N. 59 - Novembre 2012
(XC)
LA RIVOLTA DELL’ORGOGLIO
nuove strategie contro la scuola pubblica
di Giuseppe Tramontana
È
arrivato
il
momento
di
gridarlo:
sono
un
insegnante!
Sì,
sono
un
insegnate
e me
ne
vanto.
Non
avrei
voluto
cominciare
così
un
articolo,
ma
credo
sia
necessario.
Se
non
altro,
per
far
subito
capire
che
io
sono
orgoglioso
di
quello
che
sono
e di
quello
che
ho
scelto
di
essere.
Fino
al
luglio
2007,
sono
stato
un
funzionario
regionale.
Ero
rispettato,
riverito,
trattato
con
i
guanti
gialli.
Sindaci,
sindacalisti,
direttori
di
ULSS,
presidenti
di
associazioni
e
cooperative
sociali,
dirigenti
regionali
ed
esponenti
politici
mi
telefonavano
e mi
davano,
oltre
che
del
lei,
anche
del
dottore.
A
Natale
mi
facevano
arrivare
i
pacchi-dono
in
ufficio,
qualcuno
si
prendeva
la
briga
di
farmi
recapitare
a
casa
cartoline
di
“felici
auguri
a
Lei
ed
alla
Sua
famiglia”.
Ero
un
funzionario,
io.
Vagliavo
progetti,
presiedevo
riunioni,
coordinavo,
telefonavo,
prendevo
contatti,
redigevo
delibere
e
decreti,
fornivo
pareri
legali,
mi
assumevo
le
responsabilità
amministrative
che
mi
spettavano,
facevo
iscrizioni
e
cancellazioni
nei
e
dai
registri
regionali
e,
soprattutto,
distribuivo
denari,
schei,
come
si
dice
qui
in
Veneto.
Insomma,
mi
sentivo
considerato
e
rispettato,
appunto.
Probabilmente
perché
il
mio
lavoro
veniva
visto
in
stretta
connessione
con
l’ultima
delle
attività
sopra
citate:
assegnare
e
liquidare
quattrini.
Poi
ho
fatto
un’altra
scelta.
Nel
luglio
del
2007,
appunto,
mi
hanno
chiamato
dal
Provveditorato
(poi
Centro
dei
servizi
Amministrativi
e
oggi
Ufficio
Scolastico
Provinciale:
ed
il
fatto
che
si
cambi
così
spesso
nome
non
è
indice
né
di
stabilità
né
di
chiarezza
di
idee
né,
tanto
meno,
di
grande
considerazione
da
parte
dello
Stato
per
questo
ramo
della
sua
stessa
amministrazione)
ed
ho
optato
per
la
scuola,
per
un
altro
mondo.
Un
mondo
nel
quale
volevo
entrare
da
una
vita.
Questa
speranza
aveva
trovato
terreno
fertile
nella
mia
sete
di
conoscere,
di
sapere,
di
prepararmi
in
vista
della
fatidica
chiamata.
E,
finalmente,
dopo
6
anni
e
mezzo,
dopo
altre
tre
lauree,
dopo
corsi,
aggiornamenti,
conferenze,
qualche
migliaio
di
libri
letti
ed
una
miriade
di
appunti
stravaganti,
finalmente
–
dicevo
– mi
hanno
chiamato.
Ero
felice.
Mai
avevo
fatto
mistero
di
voler
tornare
a
scuola
e
mai
–
immaginavo
- mi
sarei
pentito
della
mia
scelta.
Ogni
libro
letto,
in
quei
sei
anni
e
mezzo,
ogni
approfondimento
condotto,
ogni
argomento
affrontato,
era
sempre
destinato
–
come
un
frutto
bello
e
prezioso
– ai
miei
studenti.
O
meglio,
ai
miei
potenziali
e
futuri
studenti.
Che
tuttavia
io
non
conoscevo.
Eppure
sapevo,
- ne
ero
certo
-
che
quanto
facevo
in
termini
di
studio,
di
preparazione,
di
addestramento
culturale
era
tutto
per
loro,
per
aiutarli
a
crescere,
a
pensare,
a
diventare
uomini
e
donne
consapevoli
e
protagonisti
del
proprio
destino.
Perché
io,
adesso
che
li
ho,
voglio
bene
ai
miei
studenti.
E mi
sta
enormemente
a
cuore
il
loro
destino.
Lo
dico
senza
melliflue
sottigliezze
o
stereotipate
frasette
di
circostanza:
a
me,
i
miei
ragazzi
piacciono.
E,
come
a
me,
anche
alla
stragrande
maggioranza
dei
miei
colleghi.
Perché
se
non
ti
piacciono
i
ragazzi,
questo
mestiere
non
puoi
proprio
farlo.
Se
non
ti
piace
il
loro
odore,
il
modo
in
cui
parlano,
si
vestono,
si
pettinano,
scrivono
gli
sms,
questo
mestiere
non
puoi
sopportarlo.
Se
non
ti
garbano
i
loro
jeans
sgualciti,
le
vite
basse,
le
creste
e
gli
orecchini
dalle
forme
improponibili
o
dai
colori
sgargianti,
i
piercing
e i
tatuaggi,
se
ti
fanno
schifo
gli
elastici
delle
mutande
che
occhieggiano
da
sotto
i
pantaloni,
le
calze
rotte
e le
scarpe
di
ginnastica
con
i
lacci
di
due
colori
diversi,
se
ti è
ributtante
quello
che
dicono
e
come
lo
dicono,
quello
che
sgranocchiavo
e
ingollano,
se
tutto
questo
non
ti
va,
tu
non
sei
tagliato
per
fare
l’insegnante.
E
non
devi
farlo!
Per
questo,
io ,
mi
considero
fortunato.
E mi
piace
fare
ciò
che
faccio,
mi
piace
farlo
assieme
a
persone
– i
colleghi
–
che
la
pensano
su
per
giù
come
me e
per
persone
– i
ragazzi
–
che,
nonostante
tutto
(dalle
interrogazioni
ai
voti:
sempre
troppo
frequenti,
le
prime;
sempre
troppo
bassi,
i
secondi),
apprezzano
il
lavoro
che
svolgo.
Ma,
la
mia
soddisfazione,
poi
cozza
contro
un
‘muro
sociale’.
Infatti,
complice
una
propaganda
ed
un
pensiero
imperante
nefasti,
gli
insegnanti,
almeno
in
Italia,
sono
diventati
il
bersaglio
preferito
di
ogni
insulto,
di
ogni
contumelia.
Nessuno
si
sognerebbe
di
suggerire
ad
un
ingegnere
come
sviluppare
un
progetto
o ad
un
avvocato
come
impostare
la
difesa
di
una
causa.
Eppure,
con
gli
insegnati,
tutti
(genitori
per
primi
e
politici
per
secondi,
ma a
ruota),
tutti
si
possono
promettere
di
mettere
il
becco
nel
loro
lavoro.
E lo
fanno
con
l’inconfessato
e
inconfessabile
convincimento
che,
in
fondo,
quello
degli
insegnanti
è un
lavoro
solo
per
modo
di
dire:
è
più
che
altro
un
‘rapporto’
con
i
ragazzi,
un
po’
come
quello
degli
intrattenitori,
degli
istrioni
o
dei
cabarettisti.
E,
naturalmente,
tutti
possono
criticare
e
pretendere,
in
maniera
più
o
meno
arrogante,
di
poter
far
meglio,
in
forza
del
fatto
che,
in
verità,
spesso
gli
insegnati
non
vengono
visti
come
dei
professionisti
o,
almeno,
dei
professionisti
seri.
Questo
ci
porta
a
due
considerazioni
che,
benché
separate,
sono
strettamente
intrecciate.
La
prima.
Perché
la
maggioranza
della
gente
pensa
che,
in
fondo,
gli
insegnanti
siano
dei
professionisti
di
serie
B?
Be’,
in
primis,
per
una
questione,
come
direbbe
il
filosofo,
di
‘pensiero
dominante’
della
nostra
epoca.
Un
mestiere
strettamente
connesso
alla
conoscenza,
alla
conoscenza
pura,
a
quella
conoscenza
che,
come
diceva
Thomas
Mann,
ha
simpatia
per
l’abisso,
anzi
è
l’abisso,
non
serve
nella
vita
pratica.
Se
si
potesse
diventare
avvocati,
medici,
ingegneri,
psicologi,
fisici,
chimici
o
informatici
senza
aver
frequentato
un
giorno
di
scuola
–
come
nel
racconto
di
Leonardo
Sciascia,
La
laurea
-
tutti
sarebbero
pronti
a
cogliere
l’occasione.
L’importante
è la
meta,
non
il
percorso.
L’importante
è il
pezzo
di
carta
(raggiungibile
in
qualsiasi
modo),
il
pezzo
di
carta
che
potrebbe
consentirti,
se
non
un
lavoro,
almeno
una
possibilità
di
distinzione
o
una
dazione
di
senso
per
gli
anni
trascorsi
a
scuola:
una
sorta
di
risarcimento
tardivo
(“almeno
gli/le
resta
qualcosa”).
L’importante
è la
testimonianza
formale,
non
che
essa
sia
l’attestazione
di
una
percorso
di
arricchimento
culturale.
Ma
la
domanda,
come
diceva
il
conduttore
televisivo,
sorge
spontanea:
perché?
Perché
la
gente
pensa
questo?
Si
potrebbe
rispondere
facilmente
che
si
tratta
del
pensiero
dominante
della
nostra
epoca,
appunto.
Un
pensiero
dominante
nel
contempo
legittimato,
favorito,
plasmato
e di
cui,
per
certi
versi,
sono
recettivi,
oltre
che
la
società,
il
mondo
politico.
E
così
siamo
al
secondo
punto,
evidentemente
connesso
al
primo.
Ossia
a
quella
brama
di
livida
delegittimazione,
se
non
addirittura
di
denigrazione,
nei
confronti
di
questi
miserabili
insegnanti.
I
quali,
a
parte,
sorvegliare
ed
intrattenere
i
ragazzi,
a
cosa
servono?
A
cosa
servono
quelle
inutili
nozioni
che
si
sforzano
di
trasmettere
(o
inculcare,
nel
caso
deteriore)
alle
giovani
menti
ad
essi
affidate?
Questi
insegnanti
– è
risaputo
-
lavorano
poco
e
niente,
hanno
tre
mesi
di
ferie
in
estate,
si
sollazzano
con
le
vacanze
di
Natale,
Pasqua,
Capodanno,
Befana,
Tutti
i
Santi,
Immacolata
e
poi
i
ponti,
controponti,
sovrapponti
e
sottoponti
che
manco
Venezia
o
Los
Angeles!,
lavorano
solo
se
gli
va,
non
pensano
che
a
gite
e
viaggi
di
cosiddetta
istruzione
(“sai
che
istruzione:
si
fanno
i
giri
turistici
gratis!
Gratis
per
loro,
perché
in
realtà
paga
sempre
pantalone:
le
famiglie!”),
si
divertono
e
arrotondano
con
i
progetti
(“ma
che
progetto
è il
giornalino
dove
si
scrivono
solo
schifezze
o il
teatro
che
mette
in
‘ste
scena
‘ste
cose
vecchie
come
Shakespeare
o
l’altro
smarmittato
di
Pirandello…
o
persino
l’Odissea
in
versione
comica:
guarda
un
po’
te!)
e,
per
di
più,
mettono
si
accaniscono
sui
ragazzi
che,
poverini,
non
studiano
perché
è
l’insegnate
che
li
fa
annoiare.
Insomma,
che
vogliono?
E,
soprattutto,
a
che
servono
veramente?
A
che
servono,
quando
la
tv e
internet,
Superquark,
MTV,
La
storia
siamo
noi,
Sereno
Variabile,
La
Gaia
scienza,
Voyager,
Missione
Natura,
SOS
Tata,
L'Eredità,
Wikipedia,
Wikiquote,
Cronologia.it
o
altro
ancora
possono
fornire
tranquillamente
le
stesse
nozioni,
anzi
lo
stesso
sapere:
perché,
per
costoro,
quello
passato
da
tivvù
e
internet
è il
sapere,
il
sapere
moderno
e,
in
quanto
tale,
istantaneamente
fruibile
e
consumabile:
come
il
tè
in
bottiglia!
E
così
succede
che
questa
mentalità
imperante
trovi
sponda
nel
campo
politico,
molto
sensibile
(le
elezioni,
i
consensi
e
tutto
il
resto)
a
certi
belluini
richiami.
Così
è
successo
che,
poiché
la
Lega
non
voleva
gli
insegnanti
meridionali
al
Nord,
una
ministra
abbia
deciso
di
bloccare
i
passaggi,
all’interno
delle
relative
graduatorie
disciplinari,
tra
le
diverse
regioni
d’Italia.
Conseguenza?
In
alcune
zone
ci
sono
cattedre
in
esubero
(es.
Storia
dell’Arte
in
Campania)
e in
altre
le
stesse
cattedre
sono
scoperte
(es.
la
stessa
Storia
dell’Arte
in
alcune
regioni
del
Nord).
O,
ancora,
da
un
lato,
ci
si
lamenta
che
i
ragazzi,
in
quinta
liceo,
non
studiano
il
programma
di
storia
più
vicino
a
noi,
continuando
a
non
sapere
nulla
della
caduta
del
Muro
o di
Tangentopoli,
delle
stragi
del
’92
o
dell’11
settembre,
e,
dall’altra,
si
taglia,
nella
stessa
quinta,
un’ora
di
storia
per
rimpinguare
con
un’ora
in
più
di
filosofia
l’orario
di
terza!
Ma
non
basta.
Il
nuovo
ministro
Profumo
ha
inserito,
nella
legge
di
stabilità,
l’articolo
che
prefigura
un
innalzamento
delle
ore
di
lezione
per
i
docenti:
24
anziché
le
attuali
18.
Tale
norma,
poiché
portando
a 24
le
ore
dei
docenti
permetterebbe
di
affidare
agli
stessi
gli
eventuali
‘spezzoni’
di
cattedra
rimanenti
dopo
l’assegnazione
delle
cattedre’piene’
(spezzoni
che,
oggi,
per
la
maggior
parte
vengono
affidati
a
precari
o a
docenti
che
altrimenti
non
hanno
cattedre
complete),
più
che
colpire
i
titolari,
colpiscono
gli
stessi
supplenti
e
precari,
che
non
verranno
più
chiamati.
Ora,
mentre
la
Commissione
Bilancio
della
Camera
pare
abbia
bocciato
–
dietro
emendamento
del
PD -
tale
scelta,
molti
problemi
restano.
Tra
battute
sulla
noia
del
posto
fisso
e
sulle
scelte
choosy
dei
giovani,
uscite
poco
felici
sulla
sfiga
dei
trentenni
non
ancora
laureati
(che
fanno
il
paio
con
quelle
di
gelminiana
memoria
sui
giovani
manipolati
dai
comunisti
in
occasione
delle
manifestazioni
studentesche),
alla
fine,
quando
c’è
da
pagare,
paga
sempre
la
scuola.
E
spesso
con
la
scusa
che
“è
l’Europa
che
ce
lo
chiede”.
Non
solo.
Anche
dopo
le
proteste,
Profumo
non
ha
mostrato
nessun
segno
di
ripensamento
sul
contenuto
della
norma.
Anzi,
ha
difeso
la
sua
scelta
parlando
di
allineamento
agli
altri
paesi
occidentali
(ecco
di
nuovo
l’Europa!),
glissando
però
sul
fatto
che,
solitamente,
negli
altri
paesi
occidentali:
1) i
contratti
stipulati
tra
Pubblica
Amministrazione
e
rappresentanze
sindacali
si
rispettano
e
non
vengono
modificati
unilateralmente;
2) i
docenti
guadagnano
quasi
il
doppio
di
quelli
italiani.
In
realtà,
l’unico,
vero
motivo
per
cui,
almeno
temporaneamente,
il
progetto
verrà
accantonato
è
perché
siamo
in
periodo
preelettorale.
Dopo,
statene
certi,
si
ritornerà
alla
carica.
Ma
il
ministro
ha
comunque
colto
l’occasione
per
bacchettare
gli
insegnanti,
colpevoli
di
intendere
la
didattica
solo
come
lezione
frontale.
E
detto
da
uno
che,
all’Università
di
Torino,
ha
insegnato
la
disciplina
di
Convertitori,
Macchine
ed
Azionamenti
Elettrici,
materia
in
cui,
immaginiamo,
sembrano
indispensabili
la
capacità
relazionale,
la
creatività
didattica
e la
fascinazione
oratoria,
c’è
da
far
tesoro
di
simili,
rimproveri!
Ecco
per
quale
motivo
i
docenti
restano
diffidenti
e,
un
po’
in
tutt’Italia,
si
stanno
comunque
mobilitando,
dando
corpo
a
varie
forme
di
lotta:
dalla
cosiddetta
‘didattica
essenziale’,
cioè
leggere
i
libri
e i
manuali
senza
il
corredo
di
spiegazioni,
alla
cancellazione
dei
progetti
e
delle
iniziative
extracurricolari,
fino
alla
rinuncia
a
gite
e
viaggi
di
istruzione,
cosa
che,
se
attuata
su
larga
scala,
colpirebbe
parecchi
operatori,
dalle
agenzie
di
viaggio
alle
società
di
pullman,
dalle
guide
turistiche
agli
albergatori,
dalle
compagnie
aeree
alle
FS.
Ma
un
altro
motivo
fa
storcere
il
naso.
Un
motivo
che
sembra
trovare
ratio
e
fondamento
proprio
nella
questione
delle
24
ore.
Di
cosa
si
tratta?
Una
recente
circolare
ministeriale,
la
numero
89
del
18
ottobre
2012,
consente
di
valutare
gli
apprendimenti
con
voto
unico,
senza
distinzione
tra
scritto
e
orale,
già
nel
primo
periodo
dell’anno
scolastico.
Un
cambiamento
di
strategia
singolare
– e
inspiegabile
–
ove
si
consideri
che
solo
pochi
mesi
fa
lo
stesso
Ministero
si
era
pronunciato
per
la
doppia
valutazione
anche
in
quelle
discipline,
come
educazione
fisica,
da
sempre
collegate
al
voto
unico.
Cosa
succede?
Succede
che
non
appare
capzioso
il
ragionamento
che
vede
in
questa
circolare
il
primo
passo
per
far
lavorare
meno
i
docenti
nel
pomeriggio,
a
casa,
ma
chiedendo
nel
contempo
e in
compenso
una
maggiore
presenza
mattutina
a
scuola.
Ecco
allora
un
altro
motivo
per
non
fidarsi.
A
ciò,
poi,
possiamo
aggiungere
ancora
un
paio
di
previsioni
che
rappresentano,
nei
fatti,
il
progetto
per
la
definitiva
(ma
al
peggio
non
c’è
mai
fine,
invero)
dismissione
della
scuola
pubblica.
La
prima
di
queste
illuminate
riforme
concerne
gli
organi
collegiali
(ex
legge
Aprea),
la
seconda
l’estensione
dei
test
Invalsi
(Istituto
di
valutazione
del
sistema
di
istruzione)
anche
all’esame
di
Stato.
Con
la
prima
novità,
le
scuole,
divenute
fondazioni,
saranno
finanziate
e
dirette
da
privati.
Ciò
comporterà
che
l’unitarietà
del
sistema
di
formazione
lascerà
il
posto
all’autonomia
statutaria
dei
singoli
istituti,
i
quali,
in
base
al
loro
appeal
–
spesso
connesso
alla
loro
capacità
di
adattarsi
per
far
cassetta,
mantenendosi
ossequiosi,
tranquilli
e
ligi
ai
voleri
del
privato
investitore
-,
si
distingueranno
in
istituti
di
serie
A e
di
serie
B.
Inoltre,
con
l’introduzione
dei
test
Invalsi,
i
docenti
saranno
costretti
a
modificare
la
didattica
in
funzione
di
prove
che
funzionano
solo
se
misurano
le
conoscenze
di
base
e la
richiesta
di
sapere
si
abbasserà
ulteriormente.
Alla
faccia
del
sapere
critico
e
dello
stimolo
agli
approfondimenti,
alla
curiosità
intellettuale
ed
ai
collegamenti
multi
o
pluridisciplinari.
La
scuola,
in
questo
modo,
si
limiterà
a
registrare
e
confermare
le
differenze
sociali.
E
così
seppelliamo
definitivamente
anche
Don
Milani!
Quindi,
come
spero
di
aver
dimostrato,
il
problema
non
sono
le
24
ore
in
sé.
L’anno
scorso
ho
avuto
un
orario
di
22
ore.
Non
è
stato
un
dramma.
Stare
in
classe
per
22
ore
settimanali
non
è
una
tragedia,
soprattutto
per
gente,
come
buona
parte
degli
insegnanti
italiani,
che
ha
scelto
questo
lavoro
e
che
ama
stare
insieme
ai
ragazzi,
apprezzandoli
per
ciò
che
adesso
sono
e
scommettendo
su
ciò
che
domani
riusciranno
ad
essere.
Senza
nemmeno
tirar
fuori
gli
argomenti
sul
tempo
che
già
oggi
si
impiega
per
correggere
i
compiti
a
casa
e
per
preparare
le
lezioni,
per
i
partecipare
a
collegi
e
consigli,
a
dipartimenti
e
riunioni,
per
garantire
sportelli
e
consulenze,
progetti
e
ricevimenti
dei
genitori.
Il
problema,
dunque,
non
è
quantitativo,
ma
qualitativo.
Ci
sarà
sempre
meno
tempo
per
aggiornarsi
e
scegliere
le
letture
adatte,
per
scaricare
novità
da
internet
e
fotocopiare
testi,
preparare
esercizi
e
sperimentare
nuovi
metodi
di
insegnamento,
ci
sarà
meno
tempo
per
studiare.
E
per
calibrare
interventi
mirati
a
beneficio
degli
studenti
in
difficoltà.
Insomma,
verremo
soffocati
dalla
mancanza
di
tempo
necessario
ad
assicurare
un’accettabile
qualità
dell’insegnamento.
Ogni
giorno,
quasi
tutti
gli
insegnanti
italiani,
con
grande
senso
di
responsabilità
e
dispendio
di
energie,
incuranti
di
un’opinione
pubblica
sempre
più
invelenita,
escono
di
casa
per
svolgere
al
meglio
il
proprio
lavoro.
Avendo
per
le
mani,
paradossalmente,
ciò
che
di
più
caro,
prezioso
e
delicato
quella
stessa
società
possiede:
i
suoi
figli,
il
suo
futuro.
Noi
siamo
quelli
che
cercano
di
spingere
i
ragazzi
a
pensare
con
la
propria
testa,
lottando
contro
l’insulso
Moloch
della
superficialità
televisiva
o
informatica.
Noi
insegniamo
la
democrazia,
il
dialogo,
il
rispetto
per
le
opinioni
altrui,
ma
anche
la
coerenza
nei
comportamenti,
l’onestà,
insegniamo
valori
come
il
coraggio
delle
scelte,
anche
se
dolorose
o
laceranti,
e il
gusto
agrodolce
della
responsabilità,
indichiamo
la
strada
della
passione
e
del
sentimento,
ma
senza
scartare
né
le
prerogative
della
ragione
né
le
sollecitazioni
del
sogno.
Insegniamo
a
capire
chi
siamo
e
quale
sia
la
nostra
storia
e
come
da
ogni
storia
nasca
un
futuro
e
come
il
nostro
futuro
sia
nelle
loro
mani
e
nelle
loro
menti,
nei
loro
desideri
e
nelle
loro
volontà.
Noi
insegniamo
ad
essere
uomini
e
donne.
E
che
poi,
questi
uomini
e
donne
diventino
farmacisti
o
veterinari,
ingegneri
o
architetti
a
noi
farà
solo
piacere.
La
cultura,
caro
Ministro,
non
è
mai
stata
solo
nozionismo,
per
noi.
Se
le
nozioni
vengono
offerte
è
solo
per
non
ricadere
nella
vuota
chiacchiera
che
svapora,
nel
gossip
salottiero.
Queste
nozioni
sono
i
puntelli,
le
fondamenta
e lo
scheletro
di
quella
organizzazione,
di
quella
disciplina
del
proprio
io
interiore
che
possiamo
chiamare
cultura.
E
spesso,
in
Italia,
questa
cultura
è
stata
salvaguardata
e
garantita
da
un
esercito
di
precari
che
si è
dedicato
anima
e
corpo
ad
una
missione
impossibile,
nella
speranza,
un
giorno
di
essere
assunta.
E,
quindi,
non
fa
un
onore
a
nessuno
– e
soprattutto
a
chi
l’ha
pensato
–
indire
un
concorsone
che
mette
fuori
gioco
molti
di
questi
onesti
lavoratori,
magari
sostituiti
da
una
massa
di
nuovi
arrivati
che
mai
ha
visto
un’aula
scolastica,
mai
si è
rapportata
con
un
programma,
un
piano
di
lavoro
o
una
problematica
adolescenziale,
ma,
che
in
compenso,
ha
saputo
compilare
correttamente
–
magari
assistita
da
un
po’
di
fortuna
– le
domande
del
quizzone.
Caro
Ministro,
la
cultura,
come
ricorda
Gramsci
(e
sempre
che
queste
cose
ancora
ci
interessino)
“è
presa
di
possesso
della
propria
personalità,
e
conquista
di
coscienza
superiore,
per
la
quale
si
riesce
a
comprendere
il
proprio
valore
storico,
la
propria
funzione
nella
vita,
i
propri
diritti,
i
propri
doveri”.
Ed è
anche
per
questo
che,
adesso,
siamo
sul
piede
di
guerra.
E,
volendo,
anche
questa
protesta
– se
esploderà
-
assumerà
i
crismi
di
atto
pedagogico,
da
passare
agli
studenti.
E
sarà
una
protesta
giusta.
In
particolare,
quando
si
alza
la
voce
contro
ministri
e
governi
che,
al
solo
udire
la
parola
Cultura,
mettono
subito
mano...
a
una
norma
assassina.