N. 47 - Novembre 2011
(LXXVIII)
Ritratto di Annibale
Ab Urbe Condita, XXI 1-4
di Paola Scollo
Annibale è il protagonista indiscusso della seconda guerra punica. Un comandante geniale, uno stratega in grado di tenere testa alle forze romane per diciassette anni. Nel 221 a.C., a soli venticinque anni, è al comando dell’esercito cartaginese. Il suo successo è senz’altro legato alla forza della cavalleria, agile e veloce, sempre pronta ad attaccare e ad accerchiare il nemico. Di Annibale, il nemico più temibile di Roma, Tito Livio delinea, nel XXI libro dell’Ab Urbe Condita, un ritratto eccezionale. D’altra parte, come lo stesso Livio specifica, nel comandante cartaginese si annidano tutti i tratti di una personalità davvero eccezionale, straordinaria: intelligente e scaltro, audace, impavido di fronte ai pericoli, abile tessitore di agguati, esperto nell’arte dell’inganno, eccellente sia nella virtù sia nel vizio, infaticabile e onnipresente stratega, comandante e soldato in mezzo ai suoi soldati.
Annibale
appartiene
alla
famiglia
dei
Barca
che,
dopo
la
prima
guerra
punica,
prende
il
sopravvento
a
Cartagine.
Il
padre
Amilcare
è
difensore
di
una
politica
volta
a
ripristinare
il
dominio
cartaginese
sul
mare.
I
sostenitori
dei
Barca
intendono
quindi
estendere
il
primato
di
Cartagine
in
Spagna,
territorio
ricco
di
metalli
pregiati,
quindi
riprendere
il
conflitto
con
Roma.
Sul
versante
politico
opposto,
gli
optimates,
guidati
da
Annone,
auspicano
il
mantenimento
di
rapporti
pacifici
con
Roma,
propugnando,
piuttosto,
una
politica
di
espansione
nei
territori
dell’entroterra
africano.
Nell’immagine
di
Livio,
Annibale
è un
predestinato:
all’età
di
nove
anni,
prega
il
padre
di
condurlo
in
Spagna.
E, a
tal
proposito,
Livio
riferisce
che
Amilcare,
sul
punto
di
far
passare
l’esercito
in
Spagna,
«mentre
faceva
sacrifici,
fatto
avvicinare
Annibale
agli
altari
e
toccati
gli
oggetti
sacri,
gli
impose
di
giurare
che,
appena
gli
fosse
possibile,
sarebbe
divenuto
nemico
(hostis)
del
popolo
romano»
(XXI
1).
Per
cinque
anni
in
Africa
e
per
nove
anni
in
Spagna,
Amilcare
si
impegna
in
primo
piano
a
estendere
il
dominio
cartaginese,
comportandosi
come
se
«nel
suo
animo
progettasse
di
condurre
una
guerra
ben
più
grande
di
quella
che
stava
combattendo».
E,
stando
a
Livio,
«se
Amilcare
fosse
vissuto
più
a
lungo,
i
Cartaginesi
avrebbero
portato
la
guerra
in
Italia
sotto
il
suo
comando»
(XXI
2).
Tuttavia,
la
morte
improvvisa
di
Amilcare,
«avvenuta
in
un
momento
molto
opportuno
ai
Romani»,
e la
giovane
età
di
Annibale
«differirono
la
guerra».
Poco
prima
di
morire,
Amilcare
indica
come
successore
il
genero
Asdrubale
che,
infatti,
detiene
il
potere
per
circa
otto
anni.
E
proprio
durante
il
regno
di
Asdrubale,
nel
226
a.C.
il
popolo
romano
stringe
un
accordo
con
Cartagine,
«in
virtù
del
quale
il
confine
fra
i
due
imperi
doveva
essere
il
fiume
Ebro»
(XXI
2).
Il
trattato
prevedeva
poi
il
rispetto
della
libertà
della
città
di
Sagunto,
situata
proprio
in
mezzo
alle
zone
di
influenza
dei
due
popoli.
Pur
impegnandosi
a
non
avanzare
al
di
là
dell’Ebro,
il
senato
di
Roma
firma
un
trattato
di
alleanza
con
Sagunto,
assumendone
la
difesa.
Un
atto
che
per
i
Cartaginesi
si
configura
come
una
vera
e
propria
provocazione.
Una
provocazione
che,
una
volta
salito
al
potere,
Annibale
non
intende
lasciare
impunita.
Infatti,
stando
al
racconto
di
Livio,
«come
successore
di
Asdrubale,
fu
subito
portato
al
pretorio
il
giovane
Annibale,
acclamato
generale
con
alte
grida
e
con
il
consenso
di
tutti»
(XXI
3).
All’epoca
Annibale
ha
appena
ventisei
anni,
diciassette
dei
quali
trascorsi
in
campo.
Proprio
questa
esperienza
diretta
fa
di
lui
uno
dei
più
grandi
condottieri
dell’antichità.
La
scelta
di
inviare
Annibale
in
Spagna,
come
successore
di
Asdrubale,
è
osteggiata
da
Annone,
leader
degli
aristocratici
(optimates),
il
quale
sostiene
la
necessità
che
il
giovane
sia
«trattenuto
in
patria
sotto
l’autorità
delle
leggi
e
dei
magistrati,
imparando
a
vivere
con
gli
stessi
diritti
di
tutti
gli
altri
cittadini,
affinché
un
giorno
questa
piccola
scintilla
non
susciti
un
grande
incendio
(ne
quandoque
parvus
hic
ignis
incendium
ingens
exsuscitet)».
Livio
riferisce
di
una
discussione
in
senato,
quindi
commenta:
«Pochi
e,
generalmente,
tutti
i
migliori
furono
del
parere
di
Annone;
ma,
come
il
più
delle
volte
accade,
su
di
essi
prevalse
la
maggioranza»
(XXI
4).
Annibale
viene
dunque
acclamato
imperator.
Ed è
proprio
nel
narrare
le
prime
imprese
di
Annibale
che
Livio
tratteggia
il
memorabile
ritratto
del
giovane
comandante
(XXI
4):
«Mandato
in
Spagna,
al
suo
primo
giungere,
attrasse
le
simpatie
di
tutto
l’esercito;
i
veterani
credevano
che
fosse
stato
loro
restituito
Amilcare
giovane,
scorgendo
in
lui
la
stessa
energia
del
volto
e la
stessa
fierezza
negli
occhi,
nella
fisionomia
e
nei
lineamenti
del
viso».
L’immagine
di
Asdrubale
è
ancora
viva:
è
riflessa
nella
penetrazione
dello
sguardo,
nell’espressione
e
nei
lineamenti
del
figlio.
Tuttavia,
come
spiega
lo
stesso
Livio,
Annibale
riesce
ben
presto
a
far
dimenticare
qualsiasi
motivo
di
confronto:
«Dopo
breve
tempo,
accadde
che
l’immagine
del
padre
che
era
in
lui
divenne
la
causa
meno
importante
perché
egli
si
conciliasse
il
favore
dei
soldati».
Il
giovane
rivela,
in
breve
tempo,
tali
e
tante
qualità
personali
che
la
sua
somiglianza
con
il
padre
diviene
elemento
secondario
nella
stima
da
parte
dei
soldati.
In
altre
parole,
riesce
a
liberarsi
del
fardello
dell’eredità
paterna
e a
risplendere
di
luce
propria.
Ecco,
dunque,
secondo
Livio,
i
motivi
dell’eccezionalità
di
questo
carattere:
«Una
stessa
natura
(ingenium)
non
fu
mai
più
atta
a
due
opposte
cose:
obbedire
e
comandare
(parendum
atque
imperandum)».
Proprio
per
queste
ragioni,
risulta
difficile
comprendere
«se
fosse
più
caro
al
comandante
o
all’esercito,
poiché
Asdrubale,
ogni
volta
che
vi
era
da
prendere
con
forza
ed
energia
qualche
iniziativa,
non
preferiva
alcun
altro
che
la
guidasse,
né i
soldati
in
altro
capitano
avevano
più
fiducia
quando
si
trattava
di
osare
qualche
ardita
impresa.
Massima
era
la
sua
audacia
nell’affrontare
i
pericoli,
massima
la
prudenza
negli
stessi
frangenti,
da
nessun
disagio
il
suo
corpo
poteva
essere
affaticato,
né
il
suo
coraggio
poteva
essere
vinto.
Tollerava,
allo
stesso
modo,
il
caldo
e il
freddo;
la
misura
dei
cibi
e
delle
bevande
era
determinata
dal
desiderio
naturale,
non
dal
piacere;
né
di
giorno
né
di
notte
vi
erano
per
lui
ore
fisse
per
il
sonno
e
per
la
veglia;
quel
tempo
che
restava,
compiute
le
imprese,
era
dato
al
riposo,
che
non
era
procurato
né
da
silenzio
né
da
soffice
letto;
molti,
infatti,
scorsero
spesso
Annibale
che
giaceva
in
terra
avvolto
nel
mantello
militare,
in
mezzo
alle
sentinelle
e ai
posti
di
guardia
dei
soldati.
Il
suo
modo
di
vestire
non
era
diverso
da
quello
dei
coetanei;
davano
nell’occhio
solo
le
armi
e i
cavalli.
Era
Annibale,
di
gran
lunga,
il
primo
tra
i
fanti
e
cavalieri;
nell’avviarsi
alla
battaglia
precedeva
tutti,
finita
la
battaglia,
ne
ritornava
ultimo».
Nel
presentare
la
vera
natura
di
Annibale,
Livio
evidenzia,
dapprima,
il
valore
militare
del
personaggio
che,
pur
essendo
il
comandante,
condivide
con
i
suoi
soldati
fatiche
e
rischi.
Annibale
è
dotato
di
un
grande
carisma,
che
gli
consente
di
conquistare
il
rispetto
e la
fiducia
dei
suoi
uomini.
È
poi
in
grado
di
equilibrare,
in
una
perfetta
sintesi,
tendenze
opposte:
vigore
(vigor),
forza
(vis)
e
coraggio
(audacia)
si
affiancano
a
prudenza
(consilium),
sopportazione
(patientia)
e
misura
(modus).
Annibale
è
audace,
impavido
e, a
un
tempo,
prudente.
Nel
vestito
non
mostra
superiorità
rispetto
ai
coetanei
ed è
il
primo
(primus)
tra
i
cavalieri
come
tra
i
fanti,
il
primo
(princeps)
a
entrare
in
battaglia,
l’ultimo
(ultimus)
a
ritirarsi.
Emerge
fino
a
questo
punto
una
valutazione
positiva
di
Annibale
che,
pur
essendo
il
nemico
più
temibile
di
Roma,
l’hostis
per
antonomasia,
possiede
sia
forza
fisica
sia
forza
morale,
sia
coraggio
sia
saggezza,
ossia
le
qualità
fondamentali
per
il
perfetto
miles
e
imperator.
Successivamente,
Livio
afferma:
«Tuttavia,
grandissimi
vizi
(ingentia
vitia)
pareggiavano
virtù
così
grandi».
Ecco
quindi
un
elenco
dei
vitia
che
gettano
ombre
sulla
magnitudo
dell’eroe
cartaginese
(XXI
4):
«Una
feroce
crudeltà,
una
malafede
più
che
cartaginese,
una
continua
menzogna,
nessun
rispetto
per
la
religione,
nessun
timore
degli
dèi,
lo
spregio
del
giuramento,
la
mancanza
di
ogni
scrupolo.
Con
questo
insieme
di
virtù
e di
vizi
per
tre
anni
prestò
servizio
sotto
il
comando
di
Asdrubale,
non
avendo
trascurato
cosa
alcuna
che
dovesse
compiere
o
conoscere
un
uomo
che
era
destinato
a
divenire
un
grande
capitano».
Dalle
parole
di
Livio
sembrerebbe
che
proprio
la
commistione
di
virtù
e di
vizi
sia
da
porre
alle
origini
dell’eccezionalità
dell’indole
di
Annibale,
in
quanto
punto
di
partenza
per
divenire
magnus
dux.
A
ben
vedere,
questo
ritratto
offerto
da
Livio
ben
si
salda
con
l’immagine
di
Annibale
consegnata
dalla
tradizione.
Un’immagine
che
si
sviluppa
lungo
i
binari
dell’ambiguità
e
della
contraddizione.
Un’immagine
controversa,
fatta
di
luci
e
ombre,
come,
d’altra
parte,
di
luci
e
ombre
è
plasmata
l’indole
dei
grandi
personaggi
negativi.
Per
la
tradizione,
Annibale
è
dotato
di
poteri
straordinari,
è
sostenuto
da
forze
oscure.
Ma
c’è
altro.
È
più
sleale
dei
compatrioti
cartaginesi:
la
sua
vis
è
alimentata
da
inganno,
astuzia,
furbizia,
slealtà,
crudeltà
nei
confronti
del
nemico.
Tale
fama
si
lega,
con
ogni
probabilità,
all’atteggiamento
tenuto
in
guerra,
ovvero
alle
tattiche
adottate,
che
sovvertono
la
tradizionale
morale
bellica
romana,
secondo
cui
la
vittoria
deve
essere
ottenuta
in
campo
aperto
e
non
attraverso
insidie
e
tranelli.
Una
volta
giunto
al
potere,
Annibale
intende
onorare
il
giuramento
prestato
al
padre
quando,
per
la
prima
volta,
si è
recato
in
Spagna,
all’età
di
nove
anni.
Narra,
infatti,
Livio
(XXI
5):
«Del
resto,
fin
dal
giorno
in
cui
fu
acclamato
comandante,
quasi
che
l’Italia
fosse
stata
assegnata
a
lui
come
sua
provincia
e a
lui
fosse
stata
affidata
la
guerra
contro
Roma,
risolse
di
non
porre
tempo
in
mezzo,
sì
che
qualche
accidente
non
avesse,
mentre
indugiava,
a
sopraffarlo,
com’era
avvenuto
a
suo
padre
Amilcare
e
poi
ad
Asdrubale;
e
deliberò
di
far
guerra
ai
Saguntini».
Scopo
di
Annibale
è
quello
di
creare
una
generalizzata
ribellione
antiromana.
Tuttavia,
data
la
lunga
assenza
da
Cartagine,
Annibale
è
ben
consapevole
dei
rischi
legati
a
una
eventuale
dichiarazione
di
guerra
ai
Romani.
Proprio
per
queste
ragioni,
nel
218
a.C.
cinge
d’assedio
la
città
di
Sagunto,
il
che
«equivaleva
a
far
muovere
le
armi
romane»
(XXI
5).
L’assedio
si
conclude
dopo
circa
otto
mesi
(XXI
15):
«La
città
fu
presa
con
ingente
bottino.
Sebbene
la
maggior
parte
delle
cose
fosse
stata
distrutta
dai
possessori
stessi,
e
nella
strage
l’ira
non
avesse
fatto
alcuna
distinzione
tra
vecchi
e
giovani,
e i
prigionieri
fossero
stati
preda
dei
soldati,
tuttavia
si
sa
che
dalle
cose
messe
in
vendita
si
raccolse
alquanto
denaro,
e
che
furono
mandate
a
Cartagine
molte
preziose
suppellettili
e
molti
tessuti».
La
notizia
dell’assedio
di
Sagunto
suscita
nei
senatori
romani
sentimenti
vari:
dolore,
pietà,
vergogna,
ira,
timore,
commozione.
Scrive
Livio
(XXI
16):
«Con
nessun
nemico
mai,
infatti,
erano
stati
in
conflitto
che
fosse
più
feroce
e
più
bellicoso,
né
mai
lo
Stato
romano
era
stato
tanto
inerte
e
tanto
imbelle».
Infatti,
Annibale,
«nemico
veterano,
sempre
stato
vincitore
in
durissime
guerre
di
ventitré
anni
con
le
genti
ispaniche,
avvezzo
a un
duce
acerrimo,
dal
recente
eccidio
d’una
città
opulentissima
varcava
ora
l’Ebro,
traeva
con
sé
tante
genti
ispane
da
lui
ribellate,
stava
per
far
insorgere
i
Galli
sempre
bramosi
di
guerra;
contro
tutto
il
mondo
ora
avrebbero
dovuto
combattere
i
Romani,
e in
Italia
e a
difesa
delle
loro
stesse
mura».
Lasciato
a
Sagunto
il
fratello
Adsrubale,
Annibale
è
deciso
a
condurre
la
guerra
contro
Roma.
Ed è
sostenuto,
peraltro,
da
una
visione
(XXI
22):
«È
fama
che
gli
apparisse
in
sonno
un
giovane
d’aspetto
divino
il
quale
gli
disse
di
essere
inviato
da
Giove
ad
Annibale
come
guida
verso
l’Italia;
lui
dunque
seguisse
né
mai
distogliesse
gli
occhi
da
lui.
E si
narra
che
Annibale,
dapprima,
lo
seguì
timoroso
senza
mai
guardare
né
intorno
né
dietro
di
sé;
che
poi,
per
naturale
umana
curiosità,
mentre
fra
se
stesso
si
domandava
che
cosa
mai
fosse
quella
di
cui
gli
era
vietata
la
vista,
non
poté
trattenere
i
suoi
occhi;
allora
vide
un
serpente
di
meravigliosa
grandezza
slanciarsi
innanzi
con
gran
rovina
di
piante
e di
arbusti,
e
tenergli
dietro
una
procella
con
fragor
di
tuoni;
e
che
allora,
mentre
chiedeva
quale
mostro
fosse
quello
e
che
significasse
quel
prodigio,
sentì
dire
che
quella
era
la
devastazione
dell’Italia;
continuasse
dunque
egli
ad
avanzare,
né
indagasse
più
oltre,
e
lasciasse
che
occulti
rimanessero
i
Fati».
Annibale
conduce
le
sue
forze
al
di
là
dell’Ebro
(XXI
23),
quindi
attraversa
le
Alpi,
solleva
le
popolazioni
celtiche
della
pianura
padana
e
sconfigge
gli
eserciti
romani.
Le
tribù
galliche
alleate
di
Marsiglia,
a
sua
volta
alleata
di
Roma,
oppongono
resistenza.
Ai
primi
di
settembre
del
218
a.C.
giunge
sulla
vetta
e
concede
ai
suoi
uomini
due
giorni
di
riposo.
Dopo
la
sosta,
inizia
la
discesa.
Giungono
alla
meta
circa
26.000
uomini,
meno
della
metà
di
coloro
che
erano
partiti.
I
Cartaginesi
si
alleano
con
i
Boi
e
gli
altri
Galli,
poi
mettono
in
fuga
i
Romani
di
Cremona
e di
Piacenza.
Di
fronte
alla
situazione,
il
Senato
di
Roma
chiama
alle
armi
300.000
uomini
e
14.000
cavalli,
affidati
a
Scipione,
quindi
dichiara
guerra
a
Cartagine.
Dopo
ventitré
anni
di
pace,
la
guerra
tra
Roma
e
Cartagine
riprende
su
iniziativa
di
Annibale.
Il
conflitto
dura
diciassette
anni
e
coinvolge
i
territori
di
Spagna,
Italia
e
Africa.
Il
primo
scontro
avviene
al
Ticino.
È
l’ottobre
del
218
a.C.
e
Annibale
vince.
Dall’Urbe
viene
inviato
un
secondo
esercito
contro
Annibale.
La
seconda
battaglia
viene
combattuta
sulla
Trebbia:
i
Romani
vengono
nuovamente
sconfitti
e
Annibale
diviene
signore
della
Gallia
Cisalpina.
Dopo
otto
anni,
viene
inviato
contro
i
Cartaginesi
Caio
Flaminio,
a
capo
di
30.000
uomini.
Lo
scontro
si
ha
sulle
rive
del
Trasimeno
e
quasi
tutti
i
Romani,
Flaminio
compreso,
perdono
la
vita.
Fu
questa,
secondo
Livio,
«una
delle
poche
sconfitte
memorande
del
popolo
romano»
(XXII
7).
La
notizia
genera
sgomento
e
getta
Roma
nel
panico:
il
pretore,
Marco
Pomponio,
è
costretto
ad
ammettere:
«Siamo
stati
vinti
in
una
grande
battaglia».
Di
fronte
al
grave
pericolo,
i
senatori
si
riuniscono
per
diversi
giorni
nella
Curia,
«da
mattino
a
sera,
discutendo
con
quale
comandante
e
con
quali
forze
si
potesse
opporre
resistenza
ai
Cartaginesi
vittoriosi».
Viene
quindi
nominato
dictator
Quinto
Fabio
Massimo,
in
seguito
denominato
Temporeggiatore
(Cunctator),
per
la
sua
politica
volta
a
evitare
qualsiasi
scontro
frontale
con
Annibale.
Tuttavia,
questa
forma
di
inazione
viene
presto
abbandonata
(XXII
12):
«Ai
saggi
propositi
di
Fabio
si
opponeva
non
tanto
Annibale,
quanto
il
maestro
della
cavalleria,
il
quale
non
da
altro
era
trattenuto
a
mandare
in
rovina
la
Repubblica
se
non
dal
fatto
che
era
in
sottordine;
impetuoso
e
frettoloso
nelle
risoluzioni,
e
sfrenato
di
lingua,
dapprima
con
pochi
poi
apertamente
in
pubblico,
egli
chiamava
Fabio
non
temporeggiatore
(cunctator)
ma
pigro
(segnis),
non
cauto
(cautus)
ma
pauroso
(timidus),
attribuendogli
a
difetto
quello
che
era
virtù;
e
deprimendo
il
superiore
esaltava
se
stesso;
pessima
arte,
che
troppo
è
venuta
in
uso
per
il
felice
successo
che
ne è
derivato
a
molti».
I
due
nuovi
consoli,
Terenzio
Varrone
ed
Emilio
Paolo,
sfidano
apertamente
i
Cartaginesi.
Lo
scontro
si
ha
il 2
agosto
del
216
a.C.
a
Canne,
in
Puglia,
sulla
riva
sinistra
del
fiume
Ofanto.
Annibale,
nonostante
disponga
soltanto
di
6.000
uomini,
di
cui
4.000
Galli,
riesce
a
sconfiggere
i
Romani.
Paolo
Emilio
cade
in
battaglia;
Varrone,
invece,
riesce
a
salvarsi
insieme
a
Scipione.
Di
qui
il
commento
di
Livio
(XXII
54):
«Due
consoli
e
due
eserciti
consolari
erano
distrutti;
non
c’erano
più
né
un
campo
romano
né
comandanti
né
soldati;
Annibale
aveva
in
suo
potere
l’Apulia,
il
Sannio
e
ormai
quasi
tutta
l’Italia.
Certo
nessun
altro
popolo
avrebbe
saputo
non
crollare
sotto
il
peso
di
tanta
rovina».
Da
un
punto
di
vista
strategico,
si
tratta
di
una
battaglia
insuperabile,
laddove
Annibale
dà
prova
della
forza
della
sua
cavalleria.
Eppure,
paradossalmente,
il
cartaginese
non
intende
sfruttare
la
vittoria
di
Canne.
Preferisce
riposarsi.
In
seguito
alla
battaglia
di
Canne,
a
Roma
si
prepara
la
difesa
(XXII
55):
«Non
si
dubitava,
infatti,
che
il
nemico,
distrutti
gli
eserciti,
non
venisse
a
oppugnare
Roma,
la
sola
operazione
bellica
che
ormai
gli
restava».
Viene
nuovamente
eletto
console
Quinto
Fabio
Massimo,
deciso
a
logorare
le
forze
di
Annibale
con
la
tattica
della
guerriglia.
L’ultimo
atto
della
seconda
guerra
punica
ha
come
teatro
d’azione
l’Africa,
dove
Scipione
sbarca
nel
204.
Cartagine
è
quindi
costretta
a
richiamare
Annibale
per
l’estrema
difesa.
Sono
trascorsi
trentasei
anni
da
quando,
per
la
prima
volta,
nel
238
a.C.
è
giunto
in
Spagna,
al
seguito
del
padre
Amilcare.
Annibale
non
è
più
il
giovane
condottiero
che
ha
battuto
i
Romani
per
quattro
volte
consecutive:
ha
quarantacinque
anni,
è
cieco,
stanco,
affaticato
da
guerre,
insidie.
In
molti
non
sono
disposti
a
seguirlo
nell’estrema,
folle
impresa.
Dopo
aver
ucciso
20.000
uomini,
nel
202
a.C.
il
condottiero
sbarca
a
Cartagine.
Dispone
le
truppe
nella
pianura
di
Zama,
dove
nell’estate
dello
stesso
anno
viene
combattuta
la
battaglia
che
avrebbe
assegnato
al
vincitore
il
dominio
esclusivo
sul
Mediterraneo.
Annibale
cerca
di
compiere
tutto
il
possibile,
ma
la
stagione
dei
trionfi
è
per
lui
ormai
definitivamente
conclusa.
E
ancor
più
stanco
e
affaticato
appare
al
paragone
di
Scipione,
il
giovane
condottiero
romano.
L’imperator
e
magnus
dux
cartaginese,
dotato
di
grande
acume
bellico,
si
avvia
al
declino.
Un
declino
reso
sicuramente
più
amaro
dalle
parole
che
Annibale
pronuncia
nella
curia,
quando
è
costretto
ad
ammettere
«di
aver
perduto
non
una
battaglia,
ma
la
guerra
(XXX
35)».
Riferimenti
bibliografici:
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die
alte
Geschichte,
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1977,
trad.
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bis
in
die
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