IL RINASCIMENTO CONTRO LE DONNE
MISOGINIA E ANTIFEMMINISMO
di Marco Fossati
Il Medioevo è considerato il periodo più
oscuro della storia europea tanto che
l’aggettivo “medievale” è diventato
sinonimo di negatività; al contrario se
si parla di Età moderna o Rinascimento
si evoca automaticamente un periodo
positivo e dinamico. Una ricerca storica
più approfondita ha dimostrato come tali
concezioni (e periodizzazioni), sebbene
abbiano un fondo di verità, debbano
essere comunque ridimensionate.
Un esempio viene offerto dalla
cosiddetta storia di genere, più
precisamente dalla storia delle donne.
«A volte il pensiero progressivo,
soprattutto negli studi sulla condizione
femminile tende a immaginare
un’ininterrotta evoluzione dei diritti
delle donne che approda felicemente al
suo più alto grado nella società
occidentale contemporanea» (Lazzari
2010).
In realtà la condizione femminile nel
corso dei secoli non ha avuto un
percorso lineare; vi furono sviluppi
positivi in alcuni periodi e sensibili
arretramenti in altri: il lasso di tempo
che contraddistingue il cosiddetto
Rinascimento (secoli XIV-XVI) ricade
sicuramente tra i periodi meno positivi.
Non a caso nel 1977 la storica
statunitense Joan Kelly, pubblicò un
saggio il cui titolo poneva una domanda
provocatoria: «Le donne hanno avuto un
Rinascimento?».
La risposta fu negativa; ovvero se le
donne hanno avuto un “rinascimento”,
inteso come miglioramento della propria
condizione all’interno della società
questo, secondo Kelly, non è avvenuto
nei secoli rinascimentali. Certo se si
guarda alla storia politica non si può
negare che vi furono in quell’epoca
figure femminili decisamente importanti,
ma non si deve commettere l’errore di
giudicare la situazione delle donne del
tempo prendendo esempio da qualche
sovrana, nobildonna o scrittrice. Queste
furono delle «donne-alibi» che hanno
indotto a parlare di parità tra i sessi
e, soprattutto, «hanno nascosto la
condizione reale dell’immensa
maggioranza delle donne dell’epoca. La
promozione di alcune fra loro non
significò assolutamente un’emancipazione
globale» (Delumeau 1979).
Secondo la psicanalisi, l’ostilità tra
le due componenti del genere umano è
sempre esistita; alla base di ciò vi
sarebbe un impulso inconscio sulle cui
cause esiste un ampio dibattito. È certo
che tale condizione sia stata
influenzata dall’atavica paura dell’uomo
nei confronti dell’altro sesso. Una
paura che nasce anch’essa da vari
fattori tra i quali la maternità è forse
il principale. In passato era un evento
avvolto nel mistero e pertanto, sin
dalle epoche più remote, fonte di
inquietudini, miti, riti e tabù. Inoltre
l’attrazione esercitata dalla donna
(fisica ma soprattutto psicologica) è
sempre stata vissuta dall’uomo come una
minaccia alle proprie facoltà mentali e
una limitazione alle, secondo lui
superiori, qualità fisiche.
Alcuni storici hanno ipotizzato che
nelle società preistoriche, esistesse
una relativa parità di genere e fosse
largamente diffuso il matriarcato;
quella struttura sociale in cui eredità
e potere si trasmettono attraverso la
linea materna e pertanto le donne godono
di diritti e privilegi che bilanciano
quelli maschili. La crescente
conflittualità tra i gruppi umani, il
sempre maggior ricorso alla guerra e
alla violenza, con il prevalere di
qualità particolari come la forza
fisica, pare abbiano lentamente
costretto il genere femminile in una
posizione di inferiorità sociale.
Sebbene tale tesi sia stata più volte
contestata è evidente come la donna, nel
corso dei secoli, sia sempre stata
relegata ai margini della società (salvo
rari casi tipo l’Antico Egitto e alcune
civiltà mediterranee), in una condizione
di soggezione o sottomissione, nei
confronti dell’uomo.
Aristotele (384-322 a.C.), uno dei
principali pensatori del mondo antico,
rielaborando le speculazioni filosofiche
e scientifiche del suo tempo, sostenne
la cosiddetta teoria emogenetica per cui
la donna è l’elemento passivo nella
generazione della specie umana. Nel
trattato filosofico-naturalistico,
Generazione degli animali,
affermava: «La femmina è un maschio
mancato»; ovvero un difetto della natura
utile per la riproduzione della specie.
Mentre nel saggio Parti degli animali,
scriveva: «Tra gli animali, l’uomo ha il
cervello più grande in rapporto alle sue
dimensioni; tra gli uomini i maschi
l’hanno più grande delle femmine».
Teorie ovviamente frutto di scarse
conoscenze, ma anche di un radicato
sentimento di avversione verso l’altro
sesso, che diventarono comunque il
paradigma scientifico dell’antichità. Di
conseguenza la presunta inferiorità
intellettuale e fisica delle donne ne
comporta la totale esclusione dalla vita
sociale, politica e religiosa. Una
condizione di "apartheid" e
sottomissione che rimase più o meno
immutata fino al Medioevo.
Anche la diffusione del Cristianesimo
non modificò molto la situazione.
Nonostante nei Vangeli, per quanto
riguarda la parità di genere, vi siano
aspetti rivoluzionari, saranno proprio i
pensatori cristiani a porre le basi per
la misoginia dei secoli successivi.
Già nell’opera di San Paolo (I secolo
d.C), che riflette la cultura greco
romana, si trovano alcuni passaggi
chiaramente antifemministi (che verranno
in seguito fin troppo enfatizzati) come
nella Prima lettera ai Corinzi: «Né
l’uomo fu creato per la donna, ma la
donna per l’uomo»; o il famoso passaggio
della lettera agli Efesini: «Le mogli
siano sottomesse ai mariti come al
Signore [...] siano soggette ai loro
mariti in tutto».
Nei secoli successivi i toni saranno
molto più espliciti e duri. Tertulliano
agli inizi del III secolo si rivolge
così alle donne: «Non sai che anche tu
sei Eva [...] tu sei la porta del
diavolo. Tu hai toccato l’albero di
Satana e sei stata la prima a violare la
legge divina». Mentre Sant’Ambrogio (IV
secolo) afferma: «È stata la donna
autrice del peccato per l’uomo, e non
l’uomo per la donna».
Queste sono solo alcune delle fonti
sulle quali si basa la vasta produzione
filosofico-letteraria dei secoli
medievali, dove la donna è descritta
come incline al peccato (accomunata a
Eva), pertanto guardata con diffidenza e
sospetto. Bisogna però ricordare come
tale produzione fosse in gran parte
opera di religiosi, a uso e consumo di
altri religiosi; ovvero si rivolgeva a
un ambiente particolare ed
essenzialmente chiuso. Tant’è che tra V
e X secolo tali considerazioni ebbero
uno scarso impatto nella società.
Inoltre, dallo stesso ambiente
ecclesiastico provenivano atteggiamenti
in un certo senso contraddittori. Ad
esempio nelle parole di Sant’Agostino
(354-430): «Dalla donna la morte, dalla
donna la vita». Soprattutto
nell’esaltazione della figura di Maria
come in San Gerolamo (V secolo): «Morte
da Eva, vita da Maria».
Infatti il pensiero cristiano prevedeva
per le donne la possibilità di
riscattare la loro condizione attraverso
la vita religiosa e la consacrazione a
Dio (la Madonna ne era il riferimento
ideale). Aspetto importante nei primi
secoli medievali, dato che il convento
offriva la possibilità di uscire dalla
famiglia, evitando il matrimonio e una
relativa indipendenza seppur all’interno
delle strutture religiose; la
possibilità, inoltre, di ricevere
un’educazione di alto livello.
Molti monasteri femminili, almeno fino
al XI secolo, furono rinomati centri
culturali. In questo periodo, la ormai
secolare convivenza con la tradizione
nordica delle popolazioni barbariche,
dove la considerazione della donna era
molto meno negativa, contribuì a
sensibili innovazioni. Sono numerose le
leggi che pur nel contesto di una
società a prevalenza maschile, tentarono
di migliorare alcuni aspetti della vita
materiale femminile.
A partire dal 543 con le leggi di
Giustiniano si iniziano a prendere in
considerazione, per quanto riguarda il
diritto ereditario, anche la linea di
discendenza femminile; «La parentela
giuridica non era più solo quella che
derivava dal padre e dai suoi ascendenti
ma anche quella che legava i nuovi nati
alla madre e al suo gruppo familiare
d’origine» (Lazzari 2010). Nei domini
longobardi comparvero norme che
tutelavano le donne dalle molestie
sessuali e offrivano, in alcuni casi, la
possibilità di sciogliere il vincolo
matrimoniale. Nei regni visigoti si
tentò di porre un freno alla pratica
delle spose bambine e dei matrimoni
combinati.
Nel IX secolo la riforma scolastica
introdotta dai Carolingi in gran parte
dell’Europa, consentiva anche alle
ragazze (almeno quelle delle classi
sociali più elevate) un più facile
accesso all’istruzione. Per quanto
riguarda il lavoro, specie tra le classi
sociali inferiori e nell’ambito di
un’economia di sussistenza, le donne non
sembravano avere, pur con mansioni
diverse, particolari restrizioni. Non
godevano però di libertà giuridica e
dovevano essere sotto la tutela di un
uomo (marito, padre o autorità locale).
Condizione simile a quella dei servi e
dei semiliberi; situazione che dipendeva
solo in parte dal genere dato che era
conseguenza del complicato sistema di
rapporti e legami consuetudinari, che
caratterizzava la società feudale.
Nei secoli alto medievali quindi vi
furono dei segnali (seppur minimi) di un
relativo miglioramento della condizione
femminile. Il quadro, però, cambia
sensibilmente intorno al XII secolo
quando, nella società europea, iniziano
una serie di trasformazioni che
interessano le principali istituzioni
dell’epoca. Se da un lato l’Impero perde
il suo potere sul territorio (in
sostanza un processo di svuotamento),
dall’altro lato la Chiesa, subisce una
trasformazione opposta. Essa rafforza in
modo spropositato la propria funzione di
guida politico-sociale plasmando, in
pratica, la società a sua immagine. Non
a caso in questo periodo si inizia a
usare il termine Cristianità per
indicare l’Europa centro-occidentale;
un’idea essenzialmente religiosa che
condiziona ovviamente l’immaginario
collettivo. In questo modo teorie e idee
ma anche inquietudini e ossessioni delle
autorità ecclesiastiche, si diffondono
all’intera società.
L’aspetto religioso portato al
parossismo provoca una visione
dualistica del mondo, ovvero una
contrapposizione tra bene e male. Se il
bene è la Cristianità, il male,
l’avversario, è chi si oppone a essa.
Pertanto la donna che per secoli nelle
speculazioni dei teologi è stata
accomunata al peccato quindi al male,
diventa automaticamente non solo nemica
della Chiesa ma dell’intera società. In
definitiva tale processo ebbe una
precisa conseguenza: «Ciò che nell’ Alto
Medioevo era argomento monastico è
diventato in seguito, per l’allargarsi
progressivo dell’uditorio, avvertimento
spaventato a uso di tutti i cattolici,
che furono invitati a confondere vita
dei chierici e vita dei laici,
sessualità e peccato, Eva e Satana»
(Delumeau 1979). Senza dimenticare che
intorno al XII secolo viene riscoperta
la filosofia greca, in particolare
l’opera di Aristotele; adattata da
Tommaso d’Acquino al pensiero cristiano
contribuisce di fatto a formare il
modello scientifico dell’Occidente.
Pertanto anche le teorie antifemministe
dell’antichità si ripropongono come
rispettate tesi scientifiche.
Non è un caso che proprio negli ultimi
secoli medievali si assista a una
crescente discriminazione nei confronti
delle donne. Ad esempio nel XIII secolo,
con l’emergere delle Corporazioni, in
un’economia sempre più orientata verso
un sistema precapitalista, iniziarono i
primi provvedimenti tesi a limitare il
lavoro femminile. Tant’è che dopo il XIV
secolo, le donne impiegate nelle
organizzazioni artigiane e commerciali,
diventarono un’esigua minoranza. In
ambito ecclesiastico i monasteri
femminili persero il loro potere sul
territorio a seguito di norme come
l’istituzione della clausura, del 1298 e
videro ridotto anche il loro prestigio
culturale a scapito delle Università.
Queste ultime, dominate dai chierici,
erano proibite alle donne, che non
potevano né insegnare né predicare (in
base all’interpretazione di un passo
dell’opera di San Paolo).
Provvedimenti discriminatori e
oppressivi, si moltiplicano in tutta
Europa; imposti sia dalle autorità
religiose che da quelle civili. Ad
esempio, in Francia, nel corso del XIV
secolo si fissarono le norme che
impedivano alle donne di regnare e
vietavano di trasmettere la corona per
via ereditaria femminile. Sempre in
Francia un regio decreto del 1556,
obbligava le ragazze nubili a denunciare
le gravidanze alle autorità e, in caso
di decesso del bambino prima del
battesimo, si prevedeva la pena di morte
per la madre che non aveva seguito tale
obbligo.
Leggi analoghe furono introdotte nei
regni inglesi e in gran parte degli
stati tedeschi. Il re d’Inghilterra
Enrico VIII nel 1543 proibì la lettura
della Bibbia a tutte le donne, escluse
quelle appartenenti alla nobiltà che
comunque potevano leggerla solo in
privato e non ad altre persone. In
Italia dopo il Concilio di Trento, nel
1563, era proibito in tutti i monasteri
femminili suonare strumenti musicali
tranne l’organo, con la seguente
motivazione: «Poiché la musica è
sommamente dannosa per la modestia che è
propria del sesso femminile». Tant’è che
nel Seicento, alle donne in generale fu
proibito ricevere un’educazione musicale
da parte di un uomo.
Nel 1580 nell’Elettorato di Sassonia, la
metà delle parrocchie avevano
autorizzato scuole di lingua tedesca per
maschi, solo il 10% le aveva autorizzate
per le femmine. Comunque, oltre alle
evidenze delle molte discriminazioni di
genere c’è un fenomeno molto più
inquietante che ha caratterizzato la
prima età moderna europea: la cosiddetta
caccia alle streghe.
Sul sorgere delle credenze circa magia e
stregoneria, soprattutto sulla sua
repressione, influirono numerosi
fattori, ma quello che qui interessa
sottolineare è come tutto ciò abbia
interessato soprattutto le donne. Alcune
statistiche circa la distribuzione per
sesso degli accusati di stregoneria
nell’Europa centro occidentale,
evidenzia come la percentuale delle
donne coinvolte oscillasse, da una
regione all’altra, tra il 60% e il 90%
sul totale delle persone processate.
«Poiché la paura della donna –
considerata la metà sovversiva
dell’umanità – aveva avuto il suo
culmine in Occidente, agli inizi dei
tempi moderni, non c’è da meravigliarsi
se la caccia alle streghe assunse allora
una violenza stupefacente» (Dolumeau
1979).
Per quanto riguarda la repressione il
testo di riferimento fu il famigerato
Malleus Maleficarum (Martello
delle streghe). Scritto da due
monaci domenicani, venne pubblicato in
Germania nel 1486 e, fino al Seicento,
ebbe decine di riedizioni in tutta
Europa. Nell’opera l’avversione per il
genere femminile è ampiamente diffusa:
«Una donna, quando pensa da sola, pensa
cose malvagie. [...] Se non ci fosse la
malizia delle donne, [...] il mondo
sarebbe liberato di innumerevoli
pericoli. [...] È più amara della morte,
vuol dire che è più amara del diavolo;
[...] la morte è naturale e uccide solo
il corpo, ma il peccato che è cominciato
con la donna uccide l’anima».
L’associazione donna-strega fu quasi
naturale e la caccia alle streghe
divenne in pratica un’arma di genere.
Tutto ciò non poteva essere causato solo
dalla paura della donna; c’era anche
l’avversione e il disprezzo (misoginia),
estremamente diffusi in ogni ambito
della società. Ad esempio uno dei
principali filosofi del Cinquecento,
Jean Bodin (1523-1523), in merito alla
diffusione della stregoneria fra le
donne scrive: «Ciò accade, a mio avviso,
non per la fragilità del sesso [...] è
la forza della cupidigia bestiale ad
aver ridotto la donna agli estremi [...]
e sembra per questo motivo che Platone
metta la donna fra l’uomo e la bestia
bruta [...] le teste degli uomini sono
più grosse di molto, e di conseguenza
essi hanno più cervello e prudenza delle
donne».
Sulla scarsa considerazione del genere
femminile si può trovare un riscontro
esemplare anche ne Il Principe
(1513) di Machiavelli il quale,
trattando il tema della Fortuna,
afferma: «Perché la Fortuna è donna; et
è necessario, volendola tenere sotto,
batterla et urtarla».
Anche tra gli uomini di legge le idee
erano simili. Nel 1632 il Consigliere di
Stato francese, Le Bret, affermava:
«L’esclusione delle donne e dei maschi
discendenti in linea femminile è
conforme alla legge di natura, la quale,
avendo creato la donna imperfetta debole
e fragile, tanto fisicamente che
spiritualmente, l’ha sottomessa alla
potenza dell’uomo». Sulla stessa linea
il cardinale Richelieu (1585-1642):
«Bisogna ammettere che, dal momento che
il mondo è stato perduto per colpa di
una donna, nulla è più capace di nuocere
agli Stati di questo sesso».
In campo medico-scientifico
l’atteggiamento e le conoscenze, erano
conformi alle teorie aristoteliche;
pertanto il medico personale di Enrico
III di Francia, Laurent Joubert, nel
1578 poteva tranquillamente sostenere
che: «Il maschio è più degno, eccellente
e perfetto della femmina [...] la quale
è come un difetto, quando non si può far
meglio». L’intellettuale e politico
Thomas Smyth, nel saggio dedicato alla
società e alle istituzioni inglesi,
De Republica Anglorum (1583), in
merito alle donne, sentenziava in modo
netto: «La natura le ha create perché si
occupino del focolare [...] e non perché
si occupino delle funzioni in una città
o in una comunità nazionale». Mentre un
secolo dopo, in un trattato sul diritto
artigiano molto diffuso in Germania, il
giurista Adrien Beier, scriveva:
«Normalmente nessuna donna può
esercitare un mestiere anche se ha le
stesse capacità dell’uomo».
Si può affermare pertanto, che il
periodo compreso tra XIV e XVII secolo,
non fu particolarmente positivo per
quanto riguarda la condizione femminile.
Ma oltre alla discriminazione (sebbene
in alcuni luoghi vi furono provvedimenti
che attenuavano tale situazione) quello
che colpisce maggiormente è proprio la
misoginia; forse mai così radicata e
diffusa come in questo periodo. Un
aspetto di cui si accorsero anche i
contemporanei. Christine de Pizan, una
delle poche scrittrici che riuscirono ad
affermarsi nel Rinascimento, nell’opera
Cité des Dames (1405), oltre a
interrogarsi sulla natura della donna si
chiedeva il perché suscitasse tale odio.
Domande che in molti iniziarono a porsi
tant’è che dal XV secolo si diffusero
numerosi saggi aventi come oggetto la
donna e il suo ruolo nella società
(quella che più tardi verrà chiamata
"querelle des femme", disputa sulle
donne o dei sessi).
In pratica, grazie alla diffusione della
stampa, si contrapposero le tesi
misogine e antifemministe di quanti
continuavano a sostenere l’inferiorità
naturale e l’inadeguatezza del sesso
femminile, a coloro che iniziavano a
pensare in modo opposto e quindi
introducevano i primi concetti relativi
alla parità di genere. Una prosecuzione
di quella critica che aveva già
interessato (in ambito umanistico) il
filone letterario del cosiddetto amor
cortese il quale, se in teoria esaltava
la donna, in pratica ne proponeva un
modello stereotipato, modellato
sull’immaginario maschile; diffondendo
oltretutto opere dal contenuto misogino
come il Roman de la Rose (1280)
di Jean De Meun.
È nel Cinquecento comunque che la
querelle ha il suo apice con opere
violente contro le donne come: De
legibus connubialibus (1513) del
giurista francese Tiraqueau; Il primo
squillo di tromba contro la mostruosa
moltitudine delle donne (1558), del
riformatore scozzese John Knox, fino
alla Disputatio nova contra mulieres,
pubblicata anonima nel 1595, dai
contenuti talmente forti da essere messa
all’Indice anche dalla Chiesa cattolica.
Nel corso del secolo però iniziarono a
moltiplicarsi i saggi a favore del
genere femminile: Della eccellenza et
dignità della donna (1525), del
politico milanese Galeazzo Flavio Capra;
De nobilitate et praecellentia
foeminei sexus (1529), del filosofo
tedesco Cornelius Agrippa; La
Parfaite Amie (1542), dello
scrittore francese Antoine Heroet.
Nel secolo successivo inizia inoltre una
difesa di genere da parte delle stesse
donne; ebbero notevole diffusione le
opere delle scrittrici veneziane
Moderata Fonte, Lucrezia Marinelli,
Angela Tarabotti e il breve saggio:
Egalite des hommes et des femmes,
dell’intellettuale francese Marie de
Gournay, del 1622.
In conclusione, proprio l’aver
individuato l’esistenza di un problema
sui rapporti di genere all’interno della
società è forse l’unico aspetto positivo
(seppur fondamentale) per quanto
riguarda la condizione femminile nel
periodo rinascimentale. Tema che sarà
lasciato in eredità ai secoli successivi
dove lentamente verrà preso in maggiore
considerazione (non solo sul piano
teorico), sebbene per la sua, parziale,
risoluzione bisognerà attendere il XX
secolo.
Riferimenti bibliografici:
J. Delumeau, La paura in Occidente, SEI
- Società Editrice Internazionale,
Milano 1979;
T. Lazzari, Le donne nell’Alto Medioevo,
Mondadori, Milano 2010;
M. Wiesner, Le donne nell’Europa
moderna, Einaudi, Torino 2003.