.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

contemporanea


N. 71 - Novembre 2013 (CII)

HIROSHIMA NEL CAPANNO
Tra storia e ricordi

di Teo Takahashi

 

Quando da bambino andavo a trovare mio nonno, Shu Takahashi, celebre pittore giapponese, nella casa di Ardea (antica località sita sulla via Pontina a pochi km da Roma), dove egli viveva con la moglie, mia nonna Sakura (che vuol dire fiore di ciliegio) e due cani Pongo e Muck, ero molto felice.

 

Mio padre che si chiama Ari, veniva a prendere mio fratello Ugo (più piccolo di me di tre anni) e me, nella casa dove vivevamo con mia madre in via Felice Cavallotti nel quartiere Monteverde Vecchio a Roma. Tutto ciò che posso dire di aver vissuto del Giappone, è dovuto a queste gite di cui narro.

 

Dopo un breve viaggio sulla via Pontina seguiva un pranzo cucinato alla giapponese dalle esperte mani di nonna Sakura: ricordo molto bene le caratteristiche polpette di riso con cuore di prugna piccante che in Giappone vengono consumate a merenda.

 

Dopo il pranzo, prima di andare via, mi piaceva starmene seduto sotto la veranda all’ingresso della casa con l’affaccio sul resto del giardino. Spesso capitava che il mio sguardo cadesse sul grande capanno industriale che nonno Shu utilizzava per lavorare.

 

L’ingresso nel capannone era categoricamente vietato a noi bambini infatti la porta era sbarrata da un grande lucchetto; e questo ingigantiva ancora di più i vivaci interessi che nutrono la fantasia dei bambini quando vedono qualcosa di proibito. Potevo avere circa 7-8 anni.

 

Il capannone era un grande parallelepipedo di ferro e lamiera, dipinto di bianco e giallo ocra con delle piccole finestrelle rettangolari che ne adornavano i lati. Guardavo a quel capanno con occhi tristi bramosi di conoscenza. Progettavo di rimaner seduto lì, per ore e ore, su quella panchina, fino a quando qualcuno non mi avesse preso per mano e condotto all’interno.

 

Fortunatamente la casa, l’arredamento giapponese, i cani Pongo e Muck, il giardino e i lavori in stoffa confezionati da nonna Sakura, costituivano una grande fonte di distrazione e compagnia. E non passavano che pochi minuti che già correvo distratto in giro spostando le sfere della dama cinese o sbucciandomi le ginocchia sui lastroni di pietra che costituivano il vialetto, non curante dell’incolumità di mio fratello che a malapena eretto tentava di seguirmi.

 

Ma ogni volta che vedevo nonno Shu, con la sua chioma argentata legata in una coda di cavallo e il suo passo da vecchio cowboy, imboccare il viale che portava al capanno non potevo fare a meno di provare un sentimento di piccolezza e sdegnavo i giochi, la spensieratezza, l’infanzia e tutto il resto. In quei momenti non riuscivo a vedere altro se non la solennità di quella grande struttura, luogo per mio nonno di grandi passioni e misteriose sofferenze.

 

Ritornato a casa chiedevo a mia madre spiegazioni sul perché di quegli atteggiamenti carichi di sentimenti da uomini adulti, sottratti al gioco dei bambini, ed ella mi rispondeva raccontando la storia di nonno Shu.

 

“Sai Teo, tuo nonno è un grande artista, ha vissuto un esperienza molto brutta da piccolo, non bisogna disturbarlo quando lavora”

“E che è successo al nonno quando era piccolo?”

“tuo nonno era a Hiroshima... Avete studiato a scuola la seconda guerra mondiale, no?”

“Si...”

Non ero un grande amante della scuola, anzi, provavo un sacco di noia quando ascoltavo le lezioni dei maestri e delle maestre. In classe ero molto più attento a farmi nuovi amici che ad ascoltare.

 

“Durante la guerra accadde qualcosa di molto brutto al Giappone e la città dove è nato tuo nonno andò distrutta. Nonno Shu non ama parlare di quel periodo... Lo fa attraverso il suo lavoro. Ecco perché non vuole essere disturbato”.

 

Gli insegnamenti di mia madre anziché calmarmi mi inquietavano: Che vuol dire che è stata distrutta? Da che? E soprattutto perché? Che hanno fatto i giapponesi per meritarsi di essere distrutti durante questa antica guerra?

 

Poi un giorno, qualche anno più tardi, a scuola mi soffermai su una fotografia stampata nel libro di storia, era la celebre foto del fungo atomico sopra Nagasaki, avevo 10 anni.

 

Quel grande albero di fumo aveva in sé qualcosa di straordinario. Sapevo che probabilmente si trattava della stessa cosa che aveva colpito il nonno. Ancora più tardi, durante una cena, mia madre parlava con qualche suo amico delle grandi opere di nonno Shu, ricordo di aver sentito distrattamente le parole “bomba” e “atomica”, le stesse parole che accompagnavano la foto nel libro di storia.

 

Il grande fungo di cenere, fumo e morte entrava per sempre a toccare la mia vita. La foto rimase indelebilmente impressa nel mio spirito, come nell’animo di tutti.

 

Finalmente giunsi a undici anni, iniziavo a conoscere il mondo, ad interessarmi alla Storia, con un’ovvia particolare attenzione alla seconda guerra mondiale, avevo visto film come “Tora Tora Tora” e ascoltato racconti di guerra direttamente dalla bocca della mia bis-nonna materna, che aveva visto e vissuto le ore e i giorni precedenti al bombardamento di Cassino in Italia da parte delle forze alleate anglo-americane.

 

Durante la guerra in Jugoslavia per un compito in classe avevo montato una serie di spezzoni di cronache radiofoniche di guerra su musicassette, alla fine mi dissero che la Jugoslavia non esisteva più. Ora al posto della Jugoslavia c’erano un insieme di vari paesi. Ricordo che fui molto soddisfatto del compito lo feci ascoltare a mia madre e a mio padre il quale rimase, a suo parere, molto ben impressionato.

 

Arrivò l’inverno e un giorno che andammo a trovare i nonni, dopo il pranzo e dopo aver passato il pomeriggio a imparare parole culinarie giapponesi con Sakura, seduto sulla panchina mentre osservavo la porta del capanno semi chiusa con il solito sguardo triste bramoso di sapere, mio padre arrivò alle mie spalle, mi chiamò e molto fermamente disse:

“Teo vai a chiamare nonno Shu nel capanno, avvertilo che siamo pronti per andare a cena”.

 

Entrai esitante, i miei occhi scivolarono immediatamente su dei trucioli di legno sparsi qua e là per il vasto pavimento e su tutta una serie di attrezzi da falegname come una sega circolare da tavolo, uno scalpello e poi pennelli, vernici, pennelloni e solventi. Nessuna traccia del nonno.

 

Poi improvvisamente lo vidi... Un enorme quadro, composto da tre grandi strutture di legno, gigantesco, imponeva la sua presenza con un rosso vivace, le forme che si mescolavano tra loro formavano la perfetta rotonda pienezza di due cosce di donna in un bianco puro, pulito candido come la luce di un sole d’inverno, il rosso andava a toccare il centro esatto delle forme convergendo dal basso in una spirale che tutto aveva della sostanza del sangue. Rimasi immobile nel contemplare quell’opera che giungeva a colpire l’occhio e lo spirito, con la violenza di un punto esclamativo!

 

C’era qualcosa di lampante nello stare in presenza di quel quadro, un non so che di immediata forza, come un’esplosione.

 

Mi sentii chiamare dall’alto, nonno Shu mi osservava dalla cima di un impalcatura, lo sguardo che mi lanciava da dietro gli occhiali semi tondi era penetrante, capii improvvisamente di avere di fronte un uomo fuori dal comune, molto differente dal vecchio nonno giapponese che conoscevo, nell’intimità dello studio vedevo nel suo cuore di artista.

 

“Si? Dimmi Teo!”

“P... p... papà dice che siamo pronti per andare a cena...!”

“Si... Va bene, arrivo subito!”

 

Mi sorrise e sparì dietro una porta che dava su un soppalco. Capivo nonostante i modi gentili di violare la sua intimità con la mia presenza glabra, portatore di notizie mondane, e provai vergogna, avevo voglia di uscire. A salvarmi arrivò mio padre, disse qualcosa del tipo:

“Vedi lo studio del nonno?”.

 

Intanto nonno Shu scendeva dalla scala che portava al soppalco, era tornato il solito vecchio nonno giapponese cordiale e affabile, uscimmo, il capanno venne chiuso e andammo a cena.

 

Credo che quella sia stata l’ultima volta che ci siamo visti, o almeno a me piace di ricordare così, in quell’attimo così agognato che raggiunto si rivela profondamente differente da come lo si aspetta, come capita in quei dolci anni che costituiscono la primavera dell’anima. Come fine della prima giovinezza. Come nostro congedo.

 

Dopo qualche anno Shu e Sakura sono tornati in Giappone, ora sono passati altri 10 anni, io mi sono dedicato a crescere in Italia, con enormi sforzi, errori, rimpianti e vittorie.

 

Mio padre difficilmente lascia che la conversazione cada sull’argomento nonni o almeno non lo fa mai per primo. So che attualmente nonno Shu insegna Arte all’Università delle Scienze e delle Arti di Kurashiki vicino alla città natia, vicino a Hiroshima.

 

A qualche centinaio di Km dall’epicentro del Terremoto del 2011 dove la centrale nucleare di Fukushima è stata distrutta, dove ogni giorno tonnellate di scorie radioattive vanno ad inquinare l’Oceano Pacifico.

 

Ecco questo è tutto ciò che posso dire sul Giappone. In quel punto di Mondo che il Sol Levante giunge a illuminar per primo a salute di un nuovo giorno, forse migliore.

 

Dedicato a mio Padre Ari Takahashi a Shu, Sakura e Erika Takahashi a mio fratello Ugo, al Giappone, al Mondo.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.