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N. 22 - Marzo 2007

Auschwitz

Conoscere e ricordare

di Arturo Capasso

 

In meno di un anno sono stato due volte a visitare Auschwitz; ora in quel luogo c’è una querelle tra ebrei e carmelitani: le suore vorrebbero costruirvi un convento, gli ebrei una sinagoga.
L’arcivescovo pare abbia dato assenso agli uni e agli altri.


L’idea di un convento carmelitano vicino a un museo così tristemente famoso non mi sembra affatto sbagliata e potrebbe soddisfare quel desiderio di preghiera, di meditazione, di perdono che ogni visitatore sente profondamente.


La seconda visita mi ha lasciato sbigottito come la prima, anzi mi ha addolorato ancora di più.

 Tu vedi immagini che non sembrano possibili, tanto sono allucinanti.
Le vedi e, forse, inconsciamente, cerchi di cancellarle dalla tua memoria.
Ma restano nel subconscio.
Ecco, quando si ripresentano in tutta la loro nudità, queste immagini colpiscono la tua persona in modo più sconvolgente e te le porti appresso, dentro per molto più tempo.


Nell’aprile del 1940 Rudolf Hoss assunse il comando del Konzentrazionlager di Auschwitz.
Quella che abbiamo appena ricordato è una terribile parola tedesca e significa campo di concentramento. Dopo un paio di mesi iniziò a riempirsi di prigionieri e, con l’altro campo di Birkenau, porterà la morte a quattro milioni di persone.

Ma dove si trova questa località? Bisogna andare in Polonia, fermarsi a Cracovia, la vecchia capitale, la città santa con le sue bellissime chiese, la fortezza medievale, l’università Jagellonica, l’aria di grande cultura che si respira.
E da quella città dello spirito, in un paio d’ore d’auto, si arriva nella cittadina di Oswiecim, dove invece lo spirito è stato colpito a morte.

Il campo era una vecchia caserma, alcuni blocchi furono sopraelevati, intorno doppio sbarramento di filo spinato attraversato da corrente elettrica.
Una iscrizione ad arco, Arbeit Macht Frei: il lavoro rende liberi.
E’ vero che i prigionieri lavoravano: erano costretti a farlo, inquadrati da industrie della zona. Ma per molti si trattò di campi di sterminio.

 
Lo scrittore Elie Diesel, che a quindici anni entrò col numero A 7713 e vi perse i genitori e una sorella, in una intervista al Corriere della Sera (13 maggio 1986) ha detto: “La cosa più orrenda che si possa fare è dimenticare una tragedia come l’Olocausto, le cui ferite sono ancora aperte e dolenti

 

L’Olocausto rappresenta ancora il capitolo più drammatico e significativo della nostra era: un evento di oscurantismo, di tenebre totali. Per la prima volta nella storia il solo fatto di esistere diventò un crimine… Per la prima volta da quando l’uomo scrive la propria storia, appartenere a un popolo, quello ebraico, divenne, in sé, un crimine”.

Gli arrestati provenivano da diversi Paesi europei.
I vagoni si fermavano direttamente vicino al II e III crematorio. Le SS procedevano subito alla selezione: vecchi, donne e bambini erano separati dagli idonei al lavoro, che in media raggiungevano il 25%.
Il lavoro di selezione era piuttosto ambito dalle SS, perché ciascuno di essi riceveva come extra duecento grammi di alcool, 5 sigarette, un etto di salame ed una pagnotta.

I condannati dovevano raggiungere ufficialmente dei locali in cui avrebbero fatto la doccia.
Erano quindi costretti a spogliarsi e venivano rinchiusi in grossi ambienti; dall’alto le SS facevano scendere barattoli di piccoli cristalli: era il tristemente famoso ciclone B, prodotto dalla ditta Degesh.

Nel giro di una ventina di minuti il gas compiva la sua opera .Bisogna   notare che si arrivò

 a questa resa “ottimale” dopo vari tentativi fatti altrove, in un sotterraneo “di fortuna”.

 

 I capelli erano recuperati appena dopo: servivano a produrre una specie di canapa.
Al momento della Liberazione furono trovate ben sette tonnellate di capelli, che avevano tracce di cianuro d’idrogeno.
Dalla camera a gas i cadaveri erano trasferiti con carrelli agli altiforni.

Altri uomini, anche essi condannati, prendevano quelle povere spoglie, le adagiavano su piccoli contenitori e le versavano nel forno.
Questo sistema aveva sostituito l’altro della fucilazione e del rogo, ormai troppo lungo, essendo enorme la quantità di prigionieri.
E’ difficile trovare le parole che possano esprimere lo sdegno che si prova a vedere tali atrocità.

Ma il giro del museo non è ancora finito, solo alla fine il cuore sarà stretto da una morsa di orrore, sdegno, pietà. C’è anche odio? Forse gli anni trascorsi hanno ridotto questo sentimento.


Ho chiesto alla guida cosa pensano i tedeschi quando vengono qui: dicono che loro non erano ancora nati.
Questo per i giovani. Gli altri provano sensazioni diverse.

Ho accennato prima al prelievo dei capelli; non erano tralasciate ovviamente le protesi d’oro.
Il visitatore s’imbatte poi in enormi cataste: scarpe, vestiti, vestiti di bambini, piccoli giocattoli, occhiali, stampelle, valigie di cartone, piccoli oggetti personali: cromatina, spazzolini, pettini, bicchieri, scodelle: c’è qui un mosaico di povere cose di gente umiliata, tradita, annullata.

Perciò ci sono tornato nel giro di un anno: volevo sentire la profonda vergogna di quello che altri uomini, uomini-mostri, avevano pensato, attuato, ripetuto. Le cose migliori venivano spedite altrove: si raggiunsero i venti vagoni in un solo giorno.


Gli orologi erano inviati a Oranienbyrg; gli occhiali all’Ufficio Sanitario, le pellicce al Ravensbruck, gli abiti al Ministero delle finanze.

Ciascuno di noi ha un bagaglio di lettura concentrazionaria. Da Dostojevskij a Solzenitzyn..

 Ma qui la “managerialità” del sopruso sull’uomo ha superato ogni limite.


I prigionieri ritenuti idonei erano impiegati in lavori negli stessi campi o presso aziende della zona. Si trattava di una vera e propria “tratta” con lavoro forzato.Le SS intascavano quattro marchi al giorno per ogni lavoratore specializzato e tre marchi per gli altri.


Mediamente un prigioniero riusciva a tirare avanti per tre mesi: infatti le ore di lavoro erano dodici, le attese per gli appelli molto snervanti e, infine, le calorie non superiori alle 1700 unità. Perciò le foto dei sopravvissuti sono così tragiche: il peso era intorno ai quaranta chili. A questo si aggiungano le condizioni degli alloggi e dei servizi igienici.


Erano ammassati in blocchi di tre piani, come delle galline. In alcuni blocchi ho visto resti di coperte, in altri c’era solo paglia.

Le notti non rappresentavano certamente un intervallo nell’inferno della vita. C’erano delle celle dove bisognava restare in piedi tutta la notte, uscendo al mattino a lavorare, come se nulla fosse accaduto. Bisogna andare a vedere. Vedere e meditare.

 

 Ecco come  fu ricordata una notte dal prigioniero Maksymilian K.: “Gli uomini cominciarono a voltarsi, a toccarsi reciprocamente, a maledire: provarono persino a rompere la porta, che purtroppo non cedette. L’aria si fece sempre più irrespirabile, gli odori sempre più sgradevoli. eI più deboli fisicamente caddero, i più forti cercarono di essere più vicini alla porta dove si respirava meglio. Poi tutti persero la coscienza. Delle 39 persone chiuse nella cella n.20 ne sopravvissero 19.
Di queste sei furono portate in infermeria”.

Le uniche regole erano quelle della violenza e della sopraffazione delle SS e loro collaboratori.
In queste condizioni riuscì a prendere corpo un movimento di resistenza, che s’avvaleva dei prigionieri impegnati in imprese fuori del campo.
Intanto si usava la carta delle sigarette per scrivere; poi le lettere erano nascoste in pezzi di frutta, spazzole, penne, candele.
Ci fu una rivolta di prigionieri francesi, finita in un bagno di sangue.
Un’altra ribellione ebbe luogo nell’ottobre del ’44 a Birkenau.

Le impiccagioni dei prigionieri erano frequenti. Vorrei ricordare ciò che disse il comunista austriaco Ludwik Vesely, giustiziato il 30 dicembre del ’44: “Oggi a noi, domani a voi…”.
Il comandante del campo Rudolf Hoss non poteva immaginare che dopo poco il vento sarebbe cambiato e che ben altri spettatori avrebbero assistito alla sua impiccagione, il 16 aprile del ’47.

Pax.

 

Possa questa grande tragedia renderci più ragionevoli e migliori.

 

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