SULLA rivolta di nika
532 d.C.: quando gli "ultras"
sconvolsero costantinopoli
di Matteo Liberti
“Nika,
nika”, “vinci, vinci”, urlava
il pubblico a squarciagola,
incitando i carri che si sfidavano
nella pista dell’antico ippodromo di
Costantinopoli, i cui spalti
ospitavano la bellezza di 100.000
spettatori. Tra questi, si
distinguevano i turbolenti antenati
dei moderni ultras, che vantavano
importanti amicizie nelle stanze del
potere e che nell’anno 532 d.C.
furono protagonisti di una delle più
violente sommosse nella storia della
città, passata alle cronache come
“rivolta di Nika”. Per l’occasione,
il celebre incitamento sportivo
divenne infatti un grido di guerra.
Febbre da ippodromo
Se oggi gli ultras affollano
principalmente le curve degli stadi
di calcio, nei tempi antichi i loro
avi si accalcavano negli ippodromi
sorti sull’esempio del Circo Massimo
di Roma. Uno dei più grandi, secondo
soltanto all’impianto dell’Urbe, era
proprio quello di Costantinopoli,
città rifondata nel 330 (dove
sorgeva Bisanzio) dall’imperatore
Costantino I, che investì molti
denari per ultimare, su una
struttura preesistente, il
monumentale impianto sportivo, lungo
400 metri e largo 130. Qui il
sovrano
aveva una sua tribuna privata,
accessibile dalla residenza
imperiale, in cui amava “celebrare”
il proprio potere tra la folla,
proprio come avveniva da sempre a
Roma. E come nell’Urbe, l’ippodromo
attirò presto masse di tifosi di
ogni estrazione sociale, pronti a
prendere le parti di questa o quella
scuderia durante le corse che si
tenevano nelle occasioni di festa.
Divenuta nel 395 capitale del
neonato Impero romano d’Oriente, o
“bizantino”, Costantinopoli si andò
intanto affermando come una delle
città più grandi, popolose e
cosmopolite del mondo, conoscendo
un’eccezionale fioritura con
l’imperatore Giustiniano I, salito
al trono nel 527 assieme alla
carismatica moglie Teodora. Al pari
dei sovrani precedenti, anch’essi
furono colti da una crescente
“febbre da ippodromo” (la stessa
Teodora, di umili origini, era
figlia di un addetto della struttura
sportiva), coltivando pericolose
amicizie con la fazione degli
Azzurri, i tifosi più esagitati di
tutti, sempre pronti alla rissa e
con l’ambizione di dettar legge
all’intera città. D’altronde, già da
tempo le fortune e le sfortune di un
imperatore erano condizionate dagli
esiti delle gare che si tenevano
nell’ippodromo, o meglio dai
rapporti che egli sapeva intrecciare
con gli ultras più turbolenti.
Casus belli
Al pari di oggi, il mondo dei tifosi
di Costantinopoli era popolato da
gruppi fieramente rivali tra loro,
ognuno connotato da un particolare
colore, derivato dalle vesti
indossate dagli aurighi che si
sfidavano in pista. Tra le varie
fazioni, oltre agli Azzurri, detti
“miserabili” e rappresentanti delle
frange più povere della popolazione,
spiccavano i Verdi, i
“contribuenti”, che coagulavano
attorno a sé gli esponenti delle
fasce alte
(mentre rivestivano un ruolo
secondario i Bianchi e i Rossi). I
due gruppi, divisi anche da dispute
religiose interne al cristianesimo,
disponevano entrambi di squadroni
militarizzati e, a seconda dei
favori che facevano a questo o quel
sovrano – intimorendone magari un
rivale – ricevevano agevolazioni o
compensi. Nello specifico, se
Giustiniano e Teodora erano stati
appoggiati dagli Azzurri, i Verdi
avevano invece sostenuto Ipazio e
Flavio Pompeo, nipoti del precedente
imperatore Anastasio I (sul trono
dal 491 al 518). Avendo avuto la
peggio, gli stessi Verdi iniziarono
a subire le angherie degli Azzurri,
famigerati sia per i tafferugli
nell’ippodromo sia per i raid
notturni tra le strade di
Costantinopoli, in cui
terrorizzavano la popolazione con
rapine e omicidi che rimanevano
spesso impuniti, dato il lassismo di
Giustiniano. A un certo punto, però,
le ripetute prepotenze degli ultras
spazientirono l’imperatore, che
ordinò al prefetto della città,
Eudemone, di arrestare gli esponenti
più esagitati di tutte le fazioni.
Il 10 gennaio 532 questi furono
quindi giustiziati, ma due di loro,
uno per fazione, si salvarono per la
rottura del patibolo, implorando
clemenza a Giustiniano. Questi
continuò tuttavia a mostrarsi
inflessibile, creando un casus
belli: i tifosi delle due
fazioni misero infatti da parte
l’antica rivalità e si coalizzarono
contro di lui. D’altro canto, già da
tempo essi mal digerivano la sua
dura politica fiscale (destinata
alle spese belliche e, secondo i
maligni, a soddisfare i lussuosi
capricci dell’imperatrice),
amministrata da due funzionari
ritenuti corrotti: il questore
Triboniano e il prefetto del
pretorio d’Oriente Giovanni di
Cappadocia.
Città in allarme
La mattina dell’11 gennaio, giorno
di gare, nel catino dell’ippodromo
l’imperatore e l’imperatrice furono
travolti da fischi e insulti,
finché, al grido “nika,
nika”, Azzurri e Verdi
iniziarono a mettere a ferro e fuoco
l’intera città. A darci una
descrizione di tali hooligans ante
litteram è lo storico bizantino
Procopio di Cesarea, che nella sua
Historia Arcana si soffermò
sull’aspetto degli Azzurri,
contraddistinti tra l’altro da
capelli tagliati “alla maniera dei
barbari”, con frangia sulla fronte,
tempie rasate e chioma lunga. Oltre
a ciò, giravano sempre armati di
pugnali. Di fronte alle intemperie
degli ultras, che trascinarono nella
rivolta gran parte della
popolazione, Giustiniano corse a
rinchiudersi nel suo palazzo, pronto
a darsi alla fuga (tanto che fece
stipare su una nave tutto il tesoro
imperiale). I tumulti continuarono
intanto senza sosta, e i rivoltosi
diedero addirittura alle fiamme la
grande basilica di Santa Sofia,
mentre sul piano politico, dopo aver
ottenuto la rimozione dei funzionari
coinvolti negli arresti e di quelli
accusati di vessazione fiscale,
nonché la promessa di una riduzione
delle tasse, giunsero a reclamare
l’abdicazione del sovrano. A tal
fine elessero arbitrariamente come
nuovo imperatore Ipazio, che a detta
di Procopio di Cesarea fu peraltro
poco entusiasta di tale prova di
forza. A quel punto, mentre gli
ultras minacciavano ormai il palazzo
imperiale, Teodora convinse il
marito, pronto a lasciare il trono,
ad affrontare i ribelli. Queste le
carismatiche parole con cui convinse
l’intimorito consorte: “Anche se
con la fuga mi dovessi salvare, non
vorrò vivere senza essere salutata
da imperatrice [...]; se vuoi, [...]
vai pure; quanto a me, [...] non
fuggirò”.
Indomita Teodora
A riportare la situazione sotto
controllo furono i generali Narsete
e Belisario. Il primo,
tramite abili negoziati con gli
Azzurri (a cui girò parte del tesoro
del sovrano), riuscì a erodere la
compattezza dei ribelli, mentre il
secondo, radunato l’esercito
imperiale, iniziò una vasta azione
militare senza lesinare nella
violenza. La brutale repressione
partì proprio dall’ippodromo, dove
gli insorti vennero trucidati a
grappoli. Furono poi travolte le
barricate allestite lungo le strade
e il 18 gennaio, a una settimana
dall’inizio, la rivolta poté dirsi
sedata. I funzionari allontanati
vennero quindi richiamati al loro
posto, Belisario fu ricompensato con
la carica di magister militum,
le corse ripresero e, per volontà di
Teodora, la basilica di Santa Sofia
fu ricostruita più bella e grande di
prima, allargandosi a parte
dell’area dell’ippodromo.
All’interno della nuova struttura
sacra trovò tra l’altro posto un
particolare pilastro in marmo detto
“colonna piangente”. Pare infatti
che esso trasudi l’umidità presente
nel terreno sottostante, ma secondo
una leggenda tali goccioline
sarebbero in realtà le lacrime dei
ribelli lì trucidati (in tutto,
secondo Procopio di Cesarea, “morirono
più di trentamila popolani”).
Tra questi si contano anche
l’usurpatore Ipazio e suo fratello
Pompeo, uccisi e gettati in mare su
esplicito ordine di Teodora, vera
vincitrice di quel primo, storico
scontro tra istituzioni e ultras.