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N. 54 - Giugno 2012 (LXXXV)

riflessioni sulla rivoluzione d'ottobre
uno sguardo sull'europa

di Giovanni Piglialarmi & Roberto Rota

 

Sono trascorsi più di novant’anni da quel 15 ottobre del 1917, quando la Russia Zarista cadde sotto la rivoluzione popolare guidata da Lenin, leader del partito bolscevico. Perché la Russia, prima di tutti gli altri stati, aveva dato inizio alla rivoluzione socialista?

 

Mentre su diversi fronti europei si combatteva il Primo Conflitto Mondiale, la politica imperialista di cui si era avvalsa la classe dirigente zarista stava crollando sotto i colpi della giustizia popolare, che per anni aveva subito angherie da una classe reale debole e, contemporaneamente, si stava facendo spazio un nuovo scenario politico che si sarebbe trasformato, poi, in uno dei più spietati totalitarismi del XX secolo: il comunismo sovietico.

 

Accanto ad Hitler, paradossalmente, molti sociologi hanno definito anche Lenin uno dei volti totalitari poiché alla casa dei Romanov, si sostituì la monografia del partito unico che sarà poi guidato dal sanguinario Stalin. A Lenin, sarà attribuita la colpa di aver dato inizio alla dittatura di una classe, o meglio di un partito.

 

Ma prima di approdare ad un’analisi della Russia rivoluzionaria e dei “capi” che la guidarono, è forse meglio chiarire cosa accadde in Europa. Nolte sostiene che “ […] è universalmente noto che il partito bolscevico, subito dopo la presa del potere nel novembre del 1917, chiamò i proletari e gli oppressi di tutto il mondo all’insurrezione contro il sistema capitalistico responsabile della guerra e non solo; gli specialisti sanno che il partito comunista di Germania, appena fondato nel 1919, si considerò proiettato nella più violenta guerra civile della storia mondiale […] Quando un forte gruppo esige la guerra civile, si determina in ogni caso una situazione di guerra civile, anche se non si verificano subito o continuamente lotte sanguinose […] ”. 

 

La Russia fu il focolaio delle rivoluzioni europee ispirate all’ideologia marxista dello Stato, e fu da queste rivoluzioni che si sviluppò uno dei periodi più drammatici della storia occidentale, la “Guerra Civile Europea”, che avrebbe insanguinato il continente fino al 1945.

 

La rivoluzione Russa per molti versi viene considerata una delle esperienze cruciali del XX secolo. E’ un dato di fatto, come sostiene Hobsbawn, poiché segna l’esperienza comunista e il ruolo principale che ha avuto la rivoluzione. Considerato che a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione degli stati che componevano la ormai ex Unione Sovietica segnò la fine del comunismo in parte europeo, resta ancora oggetto di interpretazione la stessa rivoluzione d’ottobre da parte della storiografia. Perché? 

 

La letteratura che ci parla di questa grande impresa, che barcolla tra illusioni e fede politica, è sterminata. Ma certamente gli “autorevoli” Trockij, Carr, Medvedev, Furet non sono stati dimenticati. Trockij fu uno dei primi a scrivere, tra il 1929 e il 1932, sul “dualismo dei poteri”, ovvero quello del governo provvisorio e quello dei soviet, volgarmente detti consigli di fabbrica. Una descrizione, quindi, risalente al periodo prima del 1917. 

 

Egli stesso sosteneva che la rivoluzione d’ottobre rappresentò, attraverso l’instaurazione del partito bolscevico al potere che rappresentava largamente i soviet, la soluzione politico-istituzionale che il governo provvisorio non era stato in grado di trovare. Dopo di lui, Carr, uno dei maggiori storici della rivoluzione russa fino al periodo staliniano, ha sempre sostenuto che la figura di Lenin all’interno del partito prima dell’ottobre, è considerata con ammirazione e vista come quella di un leader capace in termini teorici e pratici di dominare con successo una situazione ardua e complessa come quella del 1917, poiché si trattava di adattare i principi del marxismo ad una realtà non pronta.

 

Scrive Carr che “la rivoluzione russa fu anch’essa una rivoluzione di intellettuali; ma di intellettuali che non si limitavano ad ispirarsi al passato ma programmavano il futuro, che si proponevano non soltanto di fare una rivoluzione, ma anche di analizzare e preparare le condizioni in cui essa avrebbe potuto esser fatta.

 

E’ questo elemento di autocoscienza che dà alla rivoluzione russa il suo posto unico nella storia moderna”.  Medvedev, negli anni ’70, ha contribuito a rinnovare la riflessione storiografica sulla rivoluzione russa.  Egli analizza le scelte ideologico–politiche della classe dirigente del partito bolscevico che in termini teorici, secondo lo studioso, non avevano previsto la direzione e la modalità di attuazione della stessa rivoluzione.

 

Forse queste ultime furono date per scontate mostrandosi come punti deboli nell’applicare il conflitto permanente sociale. Per concludere, Furet, esempio di storico autorevole della Rivoluzione Francese, ex comunista approdato a posizioni liberali, sostiene in molte opere come i bolscevichi abbiano trovato il punto di approdo dell’ideologia rivoluzionaria in quella totalitaria propria dei giacobini francesi. “Il grande mito del potere onnipotente della volontà sulla storia, inaugurato dalla rivoluzione francese, afferma Furet, sarebbe stato anche alla radice della rivoluzione dell’ottobre russo e ne avrebbe motivato, con la sua astrattezza tutta intellettuale, gli sviluppi e le conseguenze.”

 

Qual è stata l’ossessione di chi ha sempre sostenuto un movimento rivoluzionario? Quella di esportarlo ed estenderlo, se non imporlo, il più possibile nei paesi dove la causa dello stesso si scontra con la realtà. E’ questo il messaggio di C. Hill, storico e marxista britannico. Nel 1943 l’internazionale comunista si sciolse e sembrò sfumare l’ultima possibilità di diffondere la rivoluzione comunista nel mondo.  Ma, nonostante tutto, la rivoluzione russa, anche dopo la morte di Lenin, anche dopo la caduta dell’Urss, ha sempre continuato ad esercitare un’influenza di rilievo.

 

Hill osserva che la Rivoluzione Francese, anche non essendo in possesso di un organo internazionale  come l’Internazionale Comunista, ha sempre influenzato i popoli in lotta di tutto il mondo. Lo stesso può valere per la rivoluzione russa, finché nel mondo ci saranno problematiche alle quali questa possa dare soluzioni e risposte. Ma quali sono le probabili, lontane influenze della rivoluzione bolscevica?

 

Hill sostiene che l’esperienza sovietica ha portato a quei popoli arretrati dell’Africa, dell’Asia e del Sud America (in questo caso si allinea anche con la tesi di Carr) un contributo per inserirsi nella civiltà moderna. In particolar modo sottolinea come le aziende collettive e i soviet abbiano avuto rilievo per attuare il principio dell’autogoverno per popoli agricoli come quelli dei continenti arretrati. L’Urss ha dimostrato, secondo Hill, che il socialismo può essere attuato anche nelle condizioni più svantaggiose e che l’esistenza di un partito unico che superi lo Stato (come il modello sovietico) rappresenti una possibile soluzione, nei paesi ad alto livello industriale, nel conflitto tra pianificazione economica e la libertà politica.

 

Hill, inoltre, sottolinea che la libertà assoluta di iniziativa privata è incompatibile con l’esigenza del cittadino medio di libertà dal bisogno e di libertà dalla paura. Lo storico vede nella rivoluzione russa anche un carattere dimostrativo, del “saper fare”, in quanto afferma chiaramente che la Russia ha dimostrato di saper essere governata anche da gente del popolo e non solo dai “migliori”. Dunque, è forse più importante una vittoria dell’Armata Rossa che non una ripetitiva comunicazione dell’Internazionale su come attuare la rivoluzione sociale. 

 

Riconosce, però, che l’applicazione del socialismo potrebbe essere differente da paese a paese. Hill ha più volte rimarcato il carattere saliente della rivoluzione russa: attraverso la sua diffusione, ha liberato i popoli oppressi dalle politiche coloniali e capitaliste e ha migliorato ogni aspetto della vita quotidiana, “poiché le popolazioni colpite da povertà e oppressione sono ancora la maggior parte del globo.”

 

Lenin, nel suo celebre saggio “L’Imperialismo fase suprema del capitalismo” pubblicato con il titolo saggio popolare, riflette sul momento di crisi che il capitalismo imperialista sta attraversando. Il testo è stato scritto ed indirizzato ad un pubblico vasto, in particolar modo ai  militanti dell’allora partito bolscevico. Lenin scrive in un periodo dove il conflitto mondiale, già sfatato il mito della sua breve durata (la cosiddetta guerra - lampo), si presenta come la guerra totale e risolutrice di un’intera epoca storica.

 

La tesi centrale dell’opera è la rivoluzione socialista ormai imminente in contrapposizione alla crisi delle politiche imperialiste adottate dai vari stati europei. Lenin vede in questa crisi il realizzarsi della rivoluzione auspicata tempo prima da Marx: un crollo del sistema dovuto alle contraddizioni evidenziate da filosofo tedesco. Vede, pertanto, nel conflitto mondiale l’inevitabile nonché drammatica attuazione della stessa. Il leader bolscevico riconosce che l’imperialismo, come le politiche coloniali, esistevano già da tempo.

 

Riporta l’esempio dell’antica Roma, anch’essa fondata sulla schiavitù, che condusse politiche coloniali per espandere il suo dominio. Del resto, anche come la grande “Britannia”.  Dopo un’attenta analisi sul percorso dell’imperialismo, ovvero del suo spirito nella storia, Lenin arriva ad indicare cinque punti che contrassegnino la definizione di imperialismo: il primo riguarda la concentrazione di produzione e di capitale che ha raggiunto un grado così alto da dar vita a monopoli accentrati nelle mani di pochi  in grado di controllare tutta l’economia; il secondo riguarda lo svantaggio di formazioni di oligarchie finanziarie dovute alla fusione di capitale industriale e capitale bancario; il terzo concerne l’esportazione più di capitali che di merci; il quarto riflette sulle associazioni capitalistiche, pericolose secondo Lenin perché in grado di “ripartirsi il mondo”; ed infine il quinto che riflette sulla ripartizione dei terreni tra le più grandi potenze capitalistiche.

 

Da questa elencazione di negatività che Lenin osserva e vede nel capitalismo, arriva alla conclusione che esso debba crollare in quanto fase di transizione verso la crisi e quindi fase ultima di un sistema economico inadatto alle esigenze sociali del tempo. Un’attenta osservazione sul fenomeno del presunto crollo del capitalismo potrebbe essere quella del sociologo Schumpeter che considerò l’imperialismo come “atavismo, ovvero un retaggio residuale di un passato pre-moderno che lo sviluppo e il progresso della contemporanea civiltà  capitalistica si incaricheranno nel tempo di annullare, assieme alla sua forma più distruttiva, irrazionale e violenta: la guerra.” 

 

  

Nel superamento della critica leninista, a cosa bisogna far spazio? Alla giusta, empirica e dimostrata critica al comunismo applicato. Il capitalismo, attraverso continue analisi economiche scientificamente provate, si è dimostrato un sistema economico che non arriverà forse all’autodistruzione tanto auspicata da Marx, ma è un sistema che non ha la capacità di restare in equilibrio per molto tempo. Da questo lato negativo emerge una positività: riesce in qualche modo, secondo le libere leggi del mercato a ritrovare la sua posizione di equilibrio, bilanciando così l’incontro tra domanda e offerta di mercato, rispetto ad un’economia pianificata come quella di un sistema economico di stampo comunista.

 

Lo stesso Carr, nonostante la sua appartenenza ad una politica ideologica comunista, afferma che “la rivoluzione russa fu fatta e salvata non da un classe, ma da un partito che si proclamava il rappresentante e l’avanguardia di una classe. Si trattò di una soluzione conforme alla tradizione rivoluzionaria russa. Ma, fatto ancor più importante, fu una soluzione che evidenziò la distanza percorsa dai tempi di Marx. Quest’ultimo sosteneva che la rivoluzione dovesse essere guidata da una classe economica e non da un partito.”

 

Questa riflessione ci porta, come evidente, ben lontano dal pensare che il comunismo sovietico fosse il comunismo pensato da Marx. Non solo. Dopo Lenin, l’obiettivo della rivoluzione Socialista è mutato poiché la svolta non fu più l’abbattimento finale del capitalismo da parte delle sue vittime proletarie nei paesi avanzati, ma l’abbattimento delle politiche coloniali da parte dei sottomessi nei paesi arretrati.

 

E' evidente che il significato di rivoluzione abbia acceso nei popoli un motivo per lottare ma non per giungere allo stesso fine. Le rivoluzioni di riferimento come quella francese e come quella russa, dunque, non hanno avuto la funzione di pensare il fine che essa portava, bensì hanno rappresentato il mezzo per poter giungere al fine più giusto in relazione alla condizione di un determinato popolo. Come ha sempre osservato un grande pensatore della scuola liberare austriaca, A.F. Von Hayek, la società non deve organizzarsi sui fini, bensì sui mezzi ad essa attinenti.



 

 

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