N. 65 - Maggio 2013
(XCVI)
SULLA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE
BREVI RIFLESSIONI
di Massimo Manzo
[Il
tema
della
riforma
costituzionale
sembra
essere
rientrato
prepotentemente
nell’agenda
politica
italiana.
La
nascita
di
un
esecutivo
di
larghe
intese
che
abbraccia
due
tra
i
poli
principali
presenti
in
Parlamento
ha
fornito
l’occasione
di
ritornare
su
un
argomento
spinoso,
sempre
discusso
e
mai
compiutamente
risolto.
A
sentire
fino
a
pochi
giorni
fa
molti
esponenti
della
maggioranza,
la
modifica
della
struttura
istituzionale
del
paese
costituirebbe
uno
degli
aspetti
ai
quali
sarà
legata
la
tenuta
dell’eterogenea
compagine
governativa.
Insomma
pare
che
il
fallimento
della
cosiddetta
“convenzione
per
le
riforme”
comporterebbe
inevitabilmente
una
crisi
del
governo.
In
questa
fase
da
destra
a
sinistra,
passando
per
il
centro,
sentiamo
solo
accorati
appelli
alla
necessità
che
si
apra
una
nuova
fase
costituente,
che
ponga
fine
al
lungo
periodo
di
divisioni
vissuto
fino
ad
oggi
approdando
ad
un
compiuto
disegno
costituzionale
largamente
condiviso.
Se
sulle
buone
intenzioni
sono
tutti
concordi,
nello
specifico
l’impresa
appare
però
ardua,
se
non
impossibile.
L’ostacolo
principale
risiede
nella
profonda
precarietà
dell’attuale
convergenza
politica,
dettata
più
dall’emergenza
economica
che
da
un
reale
progetto
riformatore.
A
complicare
il
quadro
c’è
poi
la
crisi
dei
partiti,
spesso
incapaci
persino
al
loro
interno
di
trovare
una
linea
d’azione
comune.
Nel
corso
della
storia
repubblicana,
al
di
la
degli
interventi
parziali
(come
la
revisione
del
Titolo
V
adottata
dal
centrosinistra
nel
2001
o la
riscrittura
della
Parte
II
attuata
dal
centrodestra
e
bocciata
con
un
referendum
nel
2006)
ci
sono
stati
almeno
tre
tentativi
di
correggere
il
testo
costituzionale,
succedutisi
a
partire
dagli
anni
80.
I
motivi
che
hanno
spinto
a
questi
esperimenti,
pur
in
contesti
politici
diversi,
sono
sostanzialmente
identici
e
riguardano
l’inefficienza
dei
meccanismi
istituzionali
rispetto
alla
recente
evoluzione
del
paese.
In
sostanza,
i
costituenti
idearono
un
sistema
di
pesi
e
contrappesi
che,
se
andava
benissimo
all’indomani
della
seconda
guerra
mondiale,
a
distanza
di
decenni
ha
mostrato
delle
storture.
Un
esempio
classico
è
quello
del
cosiddetto
bicameralismo
paritario,
in
base
al
quale
i
due
rami
del
Parlamento,
pur
eletti
in
modo
diverso
(la
Camera
dei
deputati
su
base
nazionale
e il
Senato
su
base
regionale)
hanno
identici
poteri
e
prerogative,
che
li
portano
a
diventare
una
sorta
di
doppioni.
Tale
previsione,
pensata
per
favorire
l’approvazione
di
leggi
il
più
possibile
ponderate
(dato
che
uno
stesso
provvedimento
deve
essere
approvato
nella
stessa
forma
sia
alla
Camera
che
al
Senato),
si è
alla
lunga
rivelato
inadeguato.
L’interminabile
ping
pong
a
cui
spesso
assistiamo
tra
i
due
rami
del
Parlamento
rende
spesso
impossibile
rispondere
con
celerità
a
esigenze
concrete
usando
il
procedimento
ordinario
di
approvazione
delle
leggi.
Di
ponderazione,
poi,
ce
n’è
ben
poca.
Ferma
restando
l’intangibilità
dei
Principi
fondamentali
della
Carta,
veri
e
propri
pilastri
ideali
del
nostro
ordinamento
democratico,
gli
sforzi
politici
si
sono
sempre
concentrati
sulla
seconda
parte
della
Costituzione,
cioè
quella
che
regola
l’organizzazione
e il
funzionamento
dello
Stato.
L’idea
di
creare
un
organismo
bipartisan
in
grado
di
elaborare
un
disegno
coerente
ha
portato
alla
nascita,
di
ben
tre
Commissioni
bicamerali.
La
prima
fu
quella
presieduta
dal
liberale
Aldo
Bozzi
dal
1983
al
1985;
la
seconda,
operativa
nel
biennio
1992/1994,
ebbe
come
presidenti
Ciriaco
De
Mita
e in
seguito
Nilde
Iotti;
la
terza
infine,
con
a
capo
Massimo
D’Alema,
naufragò
miseramente
nel
1998,
ad
un
anno
dalla
sua
costituzione.
Rileggendo
gli
atti
prodotti
dalle
tre
Commissioni
non
mancano
spunti
interessanti.
Numerosi
e
diversissimi
sono
i
suggerimenti
di
modifica
della
Carta,
molti
validi
anche
oggi.
Alcuni
riguardano
il
rimodellamento
di
alcune
prerogative
degli
organi
dello
Stato,
ma
non
modificano
in
modo
sostanziale
la
forma
di
governo;
altri
costruiscono
invece
un
sistema
totalmente
diverso
da
quello
odierno,
virando
ad
esempio
verso
il
semipresidenzialismo
(come
fece
la
terza
bicamerale).
Ulteriori
casi
attengono
alla
disciplina
dei
partiti
politici.
Negli
atti
della
Commissione
Bozzi
ad
esempio,
si
insiste
sulla
necessità
che
questi
siano
organizzati
in
strutture
interne
a
carattere
democratico.
Si
sarebbe
colmato
così
un
vero
e
proprio
vuoto
della
Costituzione,
che
li
considera
anacronisticamente
semplici
associazioni
private
prive
di
personalità
giuridica.
Una
previsione
che,
se
attuata
in
tempo,
avrebbe
forse
salvato
dal
suicidio
molti
partiti.
Insomma
alcune
idee
erano
ottime,
ma
più
che
un
mancato
accordo
sui
contenuti
è
stata
la
scarsa
tenuta
delle
alleanze
politiche
che
ha
reso
inutili
tutte
le
prove
di
cambiamento.
Spesso
inoltre,
la
riforma
è
stata
pensata
più
in
termini
di
politica
contingente
che
in
prospettiva.
La
storia
di
questi
tentativi
falliti
è
purtroppo
il
sintomo
più
evidente
della
debolezza
e
dell’immaturità
dell’intera
classe
politica
italiana,
che
non
ha
saputo
ripetere
lo
straordinario
momento
di
unità
del
1947.
In
quell’anno,
con
uno
sforzo
che
ha
del
miracoloso,
tradizioni
e
ideologie
politiche
opposte
riuscirono
a
trovare
una
sintesi
mettendo
per
una
volta
da
parte
le
differenze.
Allora,
la
volontà
di
dare
un
futuro
all’intero
paese
portò
a
risultati
eccezionali.
Se
manca
questa
sincera
ispirazione,
o
peggio
se è
solo
millantata,
qualsiasi
iniziativa
riformatrice
è
destinata
a
fallire.