le conseguenze delle guerre endemiche tra piccoli eserciti dei signorotti locali, che spesso si davano a saccheggi e ruberie nei confronti del contadiname, con furti di bovini, cavalli e pecore: la documentazione del periodo riporta dozzine di episodi del genere.

 

Erano territori dove una proliferazione di lignaggi, dinastie come i Valperga, i San Giorgio da un lato e dall’altro i citati San Martino, ma tutti imparentati tra loro discendevano per vie indirette dagli antichi conti di Pombia, creava situazioni giurisdizionali piuttosto confuse, spesso le proprietà degli uni “penetravano” in quelle degli altri.

 

Questo dava luogo a conflitti tra quelle schiatte feudali, con violenze di ogni genere, spedizioni punitive, talvolta anche servendosi di truppe mercenarie. A ciò si aggiunga che la zona era attorniata da presenze ingombranti come i conti di Acaia, e i marchesi di Monferrato, e i conti di Savoia.

 

Grosse dinastie ansiose di imporre le loro insegne su quelle terre turbolente nel tentativo di controllarle, dominarle, ridurre al vassallaggio quelle dinastie locali. Sollevazioni spontanee o mosse da qualcuno?

 

Gli storici recenti non seguono la tesi di autori come Gabotto, che vedevano in tutto il Tuchinaggio un moto istigato dagli stessi nobili contro i rivali, in primis dal Marchese di Monferrato. Era piuttosto, un quadro in cui alcuni attori, grosse dinastie, piccoli signori e popolazioni cercavano accordi per neutralizzare o ridurre alla sudditanza gli altri.

 

Come il fattore nuovo, e cioè una situazione in cui le comunità, strette in accordi e leghe giurate, si erano inizialmente “arrogate” il diritto di rivolgersi direttamente all’autorità forte del conte di Savoia, pregandolo di intervenire contro i soprusi dei signorotti. A loro volta questi, venuti a conoscenza di ciò, li avevano denunciati ad Amedeo, in quanto sudditi fuorilegge e sediziosi.

 

Assurto nel 1385 ad arbitro della situazione il conte di Savoia aveva tuttavia condannato le comunità a multe esorbitanti – si parla di 34.000 fiorini – per aver costituito illegalmente una lega, con tanto di accordi scritti e giurati, e a titolo, inoltre, di “favore principesco” per aver ristabilito la concordia. Pare che tale condanna fosse alla base delle ragioni che aveva scatenato la rabbia delle popolazioni, che organizzate in bande si erano date a saccheggi di castelli, devastazioni e rapimenti di donne.

 

Episodi di malcontento si erano verificati, in verità, già alcuni anni prima, ribellioni anche contro dei Vescovi, prima a Biella nel 1377, poi ad Andorno in valle Cervo, che avevano visto come protagoniste squadre di “giovani” capeggiate da figure chiamate “Abà”.

 

Stanchi delle prepotenze del vescovo Giovanni Fieschi, i biellesi si ribellarono e, con uno stratagemma, un gruppo di personaggi alla guida dell’Abà Gribolo della Torrazza era penetrato nel palazzo, lo aveva prelevato dal letto: privo dei vestiti il prelato, seduto al contrario in groppa ad un asino, era stato condotto innanzi alla “credenza”, il Consiglio cittadino.

 

Ma è a partire dagli anni ’85-86 che le sollevazioni avevano cominciato a creare seria apprensione. Subito dopo la vittoria sul tuchinaggio in Francia ad opera del duca di Berry, sua figlia Bona, madre di Amedeo VII di Savoia “il Conte Rosso”, invocava aiuto.

 

È il mese di agosto dell’anno 1386: sparito nelle terre occitane francesi e dal Vallese, il fenomeno si ripresentava nel Piemonte. Occorreva prendere provvedimenti. Il conte Amedeo, che si trovava al momento in Francia, aveva inviato Ottone di Grandsom, che con 500 fiorini poteva reclutare una milizia al fine di evitare l’estendersi della rivolta. Ottone provvedeva così a far giungere presso Rivarolo e Cirié, sui confini del Canavese, rifornimenti di armi, tra cui quindici casse di dardi da balestra e alcune bombarde.

 

Nello stesso tempo, anche il principe di Acaia stava riunendo a Torino una milizia “Pro guerra Tuchinorum in auxilium nobilium Canapicii” come è riportato nei rendiconti della sua tesoreria.

 

Il conte Amedeo, da parte sua, tra l’autunno 1386 e l’estate 1387, mentre rafforzava le guarnigioni dei suoi castelli ai confini della zona ribelle, forniva uomini d’arme e balestrieri in difesa dei nobili aggrediti. Inoltre, conduceva qualche spedizione punitiva contro gli insorti, senza tuttavia disdegnare trattative con loro: questo non soltanto per cercare di riconciliarli con i signori, ma anche per verificare se, in alternativa, non fosse possibile accordarsi con i ribelli alle spalle della feudalità del Canavese, che costituisce presenza “ingombrante” nei territorio.

 

Nel frattempo anche altri presidi venivano rafforzati con l’arrivo di uomini e rifornimenti di armi, in vista della minaccia dei rivoltosi. È il caso del castellano di Rivoli, che acquista armi, tra cui delle bombarde, e ingaggia un Magister bombardorum.



 

 

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