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N. 119 - Novembre 2017 (CL)

Il canto del cigno
La rivolta di Taranto (212-209 a.C.)

di Roberto Conte

 

Il momento più delicato – e quello decisivo per le sue sorti imperiali – che Roma dovette affrontare nel corso della sua storia fu senza dubbio la Seconda Guerra Punica, quando l’assoluto genio strategico del cartaginese Annibale portò il conflitto all’interno dell’Italia. Qui, con una serie impressionante di successi militari culminati nel trionfo di Canne (216 a.C.), mise a dura prova la tenuta della Confederazione che la città aveva costruito intorno a sé, manifestando astutamente grande generosità verso i prigionieri appartenenti ai popoli soggetti.

 

Se le comunità dell’Italia centrale (quelle più affini per cultura ed etnia ai Romani) rimasero leali a Roma, tutte le popolazioni del Mezzogiorno, con sporadiche eccezioni, finirono con il cambiare campo, a iniziare dai Campani, per passare ai mai domi Sanniti, ai Lucani, ai Bruzi e a quasi tutti gli Iapigi.

 

Le poleis greche, dal canto loro, restavano in una posizione ambigua, divise al loro interno sui passi da compiere: i ceti aristocratici consideravano preferibile il controllo romano, che garantiva loro ordine e la possibilità di godere tranquillamente dei propri privilegi, al rischio dell’instaurazione di una democrazia radicale, con tutto il suo corollario di disordini e di incertezza. I ceti popolari, al contrario, che di privilegi ne avevano ben pochi, erano del parere opposto, e speravano in un rovesciamento dello status quo.

 

Tra queste città, la più importante era senza dubbio Taranto, al tempo forse la seconda per grandezza in Italia, dopo Siracusa, e la prima sulla terraferma. Essa era stata l’ultimo grande ostacolo all’unificazione della penisola da parte dei Romani, tanto che secoli dopo, Floro poteva chiedersi retoricamente: “Quid enim post Tarentum auderent?” (Epitome, I, 19).

 

Per circa mezzo secolo le due città si erano fronteggiate per il predominio nel Sud, dapprima in una sorta di guerra fredda, poi in un aperto conflitto (282-272 a.C.), che aveva visto l’intervento del re dell’Epiro Pirro in aiuto dei Tarantini, ma che era terminato con la vittoria dei Romani.

 

Roma, solitamente mite con chi riconosceva abbastanza presto la sua supremazia, era al contrario diffidente e severa verso chi la ostacolava con maggiore tenacia: basti ricordare il caso di Cartagine. Anche Taranto non sfuggì a questa regola, e, sebbene le venisse lasciata un’ampia autonomia, sotto il controllo della potenza rivale vide scemare sempre più il suo prestigio e il suo benessere economico. La deduzione di una colonia latina nella messapica Brindisi, nel 244 a.C., costituì il colpo più grave per la città italiota, che in questo modo fu scavalcata nel ruolo di porto terminale di tutti i traffici con l’Oriente ellenico.

 

Dati questi precedenti, era chiaro che all’interno della polis fosse presente un gran numero di filo-cartaginesi, ma, come detto in precedenza, per tutta la Magna Grecia, gli aristocratici preferivano mantenersi leali ai Romani, che garantivano loro ordine e sicurezza. Costoro, d’altronde, perfettamente consci del malanimo di gran parte dei Tarantini nei loro confronti, tenevano strettamente sotto controllo la città, che era in modo permanente presidiata da un’intera legione posta di guarnigione sull’acropoli.

 

Tale presenza rendeva molto difficile, per non dire impossibile, l’opportunità di una defezione da parte dei cittadini, tuttavia il Senato volle prendere precauzioni ulteriori, e impose a loro e agli abitanti di Thourioi la consegna di 50 giovinetti, appartenenti alle famiglie locali più in vista, che furono portati a Roma in qualità di ostaggi; questa decisione suscitò naturalmente ulteriore scontento.

 

Annibale, dal canto suo, era particolarmente bramoso di mettere le mani su una città che possedeva un eccellente porto e vantava ancora un certo ascendente sugli altri greci d’occidente, e si dimostrò molto generoso nei confronti di quei Tarantini che aveva catturato dopo le battaglie del Trasimeno (217 a.C.) e di Canne, rilasciandoli senza alcuna condizione.

 

La sua benevolenza non andò sprecata, perché già nel 214 a.C., come ricorda Tito Livio (XXIV, 13), cinque di questi prigionieri liberati gli si presentarono nei pressi del lago Averno, promettendo di consegnargli la città. Annibale si portò a soli 1.000 passi da Taranto, ma le precauzioni prese dai Romani si rivelarono più che sufficienti e dall’interno delle mura non ci fu alcun segno di disordine, cosicché egli dovette alla fine ritirarsi verso Salapia (XXIV, 20).

 

In questa situazione, con ogni probabilità non ci sarebbero stati ulteriori sviluppi, ma nel 213 a.C. intervenne un nuovo episodio che fece definitivamente precipitare gli eventi. I giovani ostaggi furono avvicinati da un loro concittadino, Filea, secondo Tito Livio (XXV, 7) finto ambasciatore presso il Senato, il quale, notato che la sorveglianza cui erano sottoposti era particolarmente blanda, li convinse a evadere per tornare alle proprie case dopo aver corrotto le guardie.

 

I fuggitivi riuscirono a giungere sino a Terracina, dove speravano di trovare una nave disposta a condurli sino a Taranto, ma lì furono ripresi e riportati a Roma. In quei frangenti di gravissima crisi, quando sembrava che l’Urbe fosse a un passo dal disastro finale, gli animi dei Romani si erano particolarmente esacerbati, arrivando a punte di crudeltà inusuali: già all’indomani del disastro di Canne erano stati compiuti addirittura sacrifici umani, con una coppia di Galli e di Greci che erano stati sepolti vivi nel Foro.

 

In una simile atmosfera, l’esasperazione per i pericoli incombenti vinse ogni riserva di umanità e di prudenza, e i 50 ragazzi furono fustigati e gettati dalla Rupe Tarpea, pena solitamente comminata ai traditori della patria.

 

Una simile azione efferata fece pendere definitivamente l’ago della bilancia dalla parte dei filo-cartaginesi, e diede forza soprattutto a una fazione capitanata da Nicone e Filemeno, che Polibio (VIII, 26) ci presenta come νεοι: solitamente questo era l’appellativo usato presso i Greci per indicare giovani uomini tra i venti e i trenta anni, ma in questo caso sembra che designasse anche un preciso movimento politico.

 

Tale ipotesi sembra confermata anche da Tito Livio, che nel narrare l’episodio dei cinque che avevano promesso ad Annibale di farlo entrare a Taranto, li definisce iuvenes e afferma che in città in potestate iuniorum plebem... esse. Pare improbabile che lo storico latino volesse affermare che i popolani tarantini venissero manipolati dai giovani in generale, e probabilmente rendeva con la parola iuvenes il termine greco νεοι, riferito a un gruppo politico.

 

Del resto, questo dei νεοι non era un fenomeno limitato solo alla polis italiota, ma sembra esser stato diffuso un po’ in tutto il mondo ellenico. In un altro passo delle sue Storie (IV, 53-54), Polibio narra di come a Creta, nel 220 a.C., i νεοι di Gortina avessero tentato di rovesciare il sistema di alleanze della loro città, schierandosi con Litto contro Cnosso, e provocando una guerra civile terminata con la loro rovina. Effettivamente, nel III secolo a.C., dopo che la tradizionale istituzione della polis era entrata in crisi a seguito della conquista macedone, si erano andati diffondendo fermenti politici e sociali di difficile individuazione, ma volti a abbattere lo status quo; naturalmente le nuove generazioni erano quelle che più premevano per l’attuazione di drastici cambiamenti.

 

È di questi anni il tentativo rivoluzionario del re di Sparta Cleomene III, almeno anagraficamente anche lui un νεος al momento della sua ascesa al trono, che, unendo tradizionalismo e innovazione radicale, tentò di ricreare il vecchio sistema di vita spartano, ma con la rivoluzionaria novità dell’inclusione degli iloti.

 

Forse, come già ipotizzato da Luigi Moretti nel 1970 (Taranto dall’età ellenistica alla romanizzazione, ACMG X, pag. 56), queste fazioni politiche sono paragonabili ai movimenti studenteschi degli anni ’70 dello scorso secolo. Non è dato sapere a quali risultati avrebbero portato tutti questi gruppi di protesta, perché di lì a poco l’egemonia romana avrebbe stroncato ogni velleità di rinnovamento e avrebbe lasciato la situazione cristallizzata.

 

In ogni caso, Nicone e Filemeno presero l’ardita decisione di incontrarsi personalmente con Annibale, e a tal scopo uscirono da Taranto con il pretesto di reperire derrate alimentari nei dintorni; invece, dopo aver lasciato i loro compagni all’interno di una zona boscosa nei pressi della strada, si diressero verso il campo cartaginese e si fecero catturare dalle sentinelle, dicendo unicamente di voler parlare con il loro comandante.

 

Annibale, una volta che furono al suo cospetto, acconsentì subito ad avere un colloquio con loro, e li incoraggiò caldamente a proseguire nella loro impresa, ma per il momento non prese alcun accordo: sagace come sempre, voleva prima essere sicuro di potersi fidare. I νεοι rientrarono in città portandosi appresso una mandria di bestiame per far credere che fossero realmente usciti per foraggiare; il notevole bottino che riportarono valse inoltre ad accrescere il loro credito presso i concittadini.

 

Poco dopo i due tornarono a incontrarsi con Annibale che, ormai sicuro di potersi fidare, stabilì con loro un accordo, secondo il quale Taranto sarebbe stata lasciata libera ed esente da qualsiasi genere di tributo, mentre le case in città occupate dai Romani sarebbero state saccheggiate impunemente dalle sue truppe.

 

I νεοι misero subito in azione il loro piano: Filemeno, che aveva fama di grande cacciatore, continuò ad uscire nottetempo dalla città e rientrava sempre con molta selvaggina, una parte della quale aveva premura di consegnare alle guardie che sorvegliavano le porte cittadine e al comandante stesso del presidio romano (Gaio Livio secondo Polibio, Marco Livio Macato secondo Tito Livio). In questo modo si guadagnò la fiducia dei soldati, che si abituarono a aprire le porte senza sospetti quando egli dava un segnale con un fischio.

 

Intanto Annibale continuava a restare accampato nei pressi di Taranto, facendo spargere la falsa voce di essere malato, in modo da non insospettire i Romani per la sua troppo lunga permanenza sul luogo; in realtà lui e i congiurati attendevano il momento propizio per tentare il colpo. Questo giunse allorché si seppe che Livio avrebbe preso parte ad un grandioso banchetto tenuto al Museo, in una zona attigua all’agorà, e che avrebbe avuto inizio di primo mattino. Subito Annibale, che si trovava a tre giorni di marcia dalla città, scelse 10.000 dei suoi uomini più validi e fidati, tra fanti e cavalieri, e partì all’alba: trenta stadi più in avanti rispetto a questo corpo principale avanzavano in copertura 800 cavalieri numidi, che avevano l’incarico di devastare la campagna e di catturare o mettere in fuga quanti incontravano, in modo da dare l’impressione che fosse in atto una semplice scorreria.

 

Questa fu infatti la conclusione cui giunse Livio, una volta informato del caso, mentre già partecipava al banchetto: le sue disposizioni furono quelle di inviare metà della cavalleria a sua disposizione a ostacolare l’attività dei Numidi. Quando egli si ritirò dal convito prima del previsto, i congiurati si assicurarono che rientrasse a casa e che non avesse ulteriori notizie, quindi si portarono nella necropoli, che occupava tutta la parte orientale della città, e lì, presso la tomba di Pizionico, attesero che Annibale, come convenuto, accendesse un fuoco non appena giunto sotto le mura, presso la cosiddetta tomba di Giacinto.

 

Quando il Cartaginese ebbe fatto il suo segnale, Nicone (Tito Livio, XXV, 9) o un altro νεος di nome Tragisco (Polibio, VIII, 30) risposero con un medesimo fuoco, quindi si affrettarono alle porte Temenidi: lì Nicone sorprese nel sonno e uccise le sentinelle, aprendo i battenti e facendo entrare i soldati. Annibale lasciò 2.000 cavalieri all’esterno delle mura come riserva in caso di complicazioni, quindi con gli altri suoi uomini percorse la via detta batheia (quella che costeggiava il Mar Piccolo) sino a raggiungere l’agorà.

 

Nel frattempo Filemeno, insieme a circa 1.000 Libici, era giunto ad una porta secondaria portando con sé un grosso cinghiale e diede il consueto segnale alla guardia, che aprì senza sospetti e iniziò a ammirare la grossa preda del cacciatore: allora Filemeno la uccise e fece entrare una trentina di soldati, che trucidarono gli altri uomini di guardia. Poi tutto il gruppo si diresse anch’esso verso l’agorà. A questo punto Annibale divise 2.000 dei Galli ai suoi ordini in tre distaccamenti, ciascuno guidato da due νεοι, e li mandò a occupare le principali strade che conducevano all’agorà, uccidendo tutti i Romani che avessero incontrato, mentre i Tarantini avrebbero dovuto essere avvertiti dai loro concittadini di restare dove si trovavano.

 

Filemeno fece suonare la chiamata alle armi con alcune trombe romane, e i legionari si precipitarono disordinatamente per le strade cittadine, dirigendosi verso l’acropoli, ma vennero quasi tutti sorpresi dai Galli, appostati nei punti appropriati, e fatti a pezzi. Lo stesso Livio, ancora preda dell’alcool, riuscì miracolosamente a fuggire con i suoi servi, a passare attraverso la porta che recava al porto, e da lì a salire su una barca che lo condusse sino all’acropoli.

La gran massa della cittadinanza rimase chiusa in casa, del tutto ignara di quanto accadesse: alcuni, avendo udito il suono delle trombe, credettero che i Romani stessero compiendo qualche manovra, altri, vedendo i corpi dei legionari uccisi e i Galli intenti a depredare i cadaveri, compresero che i Cartaginesi erano in città.

 

Ogni dubbio venne sciolto all’alba del giorno dopo, quando Annibale, assicuratosi il controllo della città bassa, convocò in assemblea all’agorà tutti i Tarantini, mentre i νεοι inneggiavano alla libertà ed incoraggiavano i concittadini a non avere timore. I filo-romani si affrettarono a raggiungere l’acropoli, ancora saldamente in mano agli uomini di Livio, ma la gran massa rispose all’appello del comandante cartaginese, che tenne un discorso molto conciliante e invitò tutti i presenti a segnare le proprie case, in modo che venissero saccheggiate solo quelle di proprietà di Romani.

 

Indubbiamente, la maggior parte dei Tarantini accolse con grande favore il mutamento della situazione: Taranto non era mai stata alleata di Roma nel vero senso della parola, e l’atteggiamento dei dominatori nei suoi confronti non aveva di certo contribuito a rasserenare gli animi. Quella sparuta minoranza rimasta ostile a Cartagine agiva per interessi personali più che per reale e sincera scelta di campo.

 

L’impresa di Annibale, tuttavia, non era del tutto completa, poiché l’acropoli restava saldamente in mano al presidio romano, che non solo controllava l’entrata e l’uscita dal porto cittadino, dove restava ancorata, inutilizzabile, la flotta tarantina, ma aveva la possibilità di compiere rapide e micidiali sortite verso la città bassa.

 

Già il giorno successivo alla presa della città Annibale iniziò a erigere una palizzata che separasse l’acropoli dal resto del centro urbano. Immediatamente i Romani assalirono quelli che lavoravano a questa costruzione, incalzandoli per un bel tratto, ma era proprio quello che attendeva il comandante cartaginese, che li assalì in forze e, dopo un feroce combattimento, li costrinse a ripiegare con gravi perdite.

 

Poté così non solo completare la palizzata, ma scavare anche un fossato ed erigerne un’altra dal lato opposto. Passò quindi alla costruzione di un muro che partiva dalla strada detta “soteira” (costeggiante il Mar Grande) per giungere alla batheia, in modo da mettere completamente in sicurezza la città da possibili attacchi da parte del presidio della cittadella. Polibio (VIII, 35) ci dice che i Tarantini parteciparono con grande zelo al compimento di quest’opera, e questo dimostra ancora di più che essi avevano accolto con favore il cambiamento di alleanza.

 

A questo punto Annibale pensò che fosse giunto il momento di dare l’assalto all’acropoli, in modo da completare la conquista di Taranto, ma in questa impresa fu meno fortunato, perché Livio ricevette di rinforzo via mare metà della guarnigione di stanza a Metaponto e con un attacco notturno riuscì a mettere fuori uso tutte le opere d’assedio già preparate dai Cartaginesi.

 

Divenne evidente che per avere qualche speranza di conquistare la cittadella era necessario bloccarla anche dal mare; purtroppo per quella stagione dell’anno non ci si poteva attendere l’arrivo di una flotta punica, e quella tarantina restava bloccata nel porto, dato che, come si è detto, l’entrata di quest’ultimo restava costantemente sotto il controllo romano. Tuttavia il genio di Annibale trovò una soluzione anche per questo problema all’apparenza irrisolvibile: egli apprestò delle macchine per trarre in secco le navi tarantine, poi le caricò su grandi carri a due ruote che percorsero una strada cittadina, precedentemente rinforzata per lo scopo, che correva dal porto al mare aperto, dove infine poté schierare la flotta italiota, completando il blocco della cittadella. I Tarantini, che ormai idolatravano il Cartaginese, ebbero così la facoltà di proseguire l’assedio con le loro sole forze, anche se rimase presso di loro un presidio punico di rinforzo, al comando di Cartalone.

 

L’esempio di Taranto non mancò di avere ripercussioni nel resto della Magna Grecia, come del resto era prevedibile: Metaponto, il cui presidio romano, come già detto, era stato dimezzato apposta per soccorrere l’acropoli assediata della città bimare, si liberò della guarnigione così indebolita e passò dalla parte di Annibale, e lo stesso fece Thourioi, che al pari di Taranto era ansiosa di vendicare l’uccisione dei suoi giovani ostaggi (Tito Livio, XXV, 15).

 

Tenendo presente che Locri aveva già defezionato e che Crotone era stata occupata dai Bruzi (Tito Livio, XXIV, 1-3), l’intera costa ionica si trovò così in potere dei Cartaginesi, ma sul versante tirrenico le tre poleis elleniche superstiti, Napoli, Elea e Reggio rimasero leali all’alleanza romana, e, quel che è peggio, proprio in quel periodo il vento iniziò a mutare direzione. La riconquista di Siracusa nel 212 a.C. e quella di Capua l’anno seguente ridettero ai Romani il controllo di due delle maggiori città del sud Italia, e Taranto si trovò ad essere l’ultima grande alleata di Annibale in quello scacchiere.

 

La guarnigione di Livio sull’acropoli continuava a costituire una spina nel fianco della città. All’inizio la sua situazione, dopo il trasporto della navi tarantine in mare aperto, era parsa disperata, ed in questo quadro si collocano i misteriosi abboccamenti cui fa cenno Tito Livio (XXV, 15), parlando di alcuni dei difensori che venivano invitati dagli assedianti a passare dalla loro parte: è piuttosto improbabile che si trattasse di soldati romani, ed è invece più plausibile che lo storico si riferisse a quei membri del partito aristocratico che erano rimasti al fianco degli antichi dominatori. La situazione si ribaltò quando un convoglio di navi mercantili cariche di frumento, agli ordini del legato Caio Servilio, riuscì a eludere il blocco navale e a rifornire i legionari ormai ridotti allo stremo: allora furono i filo-romani a invitare i concittadini a tornare all’antica alleanza.

 

È a questo punto che probabilmente si innesta la storia dell’architetto Eraclide, tanto brillante quanto privo di scrupoli, vera anima nera di Taranto, narrata in altra sede da Polibio (XIII, 4). Costui, incaricato dai concittadini di procedere a dei lavori sulle mura di recente costruzione, e lasciato perciò in possesso delle chiavi delle porte, venne sospettato di aver avuto abboccamenti con i Romani per farli rientrare di soppiatto in città, e trovò rifugio sull’acropoli. Dopo poco tempo, fu scoperto mentre scambiava messaggi con Annibale, e questo può far pensare anche che il suo primo tradimento facesse parte di una messa in scena orchestrata dallo stesso cartaginese; dovette abbandonare anche la rocca e fu infine accolto alla corte del re di Macedonia Filippo V, al servizio del quale proseguì nelle sue imprese fraudolente.

 

Il successo della missione di soccorso di Servilio rese chiaro che la flotta tarantina da sola non era sufficiente per impedire completamente l’accesso alla rocca dal mare, e nella tarda estate del 211 a.C. giunse di supporto una grande armata navale cartaginese, guidata da Bomilcare e forte di 130 navi da guerra.

 

La presenza di una così grande forza militare provocò alla lunga difficoltà superiori ai vantaggi che assicurava. Infatti i Romani di guarnigione, per quanto completamente isolati, essendo pochi di numero riuscirono a sopravvivere razionando il frumento a loro disposizione, mentre gli equipaggi dell’enorme flotta di supporto ne consumavano tanto che poi esso non bastava per nutrire i cittadini. Alla fine, Bomilcare dovette ripartire, non senza sollievo degli Italioti, che si liberarono di un alleato tanto dispendioso (Tito Livio, XXVI, 20).

 

Rimasti praticamente da soli a proseguire l’assedio, i Tarantini si impegnarono a rendere il blocco più efficace e nell’estate del 210 a.C. la situazione per gli uomini di Livio era ormai diventata disperata. I Romani riuscirono a mettere in mare una flotta di 20 navi, 12 delle quali fornite dagli alleati di Paestum, Elea e Reggio, e ne affidarono il comando a Decio Quinzio, già distintosi in diverse imprese belliche, con il compito di scortare un convoglio di mercantili carichi di frumento sino all’acropoli. Partito da Reggio, Quinzio si portò sino a 15 miglia da Taranto, ma a questo punto venne intercettato da una squadra navale tarantina di pari grandezza, guidata dal navarco Democrate, all’altezza di una località chiamata Sapriporte.

 

Si è molto discusso sull’esatta ubicazione di quest’ultima, altrimenti sconosciuta, e c’è chi vi ha voluto vedere una corruzione dell’espressione Satyrium portum: tuttavia Saturo si trova sulla litoranea orientale di Taranto, mentre la rotta della flotta romana avrebbe dovuto costeggiare quella occidentale, sempre che Quinzio non avesse tentato di giocare d’astuzia e di giungere in vista della città da una direzione inattesa. Tuttavia la dinamica dell’azione successiva sembrerebbe suggerire che il combattimento avvenne nelle vicinanze del litorale lucano.

 

In ogni caso, le due flotte si affrontarono con particolare violenza e per un po’ le sorti dello scontro rimasero indecise. Poi il solito Nicone, che con la sua nave aveva speronato l’ammiraglia nemica, riuscì a colpire con la lancia Quinzio, uccidendolo. A questo punto l’equipaggio romano, scoraggiato per la perdita del comandante e assalito anche da un’altra trireme tarantina, cedette e di conseguenza l’intera flotta fu colta dal panico. Molte navi furono affondate in alto mare, altre riuscirono a raggiungere la riva, ma solo per finire preda dei Metapontini e dei Turini. Quanto ai mercantili che sopraggiungevano con il loro carico di frumento, pochi di essi furono catturati, mentre gli altri fuggirono al largo (Tito Livio, XXVI, 39).

 

Questa completa vittoria gettò nella costernazione il presidio dell’acropoli e di converso generò un’ondata di entusiasmo presso i Tarantini, che riassaporarono il gusto di un successo militare dopo decenni di subordinazione e di umiliazioni.

 

Come contraltare a questo grave rovescio, Tito Livio riporta di seguito la notizia di una fortunata sortita di 2.500 legionari, guidati da Caio Persio, contro circa 4.000 foraggiatori tarantini sparsi per i campi, che per poco non portò alla riconquista della città. Molti studiosi prestano poca fede a questa vicenda, considerandola un tentativo dello storico di riabilitare la reputazione di Livio, appartenente alla sua stessa gens; probabilmente egli ingigantì le conseguenze di una semplice scaramuccia terminata con la vittoria romana.

 

Il rovescio di Sapriporte non ebbe comunque per il presidio le conseguenze ineluttabili che ci si sarebbe potuto attendere, poiché di lì a poco i legati Marco Ogulnio e Publio Aquilio riuscirono non solo a rifornirlo di frumento via terra, ma anche a rinforzarlo con altri 1.000 soldati (Tito Livio, XXVII, 3).

 

Ormai lo scenario della guerra stava definitivamente mutando: con la Campania riassoggettata ed i Sanniti ridotti in ginocchio, nel 209 a.C. i Romani riuscirono ad ottenere la resa anche dei Lucani e il console Quinto Fabio Massimo, dopo aver preso Manduria, si accampò proprio dinnanzi al porto, sostenuto da una flotta di 30 quinqueremi. I Tarantini si trasformarono da assedianti in assediati, ma la solidità delle mura cittadine li rendeva ancora abbastanza fiduciosi, nonostante Fabio avesse installato sulle navi, sia da guerra che da carico, molte macchine poliorcetiche. Sicuramente un assalto sarebbe stato molto sanguinoso e dall’esito dubbio ed il console era noto per la sua prudenza, tanto da essere soprannominato cunctator, ovvero temporeggiatore, ma intervenne un avvenimento imprevedibile che segnò definitivamente il destino di Taranto.

 

Tra le truppe lasciate in città da Annibale c’era anche un contingente di Bruzi, il cui comandante aveva intrecciato una relazione con una donna tarantina. Il fratello di quest’ultima militava proprio nell’esercito di Fabio, e, quando venne informato dalla sorella di quella circostanza per mezzo di una lettera, si presentò dal console, proponendogli di tentare di sfruttare la situazione per spingere il bruzio al tradimento. Il romano fu pronto a cogliere l’occasione, ed il legionario tarantino finse di disertare e fu accolto in città. Lì entro in confidenza con l’amante di sua sorella e riuscì a convincerlo a farsi complice del piano per prendere Taranto a tradimento.

 

Di conseguenza, nella notte stabilita, dalle navi, dal porto e dall’acropoli le trombe iniziarono a suonare insistentemente, come se i Romani fossero in procinto di attaccare da quella parte; invece Fabio con il grosso delle truppe si appostò in silenzio dal lato orientale delle mura. Democrate, il vincitore di Sapriporte che ora guidava i soldati schierati proprio in quel settore, udendo un così grande frastuono pensò che i nemici stessero attaccando proprio dalla parte del mare, che era quella più sicura, e si precipitò con tutti i suoi uomini in quella direzione. Allora alcuni legionari si affrettarono al punto delle mura in cui sapevano che erano posizionati i Bruzi, che li aiutarono a scalarle: quindi forzarono una delle porte e fecero entrare il grosso dell’esercito. Fabio marciò velocemente verso l’agorà, dove venne affrontato dai Tarantini accorsi da ogni parte, dopo che si erano resi conto dell’errore commesso.

 

Tito Livio, fazioso come sempre, afferma che il combattimento non durò a lungo, poiché era troppo grande il divario di coraggio, vigoria ed abilità bellica tra le due parti: di certo l’assoluta sorpresa, la morte di Nicone e di Democrate, che a detta dello stesso storico padovano caddero fortiter pugnando, e la scomparsa di Filemeno, trascinato via dal proprio cavallo e mai più ritrovato, dovettero demoralizzare irrimediabilmente i difensori. Alla breve battaglia fece seguito una lunga strage: i Romani uccisero tutti i cittadini ed i Cartaginesi che capitavano loro a tiro, armati o meno, e lo stesso Cartalone, che aveva vincoli di ospitalità con Fabio, venne trucidato prima che potesse parlargli dopo aver deposto le armi.

 

Anche i traditori Bruzi furono per la maggior parte ammazzati, secondo alcuni perché il console non voleva che si sapesse che aveva ottenuto un tale trionfo grazie a una frode. Terminata la strage, i vincitori si abbandonarono al saccheggio della città, che procurò loro un’enorme quantità d’argento, 83.000 libbre d’oro e tantissime opere d’arte, quasi nella stessa quantità di quelle depredate a Siracusa; solo le statue colossali, come lo Zeus opera di Lisippo, la più grande dell’antichità dopo il Colosso di Rodi, furono lasciate al loro posto. Furono anche presi 30.000 schiavi, ma non c’è ancora accordo tra gli studiosi se si trattasse di cittadini ridotti in quella condizione o di persone già di stato servile requisite ai loro padroni.

 

Così Taranto, che con l’inganno era stata sottratta ai Romani, con l’inganno fu da essi riconquistata. La città non si riprese più dal terribile salasso in ricchezze e vite umane del 209 a.C., e per quanto i Romani invitassero nel corso delle Olimpiadi dell’anno successivo tutti i Tarantini esuli in Grecia a rientrare in patria, pare che molto pochi rispondessero all’invito. Dopo neanche cento anni dal disastro, quella che era stata uno dei più importanti tramiti della cultura ellenica in Italia ed un faro di civiltà per tutto il mondo mediterraneo poté essere enumerata dal poeta Lucilio tra le comunità indotte a cui fingeva di volersi rivolgere.

 

Taranto mantenne ancora a lungo la sua grecità: il geografo Strabone, che scrisse la sua Geografia al principio del I secolo d.C., la considera, insieme a Reggio ed a Napoli, l’unica delle poleis italiote ad aver conservato la sua natura ellenica (ma forse illustrava una situazione risalente all’inizio del secolo precedente), ed artisti tarantini continuarono a vincere competizioni panelleniche almeno sino all’85 a.C.

 

Tuttavia, esclusa definitivamente dai traffici commerciali con l’Oriente dopo la costruzione di strade alternative alla Via Appia, privata di ogni reale autonomia, in perenne crisi demografica, cui vanamente si cercò di porre rimedio con la deduzione di colonie (la Neptunia nel 123 a.C., lo stanziamento di ex pirati cilici intorno al 67 a.C. e quello di ex legionari romani in età neroniana), Taranto mantenne solo il ricordo di ciò che una volta era stata, restando per tutto il resto dell’età antica un piccolo e sonnolento centro periferico, al massimo meta di ricchi romani in cerca di luoghi ameni ed evocativi in cui villeggiare.



 

 

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