N. 71 - Novembre 2013
(CII)
HIROSHIMA NEL CAPANNO
Tra storia e ricordi
di Teo Takahashi
Quando
da
bambino
andavo
a
trovare
mio
nonno,
Shu
Takahashi,
celebre
pittore
giapponese,
nella
casa
di
Ardea
(antica
località
sita
sulla
via
Pontina
a
pochi
km
da
Roma),
dove
egli
viveva
con
la
moglie,
mia
nonna
Sakura
(che
vuol
dire
fiore
di
ciliegio)
e
due
cani
Pongo
e
Muck,
ero
molto
felice.
Mio
padre
che
si
chiama
Ari,
veniva
a
prendere
mio
fratello
Ugo
(più
piccolo
di
me
di
tre
anni)
e
me,
nella
casa
dove
vivevamo
con
mia
madre
in
via
Felice
Cavallotti
nel
quartiere
Monteverde
Vecchio
a
Roma.
Tutto
ciò
che
posso
dire
di
aver
vissuto
del
Giappone,
è
dovuto
a
queste
gite
di
cui
narro.
Dopo
un
breve
viaggio
sulla
via
Pontina
seguiva
un
pranzo
cucinato
alla
giapponese
dalle
esperte
mani
di
nonna
Sakura:
ricordo
molto
bene
le
caratteristiche
polpette
di
riso
con
cuore
di
prugna
piccante
che
in
Giappone
vengono
consumate
a
merenda.
Dopo
il
pranzo,
prima
di
andare
via,
mi
piaceva
starmene
seduto
sotto
la
veranda
all’ingresso
della
casa
con
l’affaccio
sul
resto
del
giardino.
Spesso
capitava
che
il
mio
sguardo
cadesse
sul
grande
capanno
industriale
che
nonno
Shu
utilizzava
per
lavorare.
L’ingresso
nel
capannone
era
categoricamente
vietato
a
noi
bambini
infatti
la
porta
era
sbarrata
da
un
grande
lucchetto;
e
questo
ingigantiva
ancora
di
più
i
vivaci
interessi
che
nutrono
la
fantasia
dei
bambini
quando
vedono
qualcosa
di
proibito.
Potevo
avere
circa
7-8
anni.
Il
capannone
era
un
grande
parallelepipedo
di
ferro
e
lamiera,
dipinto
di
bianco
e
giallo
ocra
con
delle
piccole
finestrelle
rettangolari
che
ne
adornavano
i
lati.
Guardavo
a
quel
capanno
con
occhi
tristi
bramosi
di
conoscenza.
Progettavo
di
rimaner
seduto
lì,
per
ore
e
ore,
su
quella
panchina,
fino
a
quando
qualcuno
non
mi
avesse
preso
per
mano
e
condotto
all’interno.
Fortunatamente
la
casa,
l’arredamento
giapponese,
i
cani
Pongo
e
Muck,
il
giardino
e i
lavori
in
stoffa
confezionati
da
nonna
Sakura,
costituivano
una
grande
fonte
di
distrazione
e
compagnia.
E
non
passavano
che
pochi
minuti
che
già
correvo
distratto
in
giro
spostando
le
sfere
della
dama
cinese
o
sbucciandomi
le
ginocchia
sui
lastroni
di
pietra
che
costituivano
il
vialetto,
non
curante
dell’incolumità
di
mio
fratello
che
a
malapena
eretto
tentava
di
seguirmi.
Ma
ogni
volta
che
vedevo
nonno
Shu,
con
la
sua
chioma
argentata
legata
in
una
coda
di
cavallo
e il
suo
passo
da
vecchio
cowboy,
imboccare
il
viale
che
portava
al
capanno
non
potevo
fare
a
meno
di
provare
un
sentimento
di
piccolezza
e
sdegnavo
i
giochi,
la
spensieratezza,
l’infanzia
e
tutto
il
resto.
In
quei
momenti
non
riuscivo
a
vedere
altro
se
non
la
solennità
di
quella
grande
struttura,
luogo
per
mio
nonno
di
grandi
passioni
e
misteriose
sofferenze.
Ritornato
a
casa
chiedevo
a
mia
madre
spiegazioni
sul
perché
di
quegli
atteggiamenti
carichi
di
sentimenti
da
uomini
adulti,
sottratti
al
gioco
dei
bambini,
ed
ella
mi
rispondeva
raccontando
la
storia
di
nonno
Shu.
“Sai
Teo,
tuo
nonno
è un
grande
artista,
ha
vissuto
un
esperienza
molto
brutta
da
piccolo,
non
bisogna
disturbarlo
quando
lavora”
“E
che
è
successo
al
nonno
quando
era
piccolo?”
“tuo
nonno
era
a
Hiroshima...
Avete
studiato
a
scuola
la
seconda
guerra
mondiale,
no?”
“Si...”
Non
ero
un
grande
amante
della
scuola,
anzi,
provavo
un
sacco
di
noia
quando
ascoltavo
le
lezioni
dei
maestri
e
delle
maestre.
In
classe
ero
molto
più
attento
a
farmi
nuovi
amici
che
ad
ascoltare.
“Durante
la
guerra
accadde
qualcosa
di
molto
brutto
al
Giappone
e la
città
dove
è
nato
tuo
nonno
andò
distrutta.
Nonno
Shu
non
ama
parlare
di
quel
periodo...
Lo
fa
attraverso
il
suo
lavoro.
Ecco
perché
non
vuole
essere
disturbato”.
Gli
insegnamenti
di
mia
madre
anziché
calmarmi
mi
inquietavano:
Che
vuol
dire
che
è
stata
distrutta?
Da
che?
E
soprattutto
perché?
Che
hanno
fatto
i
giapponesi
per
meritarsi
di
essere
distrutti
durante
questa
antica
guerra?
Poi
un
giorno,
qualche
anno
più
tardi,
a
scuola
mi
soffermai
su
una
fotografia
stampata
nel
libro
di
storia,
era
la
celebre
foto
del
fungo
atomico
sopra
Nagasaki,
avevo
10
anni.
Quel
grande
albero
di
fumo
aveva
in
sé
qualcosa
di
straordinario.
Sapevo
che
probabilmente
si
trattava
della
stessa
cosa
che
aveva
colpito
il
nonno.
Ancora
più
tardi,
durante
una
cena,
mia
madre
parlava
con
qualche
suo
amico
delle
grandi
opere
di
nonno
Shu,
ricordo
di
aver
sentito
distrattamente
le
parole
“bomba”
e
“atomica”,
le
stesse
parole
che
accompagnavano
la
foto
nel
libro
di
storia.
Il
grande
fungo
di
cenere,
fumo
e
morte
entrava
per
sempre
a
toccare
la
mia
vita.
La
foto
rimase
indelebilmente
impressa
nel
mio
spirito,
come
nell’animo
di
tutti.
Finalmente
giunsi
a
undici
anni,
iniziavo
a
conoscere
il
mondo,
ad
interessarmi
alla
Storia,
con
un’ovvia
particolare
attenzione
alla
seconda
guerra
mondiale,
avevo
visto
film
come
“Tora
Tora
Tora”
e
ascoltato
racconti
di
guerra
direttamente
dalla
bocca
della
mia
bis-nonna
materna,
che
aveva
visto
e
vissuto
le
ore
e i
giorni
precedenti
al
bombardamento
di
Cassino
in
Italia
da
parte
delle
forze
alleate
anglo-americane.
Durante
la
guerra
in
Jugoslavia
per
un
compito
in
classe
avevo
montato
una
serie
di
spezzoni
di
cronache
radiofoniche
di
guerra
su
musicassette,
alla
fine
mi
dissero
che
la
Jugoslavia
non
esisteva
più.
Ora
al
posto
della
Jugoslavia
c’erano
un
insieme
di
vari
paesi.
Ricordo
che
fui
molto
soddisfatto
del
compito
lo
feci
ascoltare
a
mia
madre
e a
mio
padre
il
quale
rimase,
a
suo
parere,
molto
ben
impressionato.
Arrivò
l’inverno
e un
giorno
che
andammo
a
trovare
i
nonni,
dopo
il
pranzo
e
dopo
aver
passato
il
pomeriggio
a
imparare
parole
culinarie
giapponesi
con
Sakura,
seduto
sulla
panchina
mentre
osservavo
la
porta
del
capanno
semi
chiusa
con
il
solito
sguardo
triste
bramoso
di
sapere,
mio
padre
arrivò
alle
mie
spalle,
mi
chiamò
e
molto
fermamente
disse:
“Teo
vai
a
chiamare
nonno
Shu
nel
capanno,
avvertilo
che
siamo
pronti
per
andare
a
cena”.
Entrai
esitante,
i
miei
occhi
scivolarono
immediatamente
su
dei
trucioli
di
legno
sparsi
qua
e là
per
il
vasto
pavimento
e su
tutta
una
serie
di
attrezzi
da
falegname
come
una
sega
circolare
da
tavolo,
uno
scalpello
e
poi
pennelli,
vernici,
pennelloni
e
solventi.
Nessuna
traccia
del
nonno.
Poi
improvvisamente
lo
vidi...
Un
enorme
quadro,
composto
da
tre
grandi
strutture
di
legno,
gigantesco,
imponeva
la
sua
presenza
con
un
rosso
vivace,
le
forme
che
si
mescolavano
tra
loro
formavano
la
perfetta
rotonda
pienezza
di
due
cosce
di
donna
in
un
bianco
puro,
pulito
candido
come
la
luce
di
un
sole
d’inverno,
il
rosso
andava
a
toccare
il
centro
esatto
delle
forme
convergendo
dal
basso
in
una
spirale
che
tutto
aveva
della
sostanza
del
sangue.
Rimasi
immobile
nel
contemplare
quell’opera
che
giungeva
a
colpire
l’occhio
e lo
spirito,
con
la
violenza
di
un
punto
esclamativo!
C’era
qualcosa
di
lampante
nello
stare
in
presenza
di
quel
quadro,
un
non
so
che
di
immediata
forza,
come
un’esplosione.
Mi
sentii
chiamare
dall’alto,
nonno
Shu
mi
osservava
dalla
cima
di
un
impalcatura,
lo
sguardo
che
mi
lanciava
da
dietro
gli
occhiali
semi
tondi
era
penetrante,
capii
improvvisamente
di
avere
di
fronte
un
uomo
fuori
dal
comune,
molto
differente
dal
vecchio
nonno
giapponese
che
conoscevo,
nell’intimità
dello
studio
vedevo
nel
suo
cuore
di
artista.
“Si?
Dimmi
Teo!”
“P...
p...
papà
dice
che
siamo
pronti
per
andare
a
cena...!”
“Si...
Va
bene,
arrivo
subito!”
Mi
sorrise
e
sparì
dietro
una
porta
che
dava
su
un
soppalco.
Capivo
nonostante
i
modi
gentili
di
violare
la
sua
intimità
con
la
mia
presenza
glabra,
portatore
di
notizie
mondane,
e
provai
vergogna,
avevo
voglia
di
uscire.
A
salvarmi
arrivò
mio
padre,
disse
qualcosa
del
tipo:
“Vedi
lo
studio
del
nonno?”.
Intanto
nonno
Shu
scendeva
dalla
scala
che
portava
al
soppalco,
era
tornato
il
solito
vecchio
nonno
giapponese
cordiale
e
affabile,
uscimmo,
il
capanno
venne
chiuso
e
andammo
a
cena.
Credo
che
quella
sia
stata
l’ultima
volta
che
ci
siamo
visti,
o
almeno
a me
piace
di
ricordare
così,
in
quell’attimo
così
agognato
che
raggiunto
si
rivela
profondamente
differente
da
come
lo
si
aspetta,
come
capita
in
quei
dolci
anni
che
costituiscono
la
primavera
dell’anima.
Come
fine
della
prima
giovinezza.
Come
nostro
congedo.
Dopo
qualche
anno
Shu
e
Sakura
sono
tornati
in
Giappone,
ora
sono
passati
altri
10
anni,
io
mi
sono
dedicato
a
crescere
in
Italia,
con
enormi
sforzi,
errori,
rimpianti
e
vittorie.
Mio
padre
difficilmente
lascia
che
la
conversazione
cada
sull’argomento
nonni
o
almeno
non
lo
fa
mai
per
primo.
So
che
attualmente
nonno
Shu
insegna
Arte
all’Università
delle
Scienze
e
delle
Arti
di
Kurashiki
vicino
alla
città
natia,
vicino
a
Hiroshima.
A
qualche
centinaio
di
Km
dall’epicentro
del
Terremoto
del
2011
dove
la
centrale
nucleare
di
Fukushima
è
stata
distrutta,
dove
ogni
giorno
tonnellate
di
scorie
radioattive
vanno
ad
inquinare
l’Oceano
Pacifico.
Ecco
questo
è
tutto
ciò
che
posso
dire
sul
Giappone.
In
quel
punto
di
Mondo
che
il
Sol
Levante
giunge
a
illuminar
per
primo
a
salute
di
un
nuovo
giorno,
forse
migliore.
Dedicato
a
mio
Padre
Ari
Takahashi
a
Shu,
Sakura
e
Erika
Takahashi
a
mio
fratello
Ugo,
al
Giappone,
al
Mondo.