N. 119 - Novembre 2017
(CL)
Il canto del cigno
La rivolta di Taranto (212-209 a.C.)
di Roberto Conte
Il
momento
più
delicato
– e
quello
decisivo
per
le
sue
sorti
imperiali
–
che
Roma
dovette
affrontare
nel
corso
della
sua
storia
fu
senza
dubbio
la
Seconda
Guerra
Punica,
quando
l’assoluto
genio
strategico
del
cartaginese
Annibale
portò
il
conflitto
all’interno
dell’Italia.
Qui,
con
una
serie
impressionante
di
successi
militari
culminati
nel
trionfo
di
Canne
(216
a.C.),
mise
a
dura
prova
la
tenuta
della
Confederazione
che
la
città
aveva
costruito
intorno
a
sé,
manifestando
astutamente
grande
generosità
verso
i
prigionieri
appartenenti
ai
popoli
soggetti.
Se
le
comunità
dell’Italia
centrale
(quelle
più
affini
per
cultura
ed
etnia
ai
Romani)
rimasero
leali
a
Roma,
tutte
le
popolazioni
del
Mezzogiorno,
con
sporadiche
eccezioni,
finirono
con
il
cambiare
campo,
a
iniziare
dai
Campani,
per
passare
ai
mai
domi
Sanniti,
ai
Lucani,
ai
Bruzi
e a
quasi
tutti
gli
Iapigi.
Le
poleis
greche,
dal
canto
loro,
restavano
in
una
posizione
ambigua,
divise
al
loro
interno
sui
passi
da
compiere:
i
ceti
aristocratici
consideravano
preferibile
il
controllo
romano,
che
garantiva
loro
ordine
e la
possibilità
di
godere
tranquillamente
dei
propri
privilegi,
al
rischio
dell’instaurazione
di
una
democrazia
radicale,
con
tutto
il
suo
corollario
di
disordini
e di
incertezza.
I
ceti
popolari,
al
contrario,
che
di
privilegi
ne
avevano
ben
pochi,
erano
del
parere
opposto,
e
speravano
in
un
rovesciamento
dello
status
quo.
Tra
queste
città,
la
più
importante
era
senza
dubbio
Taranto,
al
tempo
forse
la
seconda
per
grandezza
in
Italia,
dopo
Siracusa,
e la
prima
sulla
terraferma.
Essa
era
stata
l’ultimo
grande
ostacolo
all’unificazione
della
penisola
da
parte
dei
Romani,
tanto
che
secoli
dopo,
Floro
poteva
chiedersi
retoricamente:
“Quid
enim
post
Tarentum
auderent?”
(Epitome,
I,
19).
Per
circa
mezzo
secolo
le
due
città
si
erano
fronteggiate
per
il
predominio
nel
Sud,
dapprima
in
una
sorta
di
guerra
fredda,
poi
in
un
aperto
conflitto
(282-272
a.C.),
che
aveva
visto
l’intervento
del
re
dell’Epiro
Pirro
in
aiuto
dei
Tarantini,
ma
che
era
terminato
con
la
vittoria
dei
Romani.
Roma,
solitamente
mite
con
chi
riconosceva
abbastanza
presto
la
sua
supremazia,
era
al
contrario
diffidente
e
severa
verso
chi
la
ostacolava
con
maggiore
tenacia:
basti
ricordare
il
caso
di
Cartagine.
Anche
Taranto
non
sfuggì
a
questa
regola,
e,
sebbene
le
venisse
lasciata
un’ampia
autonomia,
sotto
il
controllo
della
potenza
rivale
vide
scemare
sempre
più
il
suo
prestigio
e il
suo
benessere
economico.
La
deduzione
di
una
colonia
latina
nella
messapica
Brindisi,
nel
244
a.C.,
costituì
il
colpo
più
grave
per
la
città
italiota,
che
in
questo
modo
fu
scavalcata
nel
ruolo
di
porto
terminale
di
tutti
i
traffici
con
l’Oriente
ellenico.
Dati
questi
precedenti,
era
chiaro
che
all’interno
della
polis
fosse
presente
un
gran
numero
di
filo-cartaginesi,
ma,
come
detto
in
precedenza,
per
tutta
la
Magna
Grecia,
gli
aristocratici
preferivano
mantenersi
leali
ai
Romani,
che
garantivano
loro
ordine
e
sicurezza.
Costoro,
d’altronde,
perfettamente
consci
del
malanimo
di
gran
parte
dei
Tarantini
nei
loro
confronti,
tenevano
strettamente
sotto
controllo
la
città,
che
era
in
modo
permanente
presidiata
da
un’intera
legione
posta
di
guarnigione
sull’acropoli.
Tale
presenza
rendeva
molto
difficile,
per
non
dire
impossibile,
l’opportunità
di
una
defezione
da
parte
dei
cittadini,
tuttavia
il
Senato
volle
prendere
precauzioni
ulteriori,
e
impose
a
loro
e
agli
abitanti
di
Thourioi
la
consegna
di
50
giovinetti,
appartenenti
alle
famiglie
locali
più
in
vista,
che
furono
portati
a
Roma
in
qualità
di
ostaggi;
questa
decisione
suscitò
naturalmente
ulteriore
scontento.
Annibale,
dal
canto
suo,
era
particolarmente
bramoso
di
mettere
le
mani
su
una
città
che
possedeva
un
eccellente
porto
e
vantava
ancora
un
certo
ascendente
sugli
altri
greci
d’occidente,
e si
dimostrò
molto
generoso
nei
confronti
di
quei
Tarantini
che
aveva
catturato
dopo
le
battaglie
del
Trasimeno
(217
a.C.)
e di
Canne,
rilasciandoli
senza
alcuna
condizione.
La
sua
benevolenza
non
andò
sprecata,
perché
già
nel
214
a.C.,
come
ricorda
Tito
Livio
(XXIV,
13),
cinque
di
questi
prigionieri
liberati
gli
si
presentarono
nei
pressi
del
lago
Averno,
promettendo
di
consegnargli
la
città.
Annibale
si
portò
a
soli
1.000
passi
da
Taranto,
ma
le
precauzioni
prese
dai
Romani
si
rivelarono
più
che
sufficienti
e
dall’interno
delle
mura
non
ci
fu
alcun
segno
di
disordine,
cosicché
egli
dovette
alla
fine
ritirarsi
verso
Salapia
(XXIV,
20).
In
questa
situazione,
con
ogni
probabilità
non
ci
sarebbero
stati
ulteriori
sviluppi,
ma
nel
213
a.C.
intervenne
un
nuovo
episodio
che
fece
definitivamente
precipitare
gli
eventi.
I
giovani
ostaggi
furono
avvicinati
da
un
loro
concittadino,
Filea,
secondo
Tito
Livio
(XXV,
7)
finto
ambasciatore
presso
il
Senato,
il
quale,
notato
che
la
sorveglianza
cui
erano
sottoposti
era
particolarmente
blanda,
li
convinse
a
evadere
per
tornare
alle
proprie
case
dopo
aver
corrotto
le
guardie.
I
fuggitivi
riuscirono
a
giungere
sino
a
Terracina,
dove
speravano
di
trovare
una
nave
disposta
a
condurli
sino
a
Taranto,
ma
lì
furono
ripresi
e
riportati
a
Roma.
In
quei
frangenti
di
gravissima
crisi,
quando
sembrava
che
l’Urbe
fosse
a un
passo
dal
disastro
finale,
gli
animi
dei
Romani
si
erano
particolarmente
esacerbati,
arrivando
a
punte
di
crudeltà
inusuali:
già
all’indomani
del
disastro
di
Canne
erano
stati
compiuti
addirittura
sacrifici
umani,
con
una
coppia
di
Galli
e di
Greci
che
erano
stati
sepolti
vivi
nel
Foro.
In
una
simile
atmosfera,
l’esasperazione
per
i
pericoli
incombenti
vinse
ogni
riserva
di
umanità
e di
prudenza,
e i
50
ragazzi
furono
fustigati
e
gettati
dalla
Rupe
Tarpea,
pena
solitamente
comminata
ai
traditori
della
patria.
Una
simile
azione
efferata
fece
pendere
definitivamente
l’ago
della
bilancia
dalla
parte
dei
filo-cartaginesi,
e
diede
forza
soprattutto
a
una
fazione
capitanata
da
Nicone
e
Filemeno,
che
Polibio
(VIII,
26)
ci
presenta
come
νεοι:
solitamente
questo
era
l’appellativo
usato
presso
i
Greci
per
indicare
giovani
uomini
tra
i
venti
e i
trenta
anni,
ma
in
questo
caso
sembra
che
designasse
anche
un
preciso
movimento
politico.
Tale
ipotesi
sembra
confermata
anche
da
Tito
Livio,
che
nel
narrare
l’episodio
dei
cinque
che
avevano
promesso
ad
Annibale
di
farlo
entrare
a
Taranto,
li
definisce
iuvenes
e
afferma
che
in
città
in
potestate
iuniorum
plebem...
esse.
Pare
improbabile
che
lo
storico
latino
volesse
affermare
che
i
popolani
tarantini
venissero
manipolati
dai
giovani
in
generale,
e
probabilmente
rendeva
con
la
parola
iuvenes
il
termine
greco
νεοι,
riferito
a un
gruppo
politico.
Del
resto,
questo
dei
νεοι
non
era
un
fenomeno
limitato
solo
alla
polis
italiota,
ma
sembra
esser
stato
diffuso
un
po’
in
tutto
il
mondo
ellenico.
In
un
altro
passo
delle
sue
Storie
(IV,
53-54),
Polibio
narra
di
come
a
Creta,
nel
220
a.C.,
i
νεοι
di
Gortina
avessero
tentato
di
rovesciare
il
sistema
di
alleanze
della
loro
città,
schierandosi
con
Litto
contro
Cnosso,
e
provocando
una
guerra
civile
terminata
con
la
loro
rovina.
Effettivamente,
nel
III
secolo
a.C.,
dopo
che
la
tradizionale
istituzione
della
polis
era
entrata
in
crisi
a
seguito
della
conquista
macedone,
si
erano
andati
diffondendo
fermenti
politici
e
sociali
di
difficile
individuazione,
ma
volti
a
abbattere
lo
status
quo;
naturalmente
le
nuove
generazioni
erano
quelle
che
più
premevano
per
l’attuazione
di
drastici
cambiamenti.
È di
questi
anni
il
tentativo
rivoluzionario
del
re
di
Sparta
Cleomene
III,
almeno
anagraficamente
anche
lui
un
νεος
al
momento
della
sua
ascesa
al
trono,
che,
unendo
tradizionalismo
e
innovazione
radicale,
tentò
di
ricreare
il
vecchio
sistema
di
vita
spartano,
ma
con
la
rivoluzionaria
novità
dell’inclusione
degli
iloti.
Forse,
come
già
ipotizzato
da
Luigi
Moretti
nel
1970
(Taranto
dall’età
ellenistica
alla
romanizzazione,
ACMG
X,
pag.
56),
queste
fazioni
politiche
sono
paragonabili
ai
movimenti
studenteschi
degli
anni
’70
dello
scorso
secolo.
Non
è
dato
sapere
a
quali
risultati
avrebbero
portato
tutti
questi
gruppi
di
protesta,
perché
di
lì a
poco
l’egemonia
romana
avrebbe
stroncato
ogni
velleità
di
rinnovamento
e
avrebbe
lasciato
la
situazione
cristallizzata.
In
ogni
caso,
Nicone
e
Filemeno
presero
l’ardita
decisione
di
incontrarsi
personalmente
con
Annibale,
e a
tal
scopo
uscirono
da
Taranto
con
il
pretesto
di
reperire
derrate
alimentari
nei
dintorni;
invece,
dopo
aver
lasciato
i
loro
compagni
all’interno
di
una
zona
boscosa
nei
pressi
della
strada,
si
diressero
verso
il
campo
cartaginese
e si
fecero
catturare
dalle
sentinelle,
dicendo
unicamente
di
voler
parlare
con
il
loro
comandante.
Annibale,
una
volta
che
furono
al
suo
cospetto,
acconsentì
subito
ad
avere
un
colloquio
con
loro,
e li
incoraggiò
caldamente
a
proseguire
nella
loro
impresa,
ma
per
il
momento
non
prese
alcun
accordo:
sagace
come
sempre,
voleva
prima
essere
sicuro
di
potersi
fidare.
I
νεοι
rientrarono
in
città
portandosi
appresso
una
mandria
di
bestiame
per
far
credere
che
fossero
realmente
usciti
per
foraggiare;
il
notevole
bottino
che
riportarono
valse
inoltre
ad
accrescere
il
loro
credito
presso
i
concittadini.
Poco
dopo
i
due
tornarono
a
incontrarsi
con
Annibale
che,
ormai
sicuro
di
potersi
fidare,
stabilì
con
loro
un
accordo,
secondo
il
quale
Taranto
sarebbe
stata
lasciata
libera
ed
esente
da
qualsiasi
genere
di
tributo,
mentre
le
case
in
città
occupate
dai
Romani
sarebbero
state
saccheggiate
impunemente
dalle
sue
truppe.
I
νεοι
misero
subito
in
azione
il
loro
piano:
Filemeno,
che
aveva
fama
di
grande
cacciatore,
continuò
ad
uscire
nottetempo
dalla
città
e
rientrava
sempre
con
molta
selvaggina,
una
parte
della
quale
aveva
premura
di
consegnare
alle
guardie
che
sorvegliavano
le
porte
cittadine
e al
comandante
stesso
del
presidio
romano
(Gaio
Livio
secondo
Polibio,
Marco
Livio
Macato
secondo
Tito
Livio).
In
questo
modo
si
guadagnò
la
fiducia
dei
soldati,
che
si
abituarono
a
aprire
le
porte
senza
sospetti
quando
egli
dava
un
segnale
con
un
fischio.
Intanto
Annibale
continuava
a
restare
accampato
nei
pressi
di
Taranto,
facendo
spargere
la
falsa
voce
di
essere
malato,
in
modo
da
non
insospettire
i
Romani
per
la
sua
troppo
lunga
permanenza
sul
luogo;
in
realtà
lui
e i
congiurati
attendevano
il
momento
propizio
per
tentare
il
colpo.
Questo
giunse
allorché
si
seppe
che
Livio
avrebbe
preso
parte
ad
un
grandioso
banchetto
tenuto
al
Museo,
in
una
zona
attigua
all’agorà,
e
che
avrebbe
avuto
inizio
di
primo
mattino.
Subito
Annibale,
che
si
trovava
a
tre
giorni
di
marcia
dalla
città,
scelse
10.000
dei
suoi
uomini
più
validi
e
fidati,
tra
fanti
e
cavalieri,
e
partì
all’alba:
trenta
stadi
più
in
avanti
rispetto
a
questo
corpo
principale
avanzavano
in
copertura
800
cavalieri
numidi,
che
avevano
l’incarico
di
devastare
la
campagna
e di
catturare
o
mettere
in
fuga
quanti
incontravano,
in
modo
da
dare
l’impressione
che
fosse
in
atto
una
semplice
scorreria.
Questa
fu
infatti
la
conclusione
cui
giunse
Livio,
una
volta
informato
del
caso,
mentre
già
partecipava
al
banchetto:
le
sue
disposizioni
furono
quelle
di
inviare
metà
della
cavalleria
a
sua
disposizione
a
ostacolare
l’attività
dei
Numidi.
Quando
egli
si
ritirò
dal
convito
prima
del
previsto,
i
congiurati
si
assicurarono
che
rientrasse
a
casa
e
che
non
avesse
ulteriori
notizie,
quindi
si
portarono
nella
necropoli,
che
occupava
tutta
la
parte
orientale
della
città,
e
lì,
presso
la
tomba
di
Pizionico,
attesero
che
Annibale,
come
convenuto,
accendesse
un
fuoco
non
appena
giunto
sotto
le
mura,
presso
la
cosiddetta
tomba
di
Giacinto.
Quando
il
Cartaginese
ebbe
fatto
il
suo
segnale,
Nicone
(Tito
Livio,
XXV,
9) o
un
altro
νεος
di
nome
Tragisco
(Polibio,
VIII,
30)
risposero
con
un
medesimo
fuoco,
quindi
si
affrettarono
alle
porte
Temenidi:
lì
Nicone
sorprese
nel
sonno
e
uccise
le
sentinelle,
aprendo
i
battenti
e
facendo
entrare
i
soldati.
Annibale
lasciò
2.000
cavalieri
all’esterno
delle
mura
come
riserva
in
caso
di
complicazioni,
quindi
con
gli
altri
suoi
uomini
percorse
la
via
detta
batheia
(quella
che
costeggiava
il
Mar
Piccolo)
sino
a
raggiungere
l’agorà.
Nel
frattempo
Filemeno,
insieme
a
circa
1.000
Libici,
era
giunto
ad
una
porta
secondaria
portando
con
sé
un
grosso
cinghiale
e
diede
il
consueto
segnale
alla
guardia,
che
aprì
senza
sospetti
e
iniziò
a
ammirare
la
grossa
preda
del
cacciatore:
allora
Filemeno
la
uccise
e
fece
entrare
una
trentina
di
soldati,
che
trucidarono
gli
altri
uomini
di
guardia.
Poi
tutto
il
gruppo
si
diresse
anch’esso
verso
l’agorà.
A
questo
punto
Annibale
divise
2.000
dei
Galli
ai
suoi
ordini
in
tre
distaccamenti,
ciascuno
guidato
da
due
νεοι,
e li
mandò
a
occupare
le
principali
strade
che
conducevano
all’agorà,
uccidendo
tutti
i
Romani
che
avessero
incontrato,
mentre
i
Tarantini
avrebbero
dovuto
essere
avvertiti
dai
loro
concittadini
di
restare
dove
si
trovavano.
Filemeno
fece
suonare
la
chiamata
alle
armi
con
alcune
trombe
romane,
e i
legionari
si
precipitarono
disordinatamente
per
le
strade
cittadine,
dirigendosi
verso
l’acropoli,
ma
vennero
quasi
tutti
sorpresi
dai
Galli,
appostati
nei
punti
appropriati,
e
fatti
a
pezzi.
Lo
stesso
Livio,
ancora
preda
dell’alcool,
riuscì
miracolosamente
a
fuggire
con
i
suoi
servi,
a
passare
attraverso
la
porta
che
recava
al
porto,
e da
lì a
salire
su
una
barca
che
lo
condusse
sino
all’acropoli.
La
gran
massa
della
cittadinanza
rimase
chiusa
in
casa,
del
tutto
ignara
di
quanto
accadesse:
alcuni,
avendo
udito
il
suono
delle
trombe,
credettero
che
i
Romani
stessero
compiendo
qualche
manovra,
altri,
vedendo
i
corpi
dei
legionari
uccisi
e i
Galli
intenti
a
depredare
i
cadaveri,
compresero
che
i
Cartaginesi
erano
in
città.
Ogni
dubbio
venne
sciolto
all’alba
del
giorno
dopo,
quando
Annibale,
assicuratosi
il
controllo
della
città
bassa,
convocò
in
assemblea
all’agorà
tutti
i
Tarantini,
mentre
i
νεοι
inneggiavano
alla
libertà
ed
incoraggiavano
i
concittadini
a
non
avere
timore.
I
filo-romani
si
affrettarono
a
raggiungere
l’acropoli,
ancora
saldamente
in
mano
agli
uomini
di
Livio,
ma
la
gran
massa
rispose
all’appello
del
comandante
cartaginese,
che
tenne
un
discorso
molto
conciliante
e
invitò
tutti
i
presenti
a
segnare
le
proprie
case,
in
modo
che
venissero
saccheggiate
solo
quelle
di
proprietà
di
Romani.
Indubbiamente,
la
maggior
parte
dei
Tarantini
accolse
con
grande
favore
il
mutamento
della
situazione:
Taranto
non
era
mai
stata
alleata
di
Roma
nel
vero
senso
della
parola,
e
l’atteggiamento
dei
dominatori
nei
suoi
confronti
non
aveva
di
certo
contribuito
a
rasserenare
gli
animi.
Quella
sparuta
minoranza
rimasta
ostile
a
Cartagine
agiva
per
interessi
personali
più
che
per
reale
e
sincera
scelta
di
campo.
L’impresa
di
Annibale,
tuttavia,
non
era
del
tutto
completa,
poiché
l’acropoli
restava
saldamente
in
mano
al
presidio
romano,
che
non
solo
controllava
l’entrata
e
l’uscita
dal
porto
cittadino,
dove
restava
ancorata,
inutilizzabile,
la
flotta
tarantina,
ma
aveva
la
possibilità
di
compiere
rapide
e
micidiali
sortite
verso
la
città
bassa.
Già
il
giorno
successivo
alla
presa
della
città
Annibale
iniziò
a
erigere
una
palizzata
che
separasse
l’acropoli
dal
resto
del
centro
urbano.
Immediatamente
i
Romani
assalirono
quelli
che
lavoravano
a
questa
costruzione,
incalzandoli
per
un
bel
tratto,
ma
era
proprio
quello
che
attendeva
il
comandante
cartaginese,
che
li
assalì
in
forze
e,
dopo
un
feroce
combattimento,
li
costrinse
a
ripiegare
con
gravi
perdite.
Poté
così
non
solo
completare
la
palizzata,
ma
scavare
anche
un
fossato
ed
erigerne
un’altra
dal
lato
opposto.
Passò
quindi
alla
costruzione
di
un
muro
che
partiva
dalla
strada
detta
“soteira”
(costeggiante
il
Mar
Grande)
per
giungere
alla
batheia,
in
modo
da
mettere
completamente
in
sicurezza
la
città
da
possibili
attacchi
da
parte
del
presidio
della
cittadella.
Polibio
(VIII,
35)
ci
dice
che
i
Tarantini
parteciparono
con
grande
zelo
al
compimento
di
quest’opera,
e
questo
dimostra
ancora
di
più
che
essi
avevano
accolto
con
favore
il
cambiamento
di
alleanza.
A
questo
punto
Annibale
pensò
che
fosse
giunto
il
momento
di
dare
l’assalto
all’acropoli,
in
modo
da
completare
la
conquista
di
Taranto,
ma
in
questa
impresa
fu
meno
fortunato,
perché
Livio
ricevette
di
rinforzo
via
mare
metà
della
guarnigione
di
stanza
a
Metaponto
e
con
un
attacco
notturno
riuscì
a
mettere
fuori
uso
tutte
le
opere
d’assedio
già
preparate
dai
Cartaginesi.
Divenne
evidente
che
per
avere
qualche
speranza
di
conquistare
la
cittadella
era
necessario
bloccarla
anche
dal
mare;
purtroppo
per
quella
stagione
dell’anno
non
ci
si
poteva
attendere
l’arrivo
di
una
flotta
punica,
e
quella
tarantina
restava
bloccata
nel
porto,
dato
che,
come
si è
detto,
l’entrata
di
quest’ultimo
restava
costantemente
sotto
il
controllo
romano.
Tuttavia
il
genio
di
Annibale
trovò
una
soluzione
anche
per
questo
problema
all’apparenza
irrisolvibile:
egli
apprestò
delle
macchine
per
trarre
in
secco
le
navi
tarantine,
poi
le
caricò
su
grandi
carri
a
due
ruote
che
percorsero
una
strada
cittadina,
precedentemente
rinforzata
per
lo
scopo,
che
correva
dal
porto
al
mare
aperto,
dove
infine
poté
schierare
la
flotta
italiota,
completando
il
blocco
della
cittadella.
I
Tarantini,
che
ormai
idolatravano
il
Cartaginese,
ebbero
così
la
facoltà
di
proseguire
l’assedio
con
le
loro
sole
forze,
anche
se
rimase
presso
di
loro
un
presidio
punico
di
rinforzo,
al
comando
di
Cartalone.
L’esempio
di
Taranto
non
mancò
di
avere
ripercussioni
nel
resto
della
Magna
Grecia,
come
del
resto
era
prevedibile:
Metaponto,
il
cui
presidio
romano,
come
già
detto,
era
stato
dimezzato
apposta
per
soccorrere
l’acropoli
assediata
della
città
bimare,
si
liberò
della
guarnigione
così
indebolita
e
passò
dalla
parte
di
Annibale,
e lo
stesso
fece
Thourioi,
che
al
pari
di
Taranto
era
ansiosa
di
vendicare
l’uccisione
dei
suoi
giovani
ostaggi
(Tito
Livio,
XXV,
15).
Tenendo
presente
che
Locri
aveva
già
defezionato
e
che
Crotone
era
stata
occupata
dai
Bruzi
(Tito
Livio,
XXIV,
1-3),
l’intera
costa
ionica
si
trovò
così
in
potere
dei
Cartaginesi,
ma
sul
versante
tirrenico
le
tre
poleis
elleniche
superstiti,
Napoli,
Elea
e
Reggio
rimasero
leali
all’alleanza
romana,
e,
quel
che
è
peggio,
proprio
in
quel
periodo
il
vento
iniziò
a
mutare
direzione.
La
riconquista
di
Siracusa
nel
212
a.C.
e
quella
di
Capua
l’anno
seguente
ridettero
ai
Romani
il
controllo
di
due
delle
maggiori
città
del
sud
Italia,
e
Taranto
si
trovò
ad
essere
l’ultima
grande
alleata
di
Annibale
in
quello
scacchiere.
La
guarnigione
di
Livio
sull’acropoli
continuava
a
costituire
una
spina
nel
fianco
della
città.
All’inizio
la
sua
situazione,
dopo
il
trasporto
della
navi
tarantine
in
mare
aperto,
era
parsa
disperata,
ed
in
questo
quadro
si
collocano
i
misteriosi
abboccamenti
cui
fa
cenno
Tito
Livio
(XXV,
15),
parlando
di
alcuni
dei
difensori
che
venivano
invitati
dagli
assedianti
a
passare
dalla
loro
parte:
è
piuttosto
improbabile
che
si
trattasse
di
soldati
romani,
ed è
invece
più
plausibile
che
lo
storico
si
riferisse
a
quei
membri
del
partito
aristocratico
che
erano
rimasti
al
fianco
degli
antichi
dominatori.
La
situazione
si
ribaltò
quando
un
convoglio
di
navi
mercantili
cariche
di
frumento,
agli
ordini
del
legato
Caio
Servilio,
riuscì
a
eludere
il
blocco
navale
e a
rifornire
i
legionari
ormai
ridotti
allo
stremo:
allora
furono
i
filo-romani
a
invitare
i
concittadini
a
tornare
all’antica
alleanza.
È a
questo
punto
che
probabilmente
si
innesta
la
storia
dell’architetto
Eraclide,
tanto
brillante
quanto
privo
di
scrupoli,
vera
anima
nera
di
Taranto,
narrata
in
altra
sede
da
Polibio
(XIII,
4).
Costui,
incaricato
dai
concittadini
di
procedere
a
dei
lavori
sulle
mura
di
recente
costruzione,
e
lasciato
perciò
in
possesso
delle
chiavi
delle
porte,
venne
sospettato
di
aver
avuto
abboccamenti
con
i
Romani
per
farli
rientrare
di
soppiatto
in
città,
e
trovò
rifugio
sull’acropoli.
Dopo
poco
tempo,
fu
scoperto
mentre
scambiava
messaggi
con
Annibale,
e
questo
può
far
pensare
anche
che
il
suo
primo
tradimento
facesse
parte
di
una
messa
in
scena
orchestrata
dallo
stesso
cartaginese;
dovette
abbandonare
anche
la
rocca
e fu
infine
accolto
alla
corte
del
re
di
Macedonia
Filippo
V,
al
servizio
del
quale
proseguì
nelle
sue
imprese
fraudolente.
Il
successo
della
missione
di
soccorso
di
Servilio
rese
chiaro
che
la
flotta
tarantina
da
sola
non
era
sufficiente
per
impedire
completamente
l’accesso
alla
rocca
dal
mare,
e
nella
tarda
estate
del
211
a.C.
giunse
di
supporto
una
grande
armata
navale
cartaginese,
guidata
da
Bomilcare
e
forte
di
130
navi
da
guerra.
La
presenza
di
una
così
grande
forza
militare
provocò
alla
lunga
difficoltà
superiori
ai
vantaggi
che
assicurava.
Infatti
i
Romani
di
guarnigione,
per
quanto
completamente
isolati,
essendo
pochi
di
numero
riuscirono
a
sopravvivere
razionando
il
frumento
a
loro
disposizione,
mentre
gli
equipaggi
dell’enorme
flotta
di
supporto
ne
consumavano
tanto
che
poi
esso
non
bastava
per
nutrire
i
cittadini.
Alla
fine,
Bomilcare
dovette
ripartire,
non
senza
sollievo
degli
Italioti,
che
si
liberarono
di
un
alleato
tanto
dispendioso
(Tito
Livio,
XXVI,
20).
Rimasti
praticamente
da
soli
a
proseguire
l’assedio,
i
Tarantini
si
impegnarono
a
rendere
il
blocco
più
efficace
e
nell’estate
del
210
a.C.
la
situazione
per
gli
uomini
di
Livio
era
ormai
diventata
disperata.
I
Romani
riuscirono
a
mettere
in
mare
una
flotta
di
20
navi,
12
delle
quali
fornite
dagli
alleati
di
Paestum,
Elea
e
Reggio,
e ne
affidarono
il
comando
a
Decio
Quinzio,
già
distintosi
in
diverse
imprese
belliche,
con
il
compito
di
scortare
un
convoglio
di
mercantili
carichi
di
frumento
sino
all’acropoli.
Partito
da
Reggio,
Quinzio
si
portò
sino
a 15
miglia
da
Taranto,
ma a
questo
punto
venne
intercettato
da
una
squadra
navale
tarantina
di
pari
grandezza,
guidata
dal
navarco
Democrate,
all’altezza
di
una
località
chiamata
Sapriporte.
Si è
molto
discusso
sull’esatta
ubicazione
di
quest’ultima,
altrimenti
sconosciuta,
e
c’è
chi
vi
ha
voluto
vedere
una
corruzione
dell’espressione
Satyrium
portum:
tuttavia
Saturo
si
trova
sulla
litoranea
orientale
di
Taranto,
mentre
la
rotta
della
flotta
romana
avrebbe
dovuto
costeggiare
quella
occidentale,
sempre
che
Quinzio
non
avesse
tentato
di
giocare
d’astuzia
e di
giungere
in
vista
della
città
da
una
direzione
inattesa.
Tuttavia
la
dinamica
dell’azione
successiva
sembrerebbe
suggerire
che
il
combattimento
avvenne
nelle
vicinanze
del
litorale
lucano.
In
ogni
caso,
le
due
flotte
si
affrontarono
con
particolare
violenza
e
per
un
po’
le
sorti
dello
scontro
rimasero
indecise.
Poi
il
solito
Nicone,
che
con
la
sua
nave
aveva
speronato
l’ammiraglia
nemica,
riuscì
a
colpire
con
la
lancia
Quinzio,
uccidendolo.
A
questo
punto
l’equipaggio
romano,
scoraggiato
per
la
perdita
del
comandante
e
assalito
anche
da
un’altra
trireme
tarantina,
cedette
e di
conseguenza
l’intera
flotta
fu
colta
dal
panico.
Molte
navi
furono
affondate
in
alto
mare,
altre
riuscirono
a
raggiungere
la
riva,
ma
solo
per
finire
preda
dei
Metapontini
e
dei
Turini.
Quanto
ai
mercantili
che
sopraggiungevano
con
il
loro
carico
di
frumento,
pochi
di
essi
furono
catturati,
mentre
gli
altri
fuggirono
al
largo
(Tito
Livio,
XXVI,
39).
Questa
completa
vittoria
gettò
nella
costernazione
il
presidio
dell’acropoli
e di
converso
generò
un’ondata
di
entusiasmo
presso
i
Tarantini,
che
riassaporarono
il
gusto
di
un
successo
militare
dopo
decenni
di
subordinazione
e di
umiliazioni.
Come
contraltare
a
questo
grave
rovescio,
Tito
Livio
riporta
di
seguito
la
notizia
di
una
fortunata
sortita
di
2.500
legionari,
guidati
da
Caio
Persio,
contro
circa
4.000
foraggiatori
tarantini
sparsi
per
i
campi,
che
per
poco
non
portò
alla
riconquista
della
città.
Molti
studiosi
prestano
poca
fede
a
questa
vicenda,
considerandola
un
tentativo
dello
storico
di
riabilitare
la
reputazione
di
Livio,
appartenente
alla
sua
stessa
gens;
probabilmente
egli
ingigantì
le
conseguenze
di
una
semplice
scaramuccia
terminata
con
la
vittoria
romana.
Il
rovescio
di
Sapriporte
non
ebbe
comunque
per
il
presidio
le
conseguenze
ineluttabili
che
ci
si
sarebbe
potuto
attendere,
poiché
di
lì a
poco
i
legati
Marco
Ogulnio
e
Publio
Aquilio
riuscirono
non
solo
a
rifornirlo
di
frumento
via
terra,
ma
anche
a
rinforzarlo
con
altri
1.000
soldati
(Tito
Livio,
XXVII,
3).
Ormai
lo
scenario
della
guerra
stava
definitivamente
mutando:
con
la
Campania
riassoggettata
ed i
Sanniti
ridotti
in
ginocchio,
nel
209
a.C.
i
Romani
riuscirono
ad
ottenere
la
resa
anche
dei
Lucani
e il
console
Quinto
Fabio
Massimo,
dopo
aver
preso
Manduria,
si
accampò
proprio
dinnanzi
al
porto,
sostenuto
da
una
flotta
di
30
quinqueremi.
I
Tarantini
si
trasformarono
da
assedianti
in
assediati,
ma
la
solidità
delle
mura
cittadine
li
rendeva
ancora
abbastanza
fiduciosi,
nonostante
Fabio
avesse
installato
sulle
navi,
sia
da
guerra
che
da
carico,
molte
macchine
poliorcetiche.
Sicuramente
un
assalto
sarebbe
stato
molto
sanguinoso
e
dall’esito
dubbio
ed
il
console
era
noto
per
la
sua
prudenza,
tanto
da
essere
soprannominato
cunctator,
ovvero
temporeggiatore,
ma
intervenne
un
avvenimento
imprevedibile
che
segnò
definitivamente
il
destino
di
Taranto.
Tra
le
truppe
lasciate
in
città
da
Annibale
c’era
anche
un
contingente
di
Bruzi,
il
cui
comandante
aveva
intrecciato
una
relazione
con
una
donna
tarantina.
Il
fratello
di
quest’ultima
militava
proprio
nell’esercito
di
Fabio,
e,
quando
venne
informato
dalla
sorella
di
quella
circostanza
per
mezzo
di
una
lettera,
si
presentò
dal
console,
proponendogli
di
tentare
di
sfruttare
la
situazione
per
spingere
il
bruzio
al
tradimento.
Il
romano
fu
pronto
a
cogliere
l’occasione,
ed
il
legionario
tarantino
finse
di
disertare
e fu
accolto
in
città.
Lì
entro
in
confidenza
con
l’amante
di
sua
sorella
e
riuscì
a
convincerlo
a
farsi
complice
del
piano
per
prendere
Taranto
a
tradimento.
Di
conseguenza,
nella
notte
stabilita,
dalle
navi,
dal
porto
e
dall’acropoli
le
trombe
iniziarono
a
suonare
insistentemente,
come
se i
Romani
fossero
in
procinto
di
attaccare
da
quella
parte;
invece
Fabio
con
il
grosso
delle
truppe
si
appostò
in
silenzio
dal
lato
orientale
delle
mura.
Democrate,
il
vincitore
di
Sapriporte
che
ora
guidava
i
soldati
schierati
proprio
in
quel
settore,
udendo
un
così
grande
frastuono
pensò
che
i
nemici
stessero
attaccando
proprio
dalla
parte
del
mare,
che
era
quella
più
sicura,
e si
precipitò
con
tutti
i
suoi
uomini
in
quella
direzione.
Allora
alcuni
legionari
si
affrettarono
al
punto
delle
mura
in
cui
sapevano
che
erano
posizionati
i
Bruzi,
che
li
aiutarono
a
scalarle:
quindi
forzarono
una
delle
porte
e
fecero
entrare
il
grosso
dell’esercito.
Fabio
marciò
velocemente
verso
l’agorà,
dove
venne
affrontato
dai
Tarantini
accorsi
da
ogni
parte,
dopo
che
si
erano
resi
conto
dell’errore
commesso.
Tito
Livio,
fazioso
come
sempre,
afferma
che
il
combattimento
non
durò
a
lungo,
poiché
era
troppo
grande
il
divario
di
coraggio,
vigoria
ed
abilità
bellica
tra
le
due
parti:
di
certo
l’assoluta
sorpresa,
la
morte
di
Nicone
e di
Democrate,
che
a
detta
dello
stesso
storico
padovano
caddero
fortiter
pugnando,
e la
scomparsa
di
Filemeno,
trascinato
via
dal
proprio
cavallo
e
mai
più
ritrovato,
dovettero
demoralizzare
irrimediabilmente
i
difensori.
Alla
breve
battaglia
fece
seguito
una
lunga
strage:
i
Romani
uccisero
tutti
i
cittadini
ed i
Cartaginesi
che
capitavano
loro
a
tiro,
armati
o
meno,
e lo
stesso
Cartalone,
che
aveva
vincoli
di
ospitalità
con
Fabio,
venne
trucidato
prima
che
potesse
parlargli
dopo
aver
deposto
le
armi.
Anche
i
traditori
Bruzi
furono
per
la
maggior
parte
ammazzati,
secondo
alcuni
perché
il
console
non
voleva
che
si
sapesse
che
aveva
ottenuto
un
tale
trionfo
grazie
a
una
frode.
Terminata
la
strage,
i
vincitori
si
abbandonarono
al
saccheggio
della
città,
che
procurò
loro
un’enorme
quantità
d’argento,
83.000
libbre
d’oro
e
tantissime
opere
d’arte,
quasi
nella
stessa
quantità
di
quelle
depredate
a
Siracusa;
solo
le
statue
colossali,
come
lo
Zeus
opera
di
Lisippo,
la
più
grande
dell’antichità
dopo
il
Colosso
di
Rodi,
furono
lasciate
al
loro
posto.
Furono
anche
presi
30.000
schiavi,
ma
non
c’è
ancora
accordo
tra
gli
studiosi
se
si
trattasse
di
cittadini
ridotti
in
quella
condizione
o di
persone
già
di
stato
servile
requisite
ai
loro
padroni.
Così
Taranto,
che
con
l’inganno
era
stata
sottratta
ai
Romani,
con
l’inganno
fu
da
essi
riconquistata.
La
città
non
si
riprese
più
dal
terribile
salasso
in
ricchezze
e
vite
umane
del
209
a.C.,
e
per
quanto
i
Romani
invitassero
nel
corso
delle
Olimpiadi
dell’anno
successivo
tutti
i
Tarantini
esuli
in
Grecia
a
rientrare
in
patria,
pare
che
molto
pochi
rispondessero
all’invito.
Dopo
neanche
cento
anni
dal
disastro,
quella
che
era
stata
uno
dei
più
importanti
tramiti
della
cultura
ellenica
in
Italia
ed
un
faro
di
civiltà
per
tutto
il
mondo
mediterraneo
poté
essere
enumerata
dal
poeta
Lucilio
tra
le
comunità
indotte
a
cui
fingeva
di
volersi
rivolgere.
Taranto
mantenne
ancora
a
lungo
la
sua
grecità:
il
geografo
Strabone,
che
scrisse
la
sua
Geografia
al
principio
del
I
secolo
d.C.,
la
considera,
insieme
a
Reggio
ed a
Napoli,
l’unica
delle
poleis
italiote
ad
aver
conservato
la
sua
natura
ellenica
(ma
forse
illustrava
una
situazione
risalente
all’inizio
del
secolo
precedente),
ed
artisti
tarantini
continuarono
a
vincere
competizioni
panelleniche
almeno
sino
all’85
a.C.
Tuttavia,
esclusa
definitivamente
dai
traffici
commerciali
con
l’Oriente
dopo
la
costruzione
di
strade
alternative
alla
Via
Appia,
privata
di
ogni
reale
autonomia,
in
perenne
crisi
demografica,
cui
vanamente
si
cercò
di
porre
rimedio
con
la
deduzione
di
colonie
(la
Neptunia
nel
123
a.C.,
lo
stanziamento
di
ex
pirati
cilici
intorno
al
67
a.C.
e
quello
di
ex
legionari
romani
in
età
neroniana),
Taranto
mantenne
solo
il
ricordo
di
ciò
che
una
volta
era
stata,
restando
per
tutto
il
resto
dell’età
antica
un
piccolo
e
sonnolento
centro
periferico,
al
massimo
meta
di
ricchi
romani
in
cerca
di
luoghi
ameni
ed
evocativi
in
cui
villeggiare.