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N. 129 - Settembre 2018 (CLX)

Un nuovo inizio per il Corno d’Africa

sulla pace tra Eritrea ed Etiopia

di Gian Marco Boellisi

 

Tra i tanti conflitti dimenticati dalla comunità internazionale e oscurati dai riflettori del nostro quotidiano, quello tra Etiopia ed Eritrea è sicuramente stato uno dei più significativi e più violenti.

 

Formalmente durato due anni, dal 1998 al 2000, esso ha continuato ad irrorare di sangue il Corno d’Africa senza che nessuno trovasse, né tantomeno cercasse, una soluzione tra le due parti belligeranti nonostante fosse letteralmente sotto gli occhi di tutti. Infatti i due stati si affacciano entrambi su uno dei colli di bottiglia marittimi più importanti del mondo, passando qui circa il 40% delle rotte commerciali globali.

 

Solo recentemente le due nazioni hanno raggiunto da sole una soluzione al conflitto e, lunedì 9 luglio, lo “stato di guerra” formale è cessato definitivamente. Questo non solo rappresenta un importante spiraglio di sviluppo e cooperazione tra i due paesi, ma anche una prospettiva di stabilizzazione per l’intera regione, dilaniata ormai da conflitti che virtualmente non vedranno una fine nel breve-medio termine.

 

Prima di approfondire le motivazioni che hanno portato alla pace è necessario tuttavia capire l’origine del conflitto. Dal 1961 al 1991 l’Eritrea combatté una sanguinosa e feroce guerra d’indipendenza contro l’Etiopia. Questa infatti, una volta liberatasi dal dominio italiano post-coloniale, si è vista riconosciuta dall’allora comunità internazionale i territori etiopi come parte integrante dei propri confini, il tutto con sommo placet dell’ormai decaduto Impero Britannico.

 

Ovviamente gli eritrei videro queste manovre come una forzatura della propria sovranità ed instaurarono una lotta armata senza tregua nei confronti dei propri vicini. Quando nel 1991 il governo etiope di stampo marxista cadde le Nazioni Unite facilitarono le operazioni di voto in territorio eritreo, per vedere se la lotta armata fosse stata legata solo contro il regime comunista oppure se vi fosse una concreta volontà d’indipendenza dall’Etiopia.

 

Neanche a dirlo, il suffragio fu preponderante verso l’indipendenza da Addis Abeba. Nel 1993 lo stato di Eritrea fu fondato e si unì ufficialmente alle Nazioni Unite.

 

Tuttavia i problemi non finirono con il voto, anzi, si potrebbe dire che iniziarono solo allora. Nel 1997 una commissione cercò di risolvere delle dispute di frontiera che non avevano fatto altro che inasprire le relazioni tra i due stati sin dall’indipendenza del ‘93.

 

I confini infatti erano gli stessi tracciati dai vecchi coloni italiani che avevano delimitato la regione eritrea da quella etiope. Tuttavia all’epoca di tale demarcazione l’Eritrea era solo una regione e non uno stato indipendente. Entrambi i paesi non erano d’accordo sull’interpretazione di trattati vecchi di 60 anni e, cosa ancor più grave, non vi era apparentemente alcuna norma nel diritto internazionale che sembrasse poter regolare una situazione similare.

 

Come purtroppo accade spesso in queste occasioni, fu dato sempre meno spazio alle parole e sempre di più alla violenza. Numerosi incidenti tra le forze armate delle due nazioni si susseguirono, fino a quando nel maggio 1998 l’Eritrea occupò la città di confine di Badme. Fu l’inizio della guerra.

 

Gli scontri si avvicendarono molto rapidamente, con un impiego di mezzi corazzati e aerei mai visto prima nella regione. Entrambi gli stati sprecarono centinaia di migliaia di dollari in armamenti e munizioni, tutto per una guerra che interessò letteralmente la conquista di un fazzoletto di sabbia e nulla più. Gli etiopi comprarono caccia dai russi mentre gli eritrei acquistarono elicotteri da combattimento dall’Italia. Insomma, una perfetta rappresentazione dell’economia di libero mercato.

 

I combattimenti proseguirono per due anni in una guerra che fu per lo più di trincea, tanto che l’intero conflitto fu paragonato in toto alla Prima Guerra Mondiale. E anche qui proprio allo stesso modo la tattica della “guerra di posizione” non fece altro che causare 80.000 morti in due anni.

 

Nel corso degli anni le Nazioni Unite cercarono inutilmente di porre le due parti al tavolo delle trattative. Tanto era stato ignorato l’ONU che questi si vide costretto a mettere in atto la risoluzione 1298, ovvero l’embargo totale di entrambi gli stati belligeranti.

 

Nel maggio 2000 l’Etiopia aveva occupato tutti i territori persi nelle fasi iniziali del conflitto ed anche una buona parte del territorio eritreo, motivo per cui dichiarò la guerra finita. A questo esito seguì la firma di un accordo ad Algeri in cui le due parti concordarono un cessate il fuoco con annesso un trattato di pace ufficiale, il quale però non fu mai messo in atto nella pratica.

 

Da allora la situazione è stata un continuo susseguirsi di tensioni diplomatiche, scaramucce al confine, appelli alle Nazioni Unite e via discorrendo. Come ulteriore complicazione nel 2002 una commissione internazionale istituita dall’ONU riconobbe l’appartenenza della città di Badme all’Eritrea, generando un diffuso ed aspro malcontento in tutta la popolazione etiope. In più d’una occasione questa pace così fragile rischiò di essere infranta. Tutto fino a luglio di quest’anno.

 

Negli ultimi mesi si è infatti potuto percepire un mutamento radicale del clima, dovuto senza ombra di dubbio ai due attuali capi di stato.

 

Evidentemente consci che le tensioni non avrebbero portato i propri paesi da nessuna parte e che per poter garantire uno sviluppo duraturo ai rispettivi popoli una stretta cooperazione risultasse necessaria, entrambi i presidenti, l’etiope Abiy Ahmed e l’eritreo Isaias Afwerki, durante i loro insediamenti avevano già iniziato ad esprimere toni concilianti nei confronti dei propri vicini.

 

Non contenti di questo approccio puramente verbale, i due leader hanno tramutato le parole in fatti.

 

Il 6 giugno 2018 il presidente etiope Abiy Ahmed ha deciso di accogliere senza riserve le condizioni della commissione internazionale formatasi nel 2002 e di rispettare tale suddivisione territoriale nei suoi più scrupolosi dettagli. Un atto tanto coraggioso non si era visto in 20 anni di storia etiope, da nessuno dei suoi predecessori.

 

Domenica 8 luglio i due leader hanno deciso di incontrarsi in un clima di festa e gioia nella capitale eritrea, Asmara. Qui sono stati accolti da migliaia di cittadini che avevano adornato la città con le bandiere di entrambe le nazioni. Il giorno successivo, lunedì 9 luglio, è stato firmato quindi un trattato secondo cui “lo stato di guerra risulta definitivamente concluso”.

 

Ciò comporta non solo il riallacciamento dei rapporti tra i due paesi, ma nella pratica anche la riapertura delle ambasciate, la volontà imperitura di rispettare gli accordi di Algeri firmati nel 2000, il riallacciamento dei voli, il rispristino delle linee telefoniche e la cooperazione per lo sviluppo dei porti (ricordiamo che l’Etiopia attualmente non ha sbocchi sul mare). Non si poteva chiedere nulla di più per inaugurare un nuovo corso.

 

Nonostante questo mutuo accordo sia una boccata d’ossigeno per entrambi gli stati africani, bisogna ben vedersi dal considerare i problemi finiti. Infatti tra le maggiori incognite da affrontare ve ne sono due in particolare che vanno monitorate con estrema cautela.

 

La prima è costituita dal tatto con cui sarà svolto il lavoro diplomatico nei prossimi mesi. Infatti svariati temi dovranno essere eviscerati e affinché entrambe le parti siano soddisfatte bisogna raggiungere un equilibrio che non è mai stato pervenuto su alcuna questione sin da quando l’Eritrea è divenuta indipendente nel 1993.

 

Quindi l’imparare a dialogare con il proprio vicino sicuramente è il primo passo da compiere. Il secondo pericolo, e forse il maggiore, è costituito dalla popolazione stessa delle due nazioni, nello specifico dai nostalgici e dai conservatori.

 

In particolar modo quelli etiopi potrebbero vedersi traditi dall’attuale presidente avendo egli riconosciuto territorio eritreo tutte quelle regioni conquistate dall’Etiopia durante la guerra. Sicuramente questo è un fattore che va tenuto a mente e gestito costantemente qualora si voglia arrivare ad un equilibrio duraturo.

 

In conclusione, ciò che è stato raggiunto dai due paesi africani ha dello straordinario. Due uomini insieme sono riusciti a riaccendere la scintilla della speranza per i rispettivi popoli, lavando parzialmente l’inefficienza e l’inettitudine dei leader che li hanno preceduti.

 

Tuttavia, come si suol dire, questo è solo l’inizio. Ciò che aspetta l’etiope Abiy Ahmed e l’eritreo Isaias Afwerki non è per nulla semplice, soprattutto considerando il passato violento tra le due nazioni.

 

Le sfide sono grandi e certi processi hanno bisogno di tempo per maturare. Tuttavia, qualora i leader si rivelassero davvero capaci e soprattutto nessuno interferisse dall’esterno come spesso accade in questo lontano angolo di mondo, tutto potrebbe andare una volta tanto per il verso giusto.



 

 

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