N. 72 - Dicembre 2013
(CIII)
LA STORIA CHE SERVE, LA STORIA CHE VIVE
Ricordo di Silvio Lanaro
di Giuseppe Tramontana
Ora
la
storia
la
racconto
io
ai
miei
studenti.
E la
racconto
proprio
come
venne
proposta
da
Silvio
Lanaro,
in
un’aula
luminosa
del
Dipartimento
di
storia
dell’Università
di
Padova.
Andavo
a
trovarlo
di
tanto
in
tanto
e
quel
giorno
aspettavo
che
terminasse
la
lezione
per
proporgli
una
conferenza
su
Eugenio
Curiel
da
tenere
nel
nostro
liceo.
Siccome
era
sempre
un
grande
piacere
sentirlo,
entrai
nell’aula
discretamente
affollata
e mi
confusi
tra
gli
studenti
intenti
a
prendere
appunti.
Stava
parlando
della
Francia
all’indomani
della
fine
della
seconda
guerra
mondiale.
Non
so
da
dove
fosse
partito,
ma,
nel
momento
in
cui
cominciai
a
prestare
ascolto
stava
raccontando
della
caccia,da
parte
delle
nuove
autorità
democratiche,
ai
collaborazionisti,
cioè
a
coloro
che
per
paura,
opportunismo
convinzione,
si
erano
schierati
dalla
parte
dei
nazisti.
Le
cose
stavano
andando
come
dovevano
andare,
diceva
Lanaro.
E
per
alcuni
andavano
peggio
che
per
altri.
Così
attivisti,
propagandisti
e
militari
come
Pierre
Laval,
Joseph
Darnand,
Marcel
Bucard,
Fernand
de
Brinon
e
Paul
Chack
venivano
condannati
a
morte
e da
lì a
poco
fucilati.
Ma
non
tutti
facevano
questa
fine.
Altri
se
la
cavavano
con
condanne
a
vari
anni
di
prigione
o,
in
alcuni
casi,
all’esilio,
come,
ad
esempio
Abel
Bonnard.
Tra
i
collaborazionisti,
un
posto
tutto
particolare
ce
l’avevano
gli
scrittori,
gli
intellettuali.
Uno,
lo
storico
Jacques
Benoist-Méchin,
venne
condannato
a
morte,
ma
graziato
dal
presidente
Vincent
Auriol;
altri
due,
Henri
Béraud
e
Lucien
Rebatet,
vennero
graziati
dal
generale
De
Gaulle.
Uno
scrittore
condannato
a
morte
fu
Robert
Brasillach.
Era
bravo
Brasillach,
scriveva
bene,
aveva
persino
molto
seguito.
Ma
si
era
distinto
per
la
sua
verve
filofascista,
per
il
suo
impeto
antipartigiano,
insomma
era
stato
uno
zelante
collaborazionista
dei
tedeschi,
oltre
che
un
ostinato
e
crudele
antisemita.
Saputo
della
condanna,
gli
intellettuali
francesi
-
raccontava
Lanaro
– si
mobilitarono
per
chiederne
la
grazia
a De
Gaulle.
Molti
erano
cattolici
o di
sinistra,
tutti
antifascisti.
Lo
fecero
per
salvare
un
uomo
di
cultura,
anche
se
la
pensava
diversamente
da
loro:
il
solito,
nobile
richiamo
al
principio
del
“non
condivido
ciò
che
dici,
ma
darei
la
vita
affinché
tu
posa
dirlo”.
Così
gente
come
Georges
Bernanos,
Jean-Paul
Sartre,
Albert
Camus,
Simone
de
Beauvoir,
Maurice
Merleau-Ponty,
André
Malraux
si
mobilitò
e
scrisse
al
capo
del
governo,
cioè
a De
Gaulle.
Il
quale,
però,
non
ne
volle
sapere.
Anzi,
non
rispose
neppure.
Così
la
condanna
venne
eseguita
e
Brasillach
fucilato.
A
questo
punto,
tutti
cominciarono
a
chiedersi
il
perché.
Perché
De
Gaulle
non
aveva
risposto?
E
perché
aveva
negato
la
grazia
proprio
a
Brasillach,
quando
di
altri
–magari,
addirittura,più
compromessi
di
lui
–
l’aveva
concessa?
Il
generale
non
rispose.
E
non
risponderà
mai,
almeno
direttamente.
Per
avere
qualche
lume,
bisognerà
aspettare
la
pubblicazione
delle
Mémoires
de
guèrre,
nel
1959.
In
quelle
pagine,
ripercorrendo
quegli
anni
e
ritornando
sull’episodio
specifico
–
tra
l’altro,
senza
mai
pronunciare
il
nome
dello
scrittore
fucilato
- il
generale
rispose
che
la
fucilazione
“di
un
noto
intellettuale
collaborazionista”
era
stato
un
monito
per
tutti
gli
intellettuali
e,
in
generale,
per
tutti
gli
uomini
dotati
di
talento
giacché
“da
grandi
capacità
derivano
grandi
responsabilità”.
Lanaro
sorrise
in
quel
suo
solito
modo
sornione.
Non
so
se
sapesse
che
quella
frase
era
diventa
mitica
grazie
allo
zio
Ben,
lo
zio
dell’Uomo
ragno,
ma
si
intuiva
che
a
lui
piacesse
tanto.
Pronunciarla
e
condividerla.
Era
bravo
Silvio
Lanaro,
uno
dei
docenti
che
più
mi
hanno
dato
nel
corso
del
mio
apprendistato
universitario.
Ora
non
c’è
più:
è
morto
il
23
giugno
scorso.
Da
tempo
ammalato,
alla
fine
ha
ceduto.
Come
ha
scritto
Nicolò
Menniti
Ippolito,
sul
Mattino
di
Padova,
“se
si
pensa
alla
scuola
storica
padovana,
si
pensa
quasi
immediatamente
a
Silvio
Lanaro.
Perché
nell’Università
di
Padova
Lanaro
ha
studiato,
perché
qui
ha
insegnato,
prima
Storia
del
Risorgimento,
poi
Storia
Contemporanea,
perché
qui
ha
fatto
nascere
una
serie
di
studiosi
che
hanno
seguito
la
sua
lezione
ed
il
suo
metodo.”
Allievo
di
Federico
Seneca,
si
ritagliò
ben
presto
un’esperienza
di
studio
autonomo,
che
lo
portò
a
legare
intimamente
Ottocento
e
Novecento
italiani,
al
di
là
della
frattura
del
secolo.
Anzi,
in
alcune
discussioni,
insisteva
–
probabilmente
a
ragione
–
nell’individuare
l’inizio
del
Novecento
europeo
–
che
a
questo
punto,
con
buona
pace
di
Hobsbawm,
si
dovrebbe
chiamare
“secolo
lungo”,
come
propose
a
suo
tempo
anche
Giovanni
Arrighi
–
nell’affaire
Dreyfus,
nel
corso
del
quale
– di
nuovo!
–
assume
connotati
e
compiti
nuovi
la
figura
dell’intellettuale
impegnato.
Nato
a
Schio,
Vicenza,
nel
1942,
questa
sua
provenienza
ha
avuto
un
significato
profondo
nel
suo
lavoro
di
storico,
come
ricordano
i
suoi
allievi
in
Pensare
la
nazione,
il
libro
a
lui
dedicato
pubblicato
pochi
mesi
fa
da
Donzelli,
per
i
suoi
settant’anni.
Non
a
caso
il
suo
primo
grande
contributo
scientifico,
Società
e
ideologie
nel
veneto
rurale
(1866-1898),
pubblicato
nel
1976
per
i
Quaderni
delle
Edizioni
di
Storia
e
Letteratura
curati
da
Gabriele
De
Rosa,
era
dedicato
alle
peculiarità
di
un
modello
industriale
fortemente
radicato
nella
cultura
rurale
veneta.
Quel
primo
libro
fu
importantissimo
per
la
ripresa
degli
studi
storici
sul
Veneto:
“meditato,
elaborato,
documentatissimo”,
come
l’ha
ricordato
Mario
Isnenghi.
Qui,
Lanaro
andava
oltre
la
lettura
tradizionale,
convinto,
come
sempre
è
stato,
che
bisognasse
superare
i
fatti,
per
cercare
nelle
visioni
culturali
le
radici
profonde
delle
trasformazioni
storiche.
Ma
in
quel
primo
libro
era
contenuto
anche
un
altro
elemento
dominante
nel
pensiero
di
Lanaro:
una
sorta
di
centralità
del
Veneto
nella
Storia
d’Italia,
che
sembrava
allora
una
vera
e
propria
eresia.
Ma
era
anche
un
libro
di
scoperte
non
solo
contenutistiche,
ma
anche
metodologiche,
come
ricorda
sempre
Mario
Isnenghi:
“Scoperte
che
danno
vita
a
una
serie
di
espressioni,
di
formule
diventate
poi
di
uso
comune
come
’modello
veneto’,
‘fabbrica
diffusa’,
ma
anche
‘transizione
dolce’”.
Ed
invece
è
proprio
partendo
dagli
studi
sulla
realtà
veneta
tra
Ottocento
e
Novecento
che
Lanaro
è
andato
convincendosi
che
la
storia
dell’Italia
unita
andasse
ripensata
radicalmente,
a
partire
dai
limiti
di
un
liberalismo
mai
pienamente
adottato.
In
quell’anno,
il
1976,
Lanaro
cominciava
ad
insegnare
“Storia
del
Risorgimento”.
Ma
il
suo
Risorgimento
era
fatto
di
analisi
delle
ideologie.
Come
quelle
di
Fedele
Lampertico
o di
Paolo
Lioy,
figure
allora
considerate
marginali
ed
invece
“centrali
–
come
ha
scritto
Nicolò
Menniti
-
per
arrivare
a
quella
vera
e
propria
svolta
nella
storiografia
nazionale
che
è
rappresentata
da
Nazione
e
lavoro,
pubblicato
nel
1979”.
Con
questo
libro,
egli
accostava
due
termini
che
alla
fine
degli
anni
Settanta
sembravano
antitetici:
la
nazione
(cara
alla
Destra),
il
lavoro
(caro
alla
Sinistra),
ma
soprattutto
intravvedeva
nel
formarsi
del
primo
liberalismo
italiano
quella
stortura
che
avrebbe
portato
irrimediabilmente
al
fascismo.
Ipotizzava
una
storia
d’Italia
del
tutto
diversa
da
quella
della
narrazione
storiografica
ufficiale.
Bobbio
scrisse
che
era
un
libro
bellissimo
ma
interamente
sbagliato.
Gli
storici
liberali,
per
motivi
opposti,
reagirono
allo
stesso
modo.
Nel
libro,
con
un
grande
lavoro
di
cesellatura
e
intersezioni,
di
rimandi,
approfondimenti
ed
analisi,
trovano
posto
-
accanto
a
giganti
del
calibro
di
Croce,
Gobetti,
Dorso,
Sturzo,
Salvemini
e
Gramsci
–
uomini,
intellettuali,
meno
conosciuti,
ma
che
con
la
loro
azione
ed
il
loro
pensiero
contribuirono
a
creare
quella
cultura
borghese
che
fu
poi
l’intelaiatura
necessaria
per
costruire
e
strutturare
quella
modernità
pensata
come
“equipollenza
alla
nazione”
(Salvatore
Lupo).
Così
compaiono
personaggi
come
Leone
Carpi,
“ebreo
ferrarese,
proprietario
fondiario,
cospiratore
mazziniano,
economista,
agronomo,
statistico
e
sociologo
dilettante
di
singolarissimo
acume”
(ivi,
p.
22),
Corrado
Gini,
“padre
delle
scienze
sociali
italiane”,
artefice
di
un
“sistema
di
correlazioni
tra
demografia,
antropometria,
eugenetiche
sociologia
economica,istituite
e
rese
affidabili
ad
una
ad
una
-
nessuna
esclusa
–
dalle
‘certezze’
epistemologiche
racchiuse
nel
metodo
statistico”
(pp.
44-45),
Achille
Loria,
l’economista
para-marxista
maestro
di
generazioni
di
radicali.
Vi
compaiono
anche
Filippo
Carli,
Arturo
Labriola,
Paolo
Mantegazza,
Napoleone
Colajanni,
intellettuali
e
politici
di
primo
e
secondo
piano.
“Lanaro
– ha
scritto
Salvatore
Lupo
–
ambiva
a
scrivere
una
biografia
collettiva
anziché
individuale
(sul
modello
del
Mussolini
di
De
Felice,
n.d.a.),
intendeva
dar
voce
a
strati
profondi
e
anche
periferici
della
cultura”,
che
altrimenti,
basandosi
solo
sul
modello
defeliciano,
non
sarebbero
venuti
a
galla.
Lanaro
ricostruisce,
insomma,
la
modernità
del
binomio
nazione
e
lavoro
ma
non
per
questo
prova
a
racchiuderla
in
parametri
razionalistici.
Sa
che
bisogna
dare
il
giusto
spazio
al
registro
emotivo,
scandagliando
anche
il
terreno
delle
passioni:
“la
nazione
che
vuole
riunificarsi
con
il
lavoro
lavora
su
visioni
del
futuro,
mitologie,
profezie”,
dice
ancora
Lupo.
Ma,
soprattutto,
Lanaro,
come
Asor
Rosa
in
letteratura,
aveva
sovvertito
gli
schemi
classici,
criticando
tanto
la
tradizione
storiografica
socialista
quanto
quella
liberale,
accusate
di
aver
mitizzato
un’Italia
del
tutto
–
astratta
-
diversa
da
quella
reale.
Il
tempo
però
gli
ha
dato
diede
ragione:
la
sua
lettura
si è
imposta.
In
Italia
–
come
lui
raccontava
– la
modernizzazione
non
è
avvenuta
secondo
linee
liberali,
ma è
stata
resa
possibile,
sin
dall’inizio,
da
forme
di
autoritarismo
che
sarebbero
poi
sfociate
nella
dittatura.
Autoritarismi
e
compromessi.
Dai
governi
La
Marmora
al
‘connubio’
Cavour-Rattazzi,
dal
trasformismo
a
Pelloux,
dal
giolittismo
a
Salandra
a
Mussolini.
è
un
lavoro
straordinario,
quello
iniziato
con
Nazione
e
lavoro,
che
comincerà
a
dipanare
il
filo
di
un
discorso
mai
interrotto,
un
filo
che
andrà
avanti
fino
agli
ultimi
suoi
libri:
la
nazionalizzazione
dell’Italia
e
degli
italiani,
sospinta
e
promossa
molto
più
di
quanto
non
lo
sia
la
loro
democratizzazione.
“Una
democratizzazione
–
ricorda
Isnenghi
–
condotta
nell’universo
socialista
e
cattolico;mentre
i
liberali
rinunciano
alla
nazionalizzazione
democratica.”
In
questo
senso
anche
l’altro
grande
libro
di
Lanaro,
la
Storia
dell’Italia
repubblicana,
pubblicato
nel
1992
per
i
tipi
della
Marsilio
(dal
2007
anche
in
versione
mp3,
con
un
successo
straordinario
in
termini
di
download
scaricati),
si
collega
a
questa
lettura
della
formazione
dell’Italia.
Perché
la
stortura
rimane:
anche
la
nuova
ondata
modernizzatrice,
quella
del
dopoguerra,
risente,
a
suo
avviso,
di
quei
modelli
paternalistici,
autoritari,
non
pienamente
democratici
che
caratterizzano
l’Italia
come
nazione.
Secondo
Guido
Crainz,
in
quel
libro
”circola
proprio
l’idea
che
si
fosse
giunti
davvero
all’Epilogo.”
All’Epilogo
della
Prima
Repubblica,
all’Epilogo
di
un’epoca.
Era
una
lettura
prismatica,
quella
di
Lanaro,
che
metteva
insieme
‘cronaca
di
palazzo’
e
scetticismo
collettivo,
ribellismo
individuale
e
qualunquismo
da
suk
arabo.
Giovanni
De
Luna
lo
criticò
per
non
aver
adeguatamente
considerato
l’apporto
innovativo
del
movimento
del
’68,
ma,
in
realtà,
ciò
che
lo
storico
padovano
stigmatizzava
era
l’involuzione
‘corporativa’
di
quel
movimento,
di
come
“una
modernizzazione
lasciata
a se
stessa
scialacqua
il
superfluo
della
propria
ricchezza
– e
talora
anche
il
necessario
– in
un’orgia
di
autoaffermazione
dei
soggetti
che
ne
sono
stati
protagonisti”,
che
ignora
“sprezzantemente
ogni
mediazione
politica
e
istituzionale”.
Lanaro
analizzava
con
occhio
critico
anche
l’emergere
dei
nuovi
modelli
individualistici
degli
anni
Ottanta.
Davvero
vennero
alla
luce
all’improvviso,
senza
nessuna
incubazione?
E
ancora:
il
1992,
con
il
suo
tracollo,
deriva
solo
dalla
patologia
degli
anni
Ottanta
o
affonda
le
radici
in
un
periodo
di
più
lunga
durata?
Come
ha
scritto
sempre
Guido
Crainz,
“in
questo
allargamento
drastico
dell’orizzonte
non
scompaiono
certo
le
specificità
essenziali
degli
anni
ottanta,
o
alcuni
tratti
di
essi
che
dobbiamo
ancora
comprendere
appieno
(le
radicali
trasformazioni
intervenute
nell’universo
della
comunicazione,
ad
esempio).
Sfumano
però
fortemente
le
contrapposizioni
e le
rigide
separazioni
di
decenni
e
climi
culturali.”
E
tale
impostazione,
con
il
dialogo
costante
tra
le
acquisizioni
della
ricerca
storica
e
gli
strumenti
delle
scienze
sociali
e
della
letteratura,
in
un
contrappunto
fra
documenti
segnati
dal
massimo
di
oggettività
presunta
(le
statistiche)
e
fonti
provviste
del
massimo
di
soggettività
dichiarata
(le
testimonianze
letterarie),
la
ritroviamo
nel
volume
precedente,
L’Italia
Nuova.
Identità
e
sviluppo
1861-1988,
il
trait
d’union
tra
Nazione
e
lavoro
e la
Storia
dell’Italia
repubblicana,
pubblicato
proprio
nel
1988.
Un
libro
per
certi
versi
sorprendente,
in
cui
Alfredo
Oriani
dialoga
con
Thomas
Mann,
Aristide
Gabelli
si
interroga
sul
futuro
degli
italiani
e la
nuova
Italia
viene
soppesata
dagli
sguardi
ora
consapevoli
ora
critici
di
Henry
James
e di
Félix
Narjoux,
di
Bolton
King
e di
Thomas
Okey,
dello
spagnolo
Emilio
Castelar
y
Ripoll
e
dei
tedeschi
Stieler,
Paulus
e
Kaden.
Nel
frattempo,
altre
iniziative
sono
arrivate
a
maturazione.
Nel
1984
l’Einaudi
gli
aveva
affidato
la
realizzazione
del
volume
Il
Veneto,
che
inaugurava
la
sezione
della
Storia
d’Italia
dedicata
alle
Regioni.
“Era
il
riconoscimento
ad
uno
storico
capace
di
dimostrare
come
la
dimensione
locale
fosse
indispensabile
per
raccontare
la
storia
italiana”,
scrive
Nicolò
Menniti.
Quello
che
predispose
lo
storico
padovano
fu
un
libro
vero,
organico,
non
una
raccolta
estemporanea
di
saggi
giustapposti:
una
raccolta
di
saggi
di
storia
contemporanea
‘in
scala’,
non
una
collezione
di
studi
di
storia
locale”,
scrive
egli
stesso
nella
Premessa.
Inoltre,
come
ricorda
Carmine
Donzelli,
all’epoca
coordinatore
del
progetto
editoriale,
Lanaro
non
si
proponeva
di
cercare
una
“contrapposizione,
ma
una
interazione
tra
la
scala
regionale
e
quella
nazionale.
È
l’effetto
combinato
che
lo
interessa;attraverso
quello
si
capirà
meglio
la
storia
del
Veneto,
mentre
si
capisce
la
storia
d’Italia.”
Il
libro
parte
della
stereotipo
regionale,
per
determinarne
il
grado
di
verità
o
falsità:
“Che
cosa
rappresentava
fino
a
ieri,
in
sintesi
estrema,
il
‘Veneto’
per
i
non
veneti?”
si
chiede
in
apertura.
La
risposta
è
fulminante:
“In
un
paesaggio
ad
elevato
tenore
alcolico
vi
si
avvicendavano
parroci
e
alpini,pazienza
laboriosa
e
amabilità
goldoniana,
moderazione
politica
e
familismo
rurale.
Venezia,
per
comune
ammissione,
faceva
parte
a
sé…”.
Quello
che
appare
l’asse
portante
dell’intero
volume
è il
rapporto
tra
il
Veneto
rurale
e la
sua
progressiva
trasformazione
nell’esperienza
di
una
modernizzazione
industriale
spesso
senza
regole,
sempre
più
capillare
e
imprevedibile.
Ne
esce
il
ritratto
di
una
regione
patria
del
disciplinamento
operaio,
capace
di
alternare
solidarismo
paternalistico
e
controllo
sociale.
E ne
fanno
conto,in
tal
senso,
i
saggi
di
Carlo
Fumian
e
Giorgio
Roverato.
E
questo
modello
ha
il
corrispettivo
letterario
nell’individuazione
della
linea
letteraria
maggioritaria
in
Vicenza,
la
città
di
Zanella
e
Fogazzaro,
un
“concentrato
letterario
dove,
da
cent’anni
ed
oltre,
il
romanzo
nasce
dal
romanzo
e la
pagina
dalla
pagina”.
In
chiusura,
il
volume
presenta
il
saggio
Un
modello
stanco,
scritto
a
quattro
mani
da
Lanaro
e
Isnenghi,
Da
poco
si è
manifestato
il
primo
successo
elettorale
della
Liga
Veneta.
C’è
da
riflettere.
Cosa
c’è
dietro
all’epifenomeno
razzistico,
antimeridionale,
dietro
alle
frasi
che
campeggiano
sui
muri
o
sui
ponti
dell’autostrada
Serenissima
(“Forsa
Etna”,
”Fora
i
romani”,
“A
morte
i
teroni”)?
Il
fatto
–
dicono
i
due
autori
– è
che
“il
sentimento
di
non
appartenenza
al
sistema
dei
partiti
evapora
e
sfuma
in
una
non-appartenenza
al
sistema
Italia
(…)
Questo
chiamarsi
fuori
si
esprime
tanto
con
una
desolidarizzazione
del
punto
di
vista
statuale
e
grande-nazionale
quanto
con
l’enfatizzazione
del
bozzolo
di
una
‘piccola
patria’,
e
però
nazione
pur
essa,
il
Veneto”.
Insomma,
si
attaccarsi
ad
“un
passato
pre-unitario,un
remoto
e
accertato
statuto
di
popolo-nazione-stato”,
da
contrapporre
all’appartenenza
unitaria
che
si
intende
negare.
Il
tutto
mentre
“l’Italia
è
assente,
come
nazione
e
come
stato.
E’
il
non-essere,
la
indebita
forzatura
istituzionale
delle
longevità
storiche”.
Ma
la
Liga,
nella
lettura
di
Lanaro
e
Isnenghi,
non
è
solo
un
fenomeno
rurale,
segno
e
frutto
di
arretratezza
culturale.
Così
come
non
è un
fenomeno
tutto
moderno
e
persino
post-industriale.
È,
più
che
altro,
“un
processo
di
enucleazione
di
tutte
le
minoranze
che
l’Europa
reprime”.
E
quindi,viene
considerato
un
epifenomeno
destinato
a
scomparire,
ad
essere
riassorbito,
“tutt’altro
che
all’altezza
di
un
nobile
domani”.
E,
oggi,
a
trent’anni
dalla
sua
formulazione,
chi
si
ricorda
più
di
una
simile
–
veridica
-
previsione?
In
questo
percorso
aperto
dalle
riflessioni
del
volume
collettaneo
del
1984,
si
colloca
anche
il
volume
Patria,
Marsilio,
1996.
In
quell’anno
era
stato
tradotto
in
italiano
e
pubblicato
da
Baldini
&
Castoldi
il
volume
di
Kenichi
Ohmae,
La
fine
dello
Stato-nazione,
nel
quale
si
canta
il
requiem
per
lo
Stato
nazionale,
appunto,
in
nome
di
quella
che
viene
chiamata
globalizzazione.
Lanaro
risponde
a
questa
impostazione.
Le
patrie
e le
nazioni
non
sono
di
certo
eterne,
ma
“avranno
esaurito
il
loro
compito
solo
quando
altre
forme
di
organizzazione
politica
sapranno
rispondere
ai
bisogni
che
attualmente
sono
esse
a
soddisfare”.
Tale
discorso,
peraltro,
era
tanto
più
fondato
e
meditato
in
quanto
non
tralasciava
di
riconoscere
l’importanza
dell’
“addensamento
dei
flussi
finanziari
e
delle
economie
virtuali”,
così
come
il
“veloce
rimescolamento
di
quelle
che
potremmo
chiamare
orbite
gravitazionali
della
vita
associata”,
mettendo
in
conto
il
fatto
che
“lo
sviluppo
delle
comunicazioni,
l’informatica,
la
multimedialità
tendono
irresistibilmente
a
saltare
le
frontiere”.
“A
suo
modo
–
scrive
Tommaso
Detti
–
questo
contributo
parte
da
lì:
assume
che
lo
Stato
nazionale
non
ha
esaurito
la
sua
funzione
e si
interroga
sul
ruolo
e
sulle
conseguenze
di
uno
degli
aspetti
del
processo
di
globalizzazione
che
ne
hanno
in
varia
misura
limitato
la
sovranità.”
Ma
Lanaro
non
combatte
solo
contro
l’attacco
dall’alto,cioè
dal
mondo
globalizzato,
allo
Stato-nazione,
egli,
e
più
nell’immediato,
porta
il
suo
contributo
nella
battaglia
contro
la
vuota
retorica
localistica
che
attacca
dal
basso
lo
Stato
e,
nello
specifico,
lo
Stato
unitario
italiano.
Insomma,
il
volume
–
non
a
caso
intitolato
per
l’appunto
Patria
-
vuole
dimostrare
in
maniera
inoppugnabile
“il
carattere
puramente
retorico
e
storicamente
infondato
delle
rivendicazioni
leghiste
relative
alla
‘Padania’”,
come
afferma
Umberto
Curi.
E in
questo
senso,
la
pubblicazione
di
questo
volume
non
fu
l’unico
suo
impegno
contro
il
dilagare
del
fenomeno
leghista
e
delle
sue
letture
pseudo-storiche
volte
a
sostenere
rivendicazioni
dai
forti
connotati
xenofobi
e,
verrebbe
da
dire,
völkisch.
In
quel
torno
d’anni,
attraverso
una
variegata
serie
di
interventi,
Lanaro
partecipa
attivamente
alla
demolizione
della
mitologia
di
una
presunta
identità
storico-culturale
del
Veneto,
mostrando,
come
ricorda
ancora
Curi,
“la
complessità
e
l’interna
articolazione
dei
processi
storici
che
hanno
condotto
all’attuale
configurazione
regionale.
Anche
in
questo
frangente,
come
già
accaduto
in
occasione
delle
analisi
relative
alla
Democrazia
Cristiana,
una
maggiore
sensibilità
da
parte
delle
forze
politiche
della
sinistra
avrebbe
potuto
consentire
di
riversare
nella
battaglia
politica
diretta
le
acquisizioni
di
un’indagine
storica
di
alto
livello.”
Libro
’politico’,
quindi,
nel
senso
nobile
dato
a
questo
termine
da
Gramsci.
Ma
libro
–
così
come
il
precedente
L’Italia
nuova
–
carico
di
sapere
e
riflessioni,
spunti
e
collegamenti,
attraversamenti
letterari
e
navigazioni
trasversali,
riunendo
in
un
filo
continuo
l’Inghilterra
di
Disraeli
e
Ruskin
e la
Francia
di
Ernest
Renan
e
del
‘tigre’
Clemenceau,
l’anarchismo
umanista
di
Alexandr
Herzen
e il
federalismo
di
Cattaneo,
il
sionismo
di
Herzl
e
l’anelito
democratico
di
Carlo
Rosselli
o
Piero
Gobetti.
Nel
2011,
è
uscito,peri
tipi
della
Donzelli,
l’ultimo
lavoro
di
Silvio
Lanaro,
Retorica
e
politica.
Alle
origini
dell’Italia
contemporanea.
Si
tratta
di
una
raccolta
di
saggi
scritti
tra
il
1971
e il
1998
e
apparsi
a
suo
tempo
su
riviste
specialistiche
come
”Quaderni
storici”,
“Meridiana”
e “Cheiron”,
oltre
a
quelli
pubblicati
negli
Annali
einaudiani
o in
libri
collettanei.
Per
l’autore,
retorica
e
politica
sono
un
intreccio
onnipresente
nella
storia
d’Italia,poiché
la
retorica
è
stata
da
sempre
intrecciata
alla
politica
e d
in
modo
pervasivo
e
continuativo
ha
condizionato
il
modo
di
far
politica
nel
nostro
Paese.
Per
retorica,
quindi,
come
spiega
Carlotta
Sorba,
egli
intende
quel
“potere,
creativo
o
manipolativo
che
sia,
del
linguaggio
in
tutte
le
sue
forme,
una
sorta
di
gusto
insistito
per
le
parole
e
per
i
suoni
che
a
suo
dire
percorre
tutti
i
passaggi
cruciali
della
vita
collettiva
del
paese
e ci
consente
di
leggere
tra
le
loro
pieghe.”
In
questi
saggi,
pertanto,
è
possibile
individuare
un
sottofondo
moderno
e
inquietante
fatto
di
percorsi
concettuali
e
comunicativi
che
indicano
un
interesse
specifico
per
il
potere
della
parola.
“Messi
uno
accanto
all’altro
–
continua
Sorba
–
questi
saggi
ci
parlano
di
un
itinerario
di
indagine
che
si
snoda
tra
il
periodo
postunitario
(con
un’accentuazione
sugli
anni
settanta
e
ottanta
dell’Ottocento)
e il
fascismo,
mostrando
un
asse
interpretativo
forte
sviluppato
lungo
rivoli
diversi”.
è
un
percorso,
che
seppur
accidentato
e
ricco
di
sfumature
e
rimandi,
lega
insieme
i
tre
elementi
chiave
della
produzione
lanariana
sulla
storia
d’Italia
ossia
il
protezionismo,
il
nazionalismo
e il
fascismo.
Ed
in
che
modo,
partendo
dall’utopia
cosiddetta
protezionistico-conservatrice
si
sia
arrivati
a
Piazza
Venezia,
passando
per
il
nazionalismo,
l’irredentismo,
l’interventismo
e le
trincee.
Uomo
‘impolitico’,come
lo
definisce
Umberto
Curi,
aveva
scelto
la
cultura
– e
non
solo
quella
storica
–
come
il
luogo
privilegiato
per
l’impegno
e
per
rinnovare
la
resistenza
in
tempi
di
facile
oblio,
di
indifferenza
morale
e di
qualunquismo
socio-politico.
“Il
qualunquismo
fa
presto
a
trasformarsi
in
populismo
e il
populismo
in
fascismo:
la
libertà
è
difficile
da
conquistare,
ma
ancor
di
più
da
mantenere
e
far
crescere,”
mi
disse
una
volta,
parlando
di
Lega,dopo
esser
partiti
dai
fatti
di
Aigues-mortes.
E,
indispensabile
a
far
prosperare
questa
libertà
era,
a
suo
avviso,
la
cultura.
Compresa
la
cultura
storica.
Era
convinto
che
i
giovani
sono
“affamati
di
storia”,
come
diceva
lui,
“tanto
più
affamati
quanto
più
è
avara
l’offerta
pubblica
di
storia”.
E si
rammaricava
che
i
suoi
studenti
giungessero
tra
i
banchi
universitari
praticamente
digiuni
di
storia
contemporanea:
“arrivano
a
malapena
alla
prima
guerra
mondiale,
alla
seconda
–
toh!
- al
massimo,
e lì
si
fermano:
il
resto,
per
loro,
è
tutto
da
decifrare,
scoprire
e
ricostruire”.
Al
che,
io
gli
rispondevo
che,
con
i
miei
studenti
del
liceo,
arrivavo
a
tempi
molto
vicini,
ai
governi
Berlusconi,
all’Afghanistan,
persino
a
Monti
ed
alla
'primavera
araba'…
“A
Berlusconi!”
sbottava,
istrionico,
con
un
sorriso
beffardo
sotto
il
baffetto
brizzolato
e un
lampo
sarcastico
negli
occhi,
“allora
veda
che
ai
sui
ragazzi
non
gli
passi
la
voglia
di
studiarla,
la
storia”.
Cercherò,
professore.
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La
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Passigli,
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Donzelli,
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Giovanni
De
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un
decennio
1969-1979.
Militanza,
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Feltrinelli,
Milano,
2011;
Mario
Isnenghi
(a
cura),
Pensare
la
nazione.
Silvio
Lanaro
e
l’Italia
contemporanea,
Donzelli,
Roma,
2012;
Guido
Crainz,
Il
paese
reale,
Donzelli,
Roma,
2012;
Nicolò
Menniti
Ippolito,
Addio
a
Silvio
Lanaro,
grande
storico,
in
“Il
Mattino
di
Padova”,
24.6.2013.
Filippo
Tosatto,
Lo
studioso
allergico
alla
banalità
che
dopo
la
lezione
offriva
lo
spritz,
in
“Il
Mattino
di
Padova”,
24.6.2013;
Mario
Isnenghi,
Silvio
Lanaro,
il
solista
del
rigore
e
dell’affabulazione,
in
“Il
Mattino
di
Padova”,
25.6.2013;
Claudio
Ruggieri,
Addio
a
Lanaro
storico
libero
e
appassionato,
in
“Il
Giornale
di
Vicenza”,
25.6.2013;
Alessandro
Macciò,
Addio
a
Silvio
Lanaro,
grande
storico.
Il
mondo
della
cultura
è in
lutto,
in
“Il
Corriere
del
Veneto”,
24.6.2013.