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N. 59 - Novembre 2012 (XC)

FORWARD
IL CORAGGIO DELL’AMERICA IN CRIsi

di Massimo Manzo

 

Nonostante i sondaggi, che fino alla vigilia del voto paventavano il rischio di un sostanziale pareggio tra i due candidati, le elezioni presidenziali americane hanno segnato il trionfo di Barack Obama, il quale è riuscito a prevalere anche negli Stati in cui l’esito sembrava giocarsi sul filo di lana.

La sua vittoria al termine di una durissima campagna elettorale conferma ancora una volta come gli americani, nei momenti difficili della loro storia, preferiscano andare coraggiosamente avanti piuttosto che cedere alle paure. “Questa sera, duecento anni dopo che una piccola colonia si è guadagnata il diritto di scegliere il proprio destino, il nostro cammino per il perfezionamento dell’Unione va avanti grazie a voi, che avete riaffermato lo spirito che ha vinto sulla depressione e la guerra, lo spirito che ha fatto rinascere questo paese dalle sue ceneri e ha riportato la speranza” ha affermato Obama nel suo primo esaltante discorso poco dopo la vittoria. E forse non è un caso che il Presidente abbia rievocato due eventi così traumatici per gli Stati Uniti, come la grande depressione del 1929 e la seconda guerra mondiale, per sottolineare lo spirito profondamente ottimista del suo popolo, che malgrado le mille inquietudini e i molti interrogativi reagisce sempre con decisione alle sfide del futuro.

Già nel 2008 era chiaro che Obama rappresentasse, per la sua storia personale, questo tipo di America. Tuttavia la sua riconferma alla Casa Bianca assume oggi un significato simbolico particolare. Alla luce delle immense difficoltà e degli innumerevoli sacrifici che la crisi economica ha imposto ai cittadini americani, la scelta di riconfermare Obama non significa più semplicemente (come nel 2008) credere ad un bellissimo sogno per reagire alla disastrosa presidenza Bush, ma essere consapevoli che quel sogno, per concretizzarsi, necessita di un’ulteriore sforzo da parte di tutti. In questo mix perfetto tra idealità e pragmatismo, gli americani hanno deciso di scommettere ancora una volta sul candidato democratico.

Non è stata una scelta facile, né è sicuro il successo delle future politiche del Presidente. Lo dimostrano chiaramente sia l’estrema indecisione dell’opinione pubblica durante la campagna elettorale che lo scetticismo di molti analisti nelle loro proiezioni sull’economia americana dei prossimi anni. È innegabile però che da questa scelta possiamo ricavare due lezioni importanti. Da un lato infatti, l’ampia partecipazione al voto (l’affluenza si è aggirata intorno al 62%, dato inferiore a quello del 2008 ma comunque altissimo rispetto alla media) soprattutto da parte delle categorie più deboli e quindi maggiormente colpite dalla crisi (ispanici, neri, donne) dimostra la maturità democratica degli americani e la sostanziale fiducia nella politica; dall’altro testimonia il buon funzionamento delle istituzioni democratiche, in grado di fornire al corpo elettorale un sistema politico credibile. Un indizio importante se confrontato con la situazione italiana, in cui l’estrema inaffidabilità della classe dirigente ha portato ad un grave scollamento tra opinione pubblica e istituzioni, foriero di astensionismo ed antipolitica “grillina”.

Osservando gli eventi dalla prospettiva repubblicana, la sconfitta di Romney segnerà l’inizio di un interessante dibattito interno al Grand Old Party, che probabilmente cesserà di schiacciarsi su posizioni ultra-conservatrici per aprirsi all’ala moderata, relegata ad un ruolo minoritario negli ultimi quindici anni. Tale corrente esiste e potrebbe influire favorevolmente sull’evoluzione futura del partito repubblicano, ad esempio promuovendo politiche progressiste o aprendo al dialogo con i giovani e le minoranze. Sono proprio queste ultime categorie a rappresentare un bacino di voti indispensabile per chiunque voglia vincere le elezioni dei prossimi anni. Le proiezioni parlano chiaro: il voto dei soli bianchi sarà sempre meno importante nel futuro, soprattutto se pensiamo ai livelli vertiginosi con cui crescono altri gruppi etnici, come gli ispanici. Presto quelle che oggi chiamiamo “minoranze” diverranno pesanti maggioranze negli U.S.A.

Attualmente sono i democratici a detenere saldamente il monopolio di tali voti. Obama ha infatti ottenuto percentuali eloquenti. Il 93% dell’elettorato afroamericano, intorno al 70% di quello latino e asiatico (oltre che la maggioranza delle donne) non ha avuto dubbi su quale inquilino scegliere per la Casa Bianca. Insomma, solo se i repubblicani saranno capaci di cambiare volto il loro partito potrà continuare a vivere, altrimenti è destinato a morte sicura. Di riflesso quindi, la vittoria di Obama accelera anche il confronto tra i repubblicani, che sarebbe stato invece congelato nel caso ad avere la meglio fosse stato Romney.

Attraverso un’operazione di rinnovamento simile a quella ora prospettata per il Grand Old Party, negli anni trenta Roosevelt riuscì ad includere saldamente nel suo elettorato le “minoranze” di allora (immigrati, sindacati e classe media) rinnovando il partito democratico dall’interno dopo anni di sconfitte. Se la storia si ripeterà, stavolta dall’altra parte, avremo un’ulteriore prova di come una democrazia efficiente indirizzi i partiti politici ad un continuo e sano rinnovamento.

In definitiva, c’è sempre da imparare qualcosa osservando gli Stati Uniti in occasione delle elezioni presidenziali. Soprattutto per chi, come noi italiani, sembra periodicamente incline ad assecondare movimenti populisti piuttosto che a scegliere coraggiosamente la strada più difficile.



 

 

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