N. 109 - Gennaio 2017
(CXL)
riti di esecrazione nell’Egitto faraonico
Protezione magica
contro il caos
di Deliana Manetta
Un
mondo
in
pericolo
Per
i
suoi
antichi
abitanti,
l’Egitto
era
un
dono
offerto
dagli
dei,
il
cui
ordine
doveva
essere
preservato
giorno
dopo
giorno.
Oltre
i
confini
del
mondo
ordinato,
infatti,
le
forze
del
male
incombevano
e
mettevano
continuamente
a
repentaglio
la
Maat
(l’equilibrio
universale),
rischiando
che
il
caos
dilagasse
nella
terra
del
Nilo.
Non
si
trattava
soltanto
di
entità
soprannaturali;
anche
ogni
tentativo
politico
di
insorgere
o
arrecare
danno
al
faraone
e
all’Egitto,
perpetrato
da
avversari
umani
(gruppi
ribelli
di
egizi
o
popolazioni
straniere),
era
considerato
un
sovvertimento
dell’ordine
cosmico.
Su
larga
scala,
era
il
faraone,
ovviamente,
a
occuparsi
della
difesa
e
del
mantenimento
della
Maat,
ma
anche
nella
quotidianità
era
possibile
agire
contro
i
pericoli
ricorrendo
alla
magia
–
come
attestano
i
ritrovamenti
archeologici,
oltre
a
diversi
testi
magici;
di
essa
si
serviva,
soprattutto,
la
gente
comune
alla
quale
erano
precluse
le
liturgie
dei
templi
e le
grandi
cerimonie
di
stato.
I
riti
di
esecrazione
Un’azione
magica
spesso
messa
in
atto
come
misura
apotropaica
erano
i
cosiddetti
riti
di
esecrazione.
Tale
pratica
somigliava
a un
rito
voodoo,
poiché
consisteva
nell’annientare
il
nemico
- o
i
nemici
- in
questione,
danneggiando
un
particolare
oggetto
che
ne
fungeva
da
immagine
sostitutiva,
secondo
i
principi
della
magia
simpatica.
Affinché
il
rito
fosse
efficace,
l’oggetto-sostituto
doveva
essere
consacrato
e
collegato
al
destinatario
del
rito
tramite
la
recitazione
orale
di
specifiche
formule,
alla
quale
si
associava,
spesso,
la
scrittura
sull’oggetto
stesso
o
semplicemente
del
nome,
o di
testi
più
articolati
detti
“formule
di
ribellione”,
un
elenco
dettagliato
dell’identità
e
della
provenienza
dei
nemici
(egiziani,
stranieri
o
soprannaturali):
“Ogni
ribelle
di
questa
terra,
tutta
la
gente,
i
nobili,
i
plebei,
tutti
gli
uomini,
gli
eunuchi,
le
donne,
tutti
i
capi,
i
Nubiani,
gli
uomini
forti,
i
messaggeri,
i
confederati,
ogni
alleato
di
ogni
terra
[…]
che
si
ribellerà
o
complotterà
cospirando
o
tramando
contro
l’Alto
o il
Basso
Egitto
per
sempre.”
(Testo
di
esecrazione
da
Giza,
Antico
Regno).
I
testi
di
esecrazione
non
avevano
proprietà
magiche
in
sé,
poiché,
appunto,
servivano
solo
all’identificazione
del
nemico
con
l’oggetto
magico
del
rituale.
Era,
invece,
l’azione
– o
le
azioni
- di
distruzione
a
cui
tali
oggetti
erano
sottoposti
ad
attuare
l’effetto
desiderato:
l’oggetto
–
solitamente
in
argilla
o
cera
-,
poteva
essere
frantumato,
calpestato,
trapassato
con
spilli
o
chiodi,
bruciato,
seppellito
o
tutte
queste
azioni
insieme.
Così
facendo,
ci
si
augurava
che
il
nemico
subisse
la
stessa
sorte,
divenendo
del
tutto
inoffensivo.
Alcuni
tipi
di
azioni
magiche
Fra
i
vari
tipi
di
azioni
magiche,
una
presenza
standard
nei
contesti
di
esecrazione
erano
le
figurine
di
prigionieri
rappresentati
inginocchiati
e
con
le
mani
legate
dietro
la
schiena.
Queste
recano
la
formula
di
ribellione
iscritta
sul
torso
e,
spesso,
sono
ritrovati
trafitti
da
chiodi.
.
Fig.1
Figurina
inginocchiata
risalente
al
Medio
Regno,
recante
un
testo
di
esecrazione
in
ieratico
(Musées
Royaux
d’Art
et
d’Histoire,
Brussels).
.
Fig.2
Figurina
trafitta,
con
braccia
e
gambe
legate
dietro
la
schiena,
risalente
al
periodo
romano
(Musée
du
Louvre,
Paris).
Un
altro
tipo
di
azione
magica
era
chiamata
“rompere
i
vasi
rossi”
e
consisteva
nel
ridurre
in
frantumi
recipienti
in
argilla
rigorosamente
di
colore
rossastro,
su
cui
era
stata
preventivamente
riportata
la
formula
di
ribellione.
Il
simbolismo
dietro
tale
associazione
è
abbastanza
chiaro.
Il
colore
rosso
era
tradizionalmente
associato
al
dio
del
caos
Seth
e
alle
figure
demoniache,
in
generale;
i
capelli
o la
carnagione
rossa
erano,
pertanto,
caratteristiche
che
gli
Egizi
consideravano
proprie
dei
nemici.
.
Fig.3
Frammenti
ceramici
con
iscrizione
in
ieratico,
risalenti
al
Medio
Regno
(Staatliche
Museen
zu
Berlin).
Anche
alcuni
animali
potevano
fungere
da
immagine
del
nemico,
in
particolare
bestie
selvagge
(ad
esempio
il
toro,
l’orice
o
l’ippopotamo),
che
per
la
loro
natura
erano
solitamente
considerati
simboli
delle
forze
del
caos
e
delle
entità
malvagie.
In
questi
casi,
il
rito
prendeva
la
forma
del
sacrificio
e,
generalmente,
aveva
una
collocazione
templare.
Il
caso
di
Mirgissa
L’annientamento
del
nemico
era,
ovviamente,
simbolico,
ma è
noto
un
caso
in
cui
il
rito
ebbe
esiti
tutt’altro
che
metaforici.
Si
tratta
di
un
interessante
deposito
rituale
rinvenuto
–
indisturbato
-
nella
località
di
Mirgissa,
presso
la
seconda
cateratta
del
Nilo,
nell’attuale
Sudan.
Il
sito
aveva
ospitato
una
fortezza
egizia
risalente
al
Medio
Regno
(XXI-XVII
secolo
a.C.)
(una
delle
tante
in
quest’area),
usata
per
il
controllo
del
confine
con
la
zona
nubiana
e
dei
traffici
commerciali.
Allo
stesso
periodo
risale
il
deposito,
prodotto
della
sovrapposizione
nel
tempo
di
diverse
azioni
rituali
di
esecrazione.
Il
nucleo
più
consistente
è
costituito
da
cocci
ceramici
iscritti,
riconducibili
al
rito
del
“rompere
i
vasi
rossi”.
Erano
presenti
anche
quattro
statuine
in
calcare
iscritte,
raffiguranti
dei
prigionieri;
tutte
recavano
segni
di
colpi
intenzionali
inferti
sul
capo,
mentre
due
di
esse
erano
addirittura
in
frantumi;
le
statuine
erano
state,
poi,
sepolte,
ciascuna
orientata
verso
uno
dei
punti
cardinali,
in
segno
di
protezione
da
popoli
nemici
provenienti
da
qualsiasi
parte
del
mondo.
Una
vittima
umana
Il
ritrovamento
più
interessante
del
deposito
è,
però,
costituito
dai
resti
di
un
individuo
ucciso:
un
cranio
isolato,
deposto
sottosopra.
Nello
stesso
strato,
sono
state
individuate
le
tracce
delle
azioni
magiche
di
esecrazione
che
ne
hanno
accompagnato
la
deposizione:
resti
di
cera
colorata
con
ocra
rossa
sono
ciò
che
rimane
di
figurine
date
alle
fiamme;
un
recipiente
in
ceramica
rossa
iscritto
e
ridotto
intenzionalmente
in
frantumi
indica
che
fu
ripetuto
il
rito
del
“rompere
i
vasi
rossi”;
accanto
a
quest’ultimo,
si
trovava,
inoltre,
una
lama
in
selce,
probabilmente
la
stessa
impiegata
per
l’uccisione.
Lo
scheletro
al
quale
il
cranio
apparteneva
fu
ritrovato
non
lontano
dal
deposito,
decapitato
e
disarticolato.
L’esame
e
l’analisi
dei
reperti
ossei
hanno
rivelato
che
si
trattava
di
un
maschio
di
origine
nubiana.
Il
corpo
non
sembra
essere
stato
sottoposto
a
regolare
sepoltura,
ma
piuttosto
scartato
e
gettato
da
parte
senza
alcun
riguardo
– un
trattamento
che
gli
Egizi
non
avrebbero
mai
riservato
ai
loro
morti,
perché
l’integrità
della
salma
e la
sua
cura
erano
indispensabili
alla
resurrezione
dopo
la
morte.
La
posizione
stessa
del
cranio
aveva
un
preciso
significato:
la
decapitazione
e il
capovolgimento,
come
descritto
spesso
nei
testi
funerari
egizi,
erano
ritenuti
atroci
condizioni
che
avrebbero
condannato
il
defunto
all’eterna
dannazione
nell’oscurità,
alla
perdita
di
controllo
e al
totale
capovolgimento
delle
normali
funzioni
fisiologiche
e,
addirittura,
alla
morte
definitiva
–
l’annullamento
totale
dello
spirito
del
defunto.
Al
Nubiano
del
deposito
fu,
in
pratica,
negata
la
possibilità
di
una
vita
nell’aldilà.
Perché
gli
fu
riservata
una
sorte
tanto
spietata?
.
Fig.
4
Il
cranio
della
vittima
del
rituale.
La
realtà
dietro
il
simbolo
Date
le
circostanze,
sembra
inequivocabile
che
si
sia
trattato
della
vittima
di
un’uccisione
rituale,
controparte
umana
delle
figurine
e
dei
cocci
frantumati
nel
deposito.
Rituale
e
realtà
coincidono,
poiché
una
vittima
umana
ha
ricevuto
il
trattamento
solitamente
inflitto
alle
immagini
rituali.
Si
tratta
di
uno
scenario
pressoché
unico
nel
panorama
magico
-
religioso
dell’antico
Egitto.
Esso
era
coerentemente
inserito
in
un
preciso
contesto
geografico
e
storico:
si
può,
infatti,
facilmente
immaginare
che,
in
una
zona
di
frontiera
come
Mirgissa,
il
senso
di
minaccia
e di
pericolo
fosse
particolarmente
sentito;
il
rituale
di
esecrazione
si
affiancava
alle
normali
azioni
di
difesa
e
controllo
del
confine,
come
ulteriore
– e
superiore
-
forma
di
prevenzione
contro
eventuali
attacchi
o
ribellioni
dalla
Nubia.
È,
anzi,
molto
probabile
che
l’individuo
del
deposito
sia
stato
proprio
un
ribelle
- o,
comunque,
un
trasgressore
delle
restrittive
disposizioni
egiziane
in
merito
al
transito
attraverso
il
confine
-
fatto
prigioniero
e
condannato
a
morte.
La
sua
esecuzione
divenne,
pertanto,
l’occasione
per
la
realizzazione
ad
hoc
di
un
rituale
di
esecrazione.