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N. 70 - Ottobre 2013 (CI)

A TAVOLA CON I ROMANI
COME SI MANGIAVA NELL’ANTICA ROMA

di Massimo Manzo

 

A differenza dei greci, morigerati anche nel cibo, i romani ebbero una delle più ricche e varie cucine dell’antichità.

 

Dalla frugalità delle origini, così rimpianta dai filosofi e dai moralisti d’età imperiale, essi arrivarono a concepire piatti elaboratissimi, che mischiavano (spesso in modo ardito) spezie e aromi provenienti da tutto l’impero.

 

L’abbondanza dei banchetti era però proporzionale alla condizione sociale. E le abitudini alimentari cambiavano radicalmente a seconda delle possibilità economiche.

 

Da rudi pastori a raffinati buongustai

 

Prima che Roma iniziasse la sua inarrestabile espansione, la mensa dei romani era piuttosto povera.

 

All’inizio dell’età monarchica (VIII-VII sec. a.C.), quando la città era ancora un modesto villaggio e  persino la classe aristocratica era fatta di rozzi contadini, gli abitanti dell’Urbe si cibavano dei pochi alimenti che dava la terra (soprattutto legumi e frutta) e dei prodotti della pastorizia (latte, uova, formaggi di capra).

 

La carne si mangiava pochissimo. Contrariamente a quanto si possa pensare, in quest’epoca il pane era quasi sconosciuto. Al suo posto, come ci ricorda il commediografo Plauto (metà del III sec. a.C.) i romani si cibavano di…polenta! Si chiamava Puls ed era composta da un impasto di farina di farro cotta in acqua e sale (il mais farà la sua comparsa solo dopo la scoperta dell’America). Insaporita con formaggi, uova, funghi o frutta, essa fu per moltissimo tempo una delle basi dell’alimentazione romana.

 

Progressivamente, man mano che l’Urbe veniva a contatto con le popolazioni limitrofe dell’Italia, la varietà dei cibi aumentava. Così, conosciute le ricche città della Magna Grecia e dell’Etruria, i romani affinarono i loro palati.

 

Carni, selvaggina, pesce, oltre che i prodotti derivati dalla vite e l’olivo fecero la loro definitiva comparsa sulle tavole dei benestanti, anche se i più poveri continuavano a condurre una dieta prevalentemente vegetariana. Il divario tra le classi sociali, a livello alimentare, diveniva sempre più consistente.

 

Tra la fine del periodo repubblicano e l’inizio di quello imperiale (I sec. a.C.), mentre le invincibili legioni sottomettevano una fetta consistente del mondo allora conosciuto, confluirono a Roma un’infinità di nuove pietanze.

 

Spezie, dolci, frutti provenienti soprattutto dai regni ellenistici d’Asia e dall’Egitto scatenarono la fantasia dei cuochi romani, che da quel momento elaborarono una gastronomia ricchissima.

 

Apicio e le sue ricette

 

Una testimonianza preziosa delle follie culinarie dei romani è rappresentata dal “De re coquinaria” (l’arte culinaria), opera che in dieci libri svela moltissime ricette d’età imperiale.

 

Attribuita a Marco Gavio Apicio (I secolo a.C.) uno dei più grandi buongustai di tutta la storia romana, il de re coquinaria è in realtà il risultato di un “collage” operato da autori successivi, probabilmente del III o IV secolo d.C.

 

Nei primi libri, oltre ad una serie di consigli pratici (ad esempio sulla conservazione dei cibi) questo ricettario contiene pietanze soprattutto a base di verdure e legumi, formaggi, olive e altri piatti tutto sommato semplici.

 

Quando invece vengono illustrate le ricette di carne si arriva ad eccessi a dir poco strambi. Volatili come gru, pappagalli, pavoni e fenicotteri venivano cucinati arrosto, insaporiti da ricercate salse; altre carni, come quelle di cervo, lepre, capretto o maiale, erano cotte più volte, prima nell’acqua, poi nel latte, nell’olio e infine in qualche salsa speziata.

 

Per non parlare del fegato d’oca, dei calli di cammello o dell’utero di scrofa ripieno di ghiri farciti, che i romani consideravano il massimo della prelibatezza. Oltre alle carni, il de re coquinaria da anche indicazioni su come condire pesci, molluschi e frutti di mare, altri piatti molto comuni nelle tavole dei ricchi.

 

Insomma, le cene di Apicio, rimaste leggendarie, dovettero essere un miscuglio di sapori diversissimi, ma non molto “semplici” da digerire. Plinio il Vecchio (I sec. a.C.), quando diceva che il cibo migliore è anche quello meno elaborato, doveva sicuramente avere in mente le abbuffate e le conseguenti indigestioni dei suoi contemporanei.

 

Gusti forti

 

Come abbiamo accennato, i romani amavano oltremisura le spezie, come lo zenzero, il pepe, lo zafferano. Più che condire, queste ricoprivano letteralmente le pietanze, fino a fargli perdere l’originario sapore.

 

Un altro esempio della diversità del loro palato rispetto al nostro è il debole dei romani per il “garum”, una salsa fatta di interiora di acciughe o sgombri sotto sale, essiccate per molti giorni e all’occorrenza speziate, che doveva avere un sapore fortissimo e un odore alquanto putrido. Ne esistevano vari tipi e i romani (di qualunque ceto sociale) ne erano talmente ghiotti da consumarne grandissime quantità, come fanno oggi gli americani con il ketchup o la mostarda.

 

Vini e bevande

 

Oltre all’acqua, i romani amavano innaffiare i propri pasti con il vino, mentre la birra (fatta con l’orzo e non col luppolo) era considerata una bevanda per poveri o barbari. Apprezzatissimi erano i vini importati dalla Grecia, sia per il sapore, che per le qualità di conservazione.

 

Esistevano numerose qualità di vini: da quelli più economici alla portata di tutti, serviti dalle numerose tabernae presenti nell’Urbe, a quelli d’annata dai costi proibitivi. Niente a che vedere però con i Barolo o i Montepulciano attuali.

 

Date le tecniche “artigianali” di produzione, il vino dei romani aveva un  gusto molto diverso da quello odierno. Per conservarlo senza farlo guastare, ad esempio, veniva spesso mischiato con la resina, che gli dava un aroma particolare.

 

La sua gradazione alcolica era inoltre molto alta, tanto che per risultare bevibile doveva essere diluito con l’acqua (si arrivavano ad avere fino a due-tre parti d’acqua e una di vino). Solo i barbari, considerati ubriaconi per eccellenza, lo bevevano puro.

 

D’inverno, al vino speziato poteva essere aggiunta dell’acqua calda, che lo rendeva una sorta di vin brulé.

 

Tra bettole e triclini

 

Come oggi, nell’antica Roma in genere ci si sfamava con tre pasti al giorno. Si partiva con lo ientaculum, tra la terza e la quarta ora (corrispondente più o meno alle otto e mezza), per poi continuare il prantium verso l’ora settima (mezzogiorno) e terminare con la cena intorno alla tredicesima ora (ovvero le diciannove-venti).

 

Lo ientaculum era abbastanza calorico e consisteva in genere in formaggi, pane, olive oltre che negli avanzi del giorno prima. Una colazione salata, dato che, com’è noto, il caffè era ancora sconosciuto.

 

Il prantium si consumava generalmente fuori casa ed era molto veloce. Si trattava di uno snack, come lo chiameremmo noi, acquistato in qualche bancarella ambulante. Le strade di Roma, come avviene ancora in India o in molti paesi dell’Asia, pullulavano infatti di venditori di cibo, oltre che di panetterie e persino di botteghe di dolci. Il  cosiddetto pistur dulciarius era in pratica l’ equivalente del nostro pasticcere.

 

Ma era la cena il pasto per eccellenza. L’élite, l’unica a potersi permettere la cucina in casa, cenava stesa sui triclini attorno a una tavola riccamente bandita, mentre la stragrande maggioranza dei romani, seduti su sgabelli e panche di legno affollava le numerosissime bettole e taverne (popinae) della città, dove con pochi sesterzi si poteva avere del pane, una zuppa calda e un bicchiere di vino.

 

Più si era ricchi, dunque, più la cena era sfarzosa. Anche nell’antichità non mancavano però i “cafoni”. Un esempio classico è Trimalcione, uno dei protagonisti del Satyricon di Petronio, rappresentante di una classe sociale (quella dei liberti arricchiti), che per affermarsi vuole a tutti i costi fare sfoggio anche a tavola delle proprie ricchezze.

 

Tuttavia, i canoni del bon ton erano molto particolari. Non è un mistero, ad esempio, che anche gli aristocratici più raffinati utilizzassero degli utensili simili a dei lunghi stuzzicadenti per pulirsi le orecchie in pubblico durante il banchetto. Un’abitudine che noi consideriamo il massimo della volgarità, ma perfettamente normale all’epoca.

 

Si mangiava tutto con le mani, lavate tra una portata e l’altra, o con i cucchiai (nel caso di zuppe). La forchetta era infatti ignota ai romani.

 

Le critiche dei moralisti

 

Già prima della capillare diffusione del Cristianesimo, che condannava come peccato l’eccessiva golosità, molti fra i più importanti filosofi ed intellettuali, si scagliarono contro la mancanza di morigeratezza degli aristocratici romani.

 

Seneca, ad esempio, rimpiangeva l’antica frugalità degli antenati, sintomo di virtù, contrapponendola alla mollezza dei suoi contemporanei, inclini ai piaceri della tavola.

 

Lo stesso filosofo considerava la figura di Apicio un cattivo esempio per i giovani, mentre i poeti Giovenale e Marziale non perdevano occasione per criticare, con i loro epigrammi satirici, le abbuffate dei ricchi signori.

 

Quando poi la sobrietà divenne un aspetto essenziale della nuova morale cristiana, l’ostentazione della ricchezza nei banchetti fu severamente vietata. Le cene di Apicio e Trimalcione appartenevano ormai al passato.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Nico Valerio, La tavola degli Antichi, Milano, 1989;

Andrea Giardina, L'uomo romano, Bari, 1993;

Jérôme Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Bari, 1971;

Carlo Casi, La cucina nel mondo antico. Archeologia e storia dell’alimentazione dalla Preistoria al Medioevo, Grosseto, 2009;

Rosaria Ciardiello, Cibus. I sapori dell’antica Roma, Napoli, 2010.



 

 

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