N. 88 - Aprile 2015
(CXIX)
retabli di provenza
i caratteri della pittura provenzale su tavola tra il XIV e il XV secolo
di Ginevra Bentivoglio
Fino al XIX secolo l’attenzione da parte degli studiosi nei riguardi della Provenza è stata rivolta principalmente all’école d’Avignon, termine con il quale si intende l’entourage culturale venuto a crearsi durante il soggiorno dei papi nella città (1305-1377).
Nonostante il ritorno a Roma della sede papale, la regione continuò a essere una regione florida, abitata da grandi mercanti e banchieri, vescovi e ambasciatori.
Fu Renato d’Angiò (figlio di Luigi II e di Jolanda d’Aragona e conosciuto come le Bon roi Renè) – il quale vi soggiornò frequentemente dal 1447 – a sviluppare il mecenatismo che condurrà la regione e la sua produzione artistica a concorrere con altre importanti regioni francesi. Insieme con la borghesia e il clero locale, la corte di Re Renato divenne un potenziale committente per i numerosi artisti presenti in Provenza, molti dei quali stranieri, attirati dall’esterno proprio in virtù di questa prosperità.
È necessario attendere gli anni ‘30-’40 dell’Ottocento – in particolare le prime ispezioni di Prosper Mérimée, ispettore dei monumenti storici – perché si accenda un vivo interesse da parte degli storiografi per la pittura provenzale del XV secolo. E solo dal 1904, anno dell’esposizione Primitifs Français al Louvre, si iniziano a intraprendere studi nei riguardi dello stile provenzale, interrogandosi sulla pertinenza del termine scuola, applicato alla produzione di questa regione.
Il patrimonio pittorico conservato in Provenza è di grande pregio per il periodo relativo al XV secolo, nonostante, qui come altrove in Francia, non sia stato risparmiato da distruzioni, sia nel XVI secolo, causate dalle guerre di Religione, dalla conseguente Controriforma e, due secoli dopo, dalla Rivoluzione francese.
Nella storiografia della pittura francese del XV secolo, questa regione occupa un posto privilegiato in quanto, se confrontata con altre regioni, la quantità di documenti conservati risulta eccezionalmente abbondante. Il fatto si spiega con la circostanza che questa regione – in quanto provincia romana – era rimasta fedele alla tradizione del diritto romano, per cui ogni “patto” era oggetto di un atto notarile.
Di conseguenza, nel caso della committenza di un’opera, veniva stipulato un contratto, chiamato prix-fait, tra il cliente e l’esecutore, alla presenza di un notaio e di testimoni, per fissare le condizioni d’esecuzione (soggetto, materiali, qualità, prezzo, tempi di consegna) e spesso veniva allegato uno “schizzo”che illustrava schematicamente la disposizione dei personaggi da rappresentare.
L’insieme dei prix-faits è molto denso, soprattutto per il periodo tra il 1450 e il 1540 e consente di delineare con precisione la fisionomia dell’artista di quel tempo, in una società nella quale esso aveva un ruolo molto importante.
Esplorando gli archivi, i testamenti, gli inventari e la contabilità di re Renato, è possibile rintracciare un’incredibile quantità di minute notarili. Il lavoro di numerose generazioni di studiosi ad Aix-en-Provence e ad Avignone ha reso possibile la scoperta di molti prix-faits che, oltre a dare informazioni sulle opere, offrono preziose notizie riguardo l’attività degli artisti, la loro origine, i loro rapporti.
Al primo posto, come centro di produzione e d’irradiazione artistica resta Avignone che, nonostante non fosse più sede papale, continua a ospitare un centinaio di artisti; solo la metà di questi è di origine provenzale, gli altri sono pittori itineranti attirati in questo crocevia da varie regioni della Francia, dalle Fiandre, ma anche dall’Italia e dalla Spagna. Si spiegano così le difficoltà della critica a distinguere i tratti distintivi degli artisti della scuola locale.
Gli artisti praticano diversi mestieri: i pittori di grandi imprese divengono, all’occorrenza, pittori su vetro e su stoffa (lana e seta), ricamatori, persino incisori di carte da gioco e intagliatori del legno (fustiers).
In Provenza, l’uso diffuso di dipingere su pannelli lignei avvicinava ancora di più gli artisti – che imparavano le tecniche nell’apprendistato presso una bottega ed erano obbligati a non rivelare i segreti del mestiere – agli artigiani. Le tavole solitamente di quercia (al nord) o di noce (al sud), dovevano essere senza imperfezioni, accuratamente levigate e rivestite con uno strato di gesso e colla animale sul quale venivano fatte aderire strisce di tela, che servivano a tener saldamente unite le giunture.
Sebbene l’invenzione fiamminga della pittura a olio, che rivoluzionerà la pittura dei secoli successivi, è conosciuta precocemente in Provenza, molti pittori provenzali, così come gli italiani, restano fedeli alla pittura a tempera.
A Marsiglia il primo prix-fait inerente a un’opera dipinta a olio è datato 14 giugno 1497: nel contratto è scritto che l’artista Josse Lieferinxe – al quale si attribuisce il merito di aver introdotto questa tecnica nella città – deve “ponere colores cum oleo cum nucis ubit erit necessitas”.
Una pratica diffusa è quella di condurre contemporaneamente i lavori per più opere, benché alcuni clienti diffidenti prevedessero in questi casi una multa. La clausola più frequente, che lasciava maggior libertà all’artista, era quella di un’ammenda solo in caso di ritardata consegna dell’opera. Ma un ritardo ingiustificato poteva persino condurre l’artista in prigione.
Spesso i committenti precisavano con minuzia che i personaggi dovevano essere eseguiti esclusivamente dal pittore con cui avevano stipulato il contratto e non dai suoi collaboratori.
Nel caso in cui il prix-fait conteneva una clausola di garanzia, la responsabilità dell’artista rimaneva anche a lavoro concluso. Ad esempio nel contratto stipulato da Pierre Villate il 23 novembre 1471, con i priori di Santa Caterina da Siena per la chiesa dei Predicatori di
Marsiglia,
il
pittore
si
fa
garante
degli
incidenti
che
potevano
accadere
alle
figure
a
causa
dei
movimenti
delle
tavole
di
legno.
Allo
stesso
modo
a
Marsiglia,
Barthélemy
Reynaud
commissiona
a
Jean
de
Curia
e
Jean
Boucher
la
pala
dei
Minori,
obbligandoli
a
restarne
responsabili
per
il
resto
della
loro
vita.
La
quittance
finale,
che
annullava
i
diritti
e i
doveri
tra
le
due
parti,
avveniva
molto
tempo
dopo
la
data
prevista
per
la
conclusione
dell’opera,
ma
il
giorno
stesso
della
stesura
del
contratto,
davanti
al
notaio,
l’artista
riceveva
una
piccola
somma
come
anticipo.
Talvolta
avveniva
un
secondo
versamento
all’inizio
del
lavoro;
il
notaio
precisava
quali
versamenti
dovevano
essere
effettuati
in
seguito
agli
sviluppi
dell’opera.
Un
controllo
per
il
pittore,
ma
anche
un
obbligo
per
il
cliente,
in
quanto
l’artista
attendeva
di
ricevere
il
denaro
per
continuare
il
lavoro.
Nella
maggior
parte
dei
casi,
sono
i
clienti
a
fornire
ai
pittori
i
supporti
lignei,
assemblati
e
provvisti
del
loro
elaborato
apparato
decorativo,
pronti
per
essere
dipinti.
Ciò
comportava
al
pittore
l’inserimento
di
personaggi
in
forme
prestabilite,
all’interno
di
superfici
che
gli
venivano
imposte;
raramente
esso
si
occupava
dell’insieme
dell’opera,
delegando
a un
fustier
il
lavoro
d’intaglio.
I
dipinti
su
tavola
(retabli)
provenzali
possono
essere
esemplificati
in
tre
categorie:
il
“trittico
con
sportelli”
(portes
o
chassis),
introdotto
dagli
artisti
originari
delle
Fiandre
o
provenienti
dal
nord
della
Francia
(da
regioni
come
la
Piccardia,
l’Hainaut
o da
Parigi)
o
dalla
Borgogna,
dove
è
viva
l’esperienza
fiamminga
(Barthélemy
d’Eyck,
Nicolas
Froment,
Jean
Changenet,
Josse
Lieferinxe,
Nicolas
d’Ypres);
il
retable
“a
pannello
unico”,
di
media
o
grande
dimensione,
destinato
a un
altare
di
chiesa
o a
un
altare
domestico,
talvolta
assumendo
la
funzione
di
tableau-épitaphe
presso
la
tomba
di
un
donatore
(La
vision
de
Saint
Pierre
de
Luxembourg,
Le
retable
Bourbon,
La
Pietà
de
Tarascon,
La
Pietà
de
Villeneuve-lès-Avignon,
Le
Couronnement
de
la
Vierge);
il
“trittico
a
scomparti
fissi”,
accostabile
alla
pala
italiana
e al
retablo
spagnolo,
che
rappresenta
la
tipologia
più
diffusa,
largamente
apprezzata
dalla
clientela
provenzale,
fortemente
legata
alla
tradizione.
L’impiego
dell’oro
mantenne
il
suo
prestigio
in
Provenza
ancora
nel
XV
secolo,
impiegato
sistematicamente
non
solo
per
le
decorazioni
di
legno
ma
anche
nei
nimbi
dei
santi
e
per
le
stelle
del
cielo,
oltre
che,
per
il
fondo.
A
questa
affermata
consuetudine
aderisce
anche
il
committente,
che
continua
a
preferire
l’uso
dell’oro,
considerandolo
più
degno
di
un
soggetto
religioso,
nonostante
comportasse
un
costo
maggiore.
La
struttura
tipica
del
retable
provenzale
si
compone
di:
un
pannello
principale
(champ/plan)
con
una
unica
figura
o
scena,
oppure
diviso
in
più
compartimenti,
di
un
revers
nella
parte
superiore
e di
una
predella
nella
parte
inferiore.
Nel
revers
(superciel/sobrecel/supercelum/super-celeste)
– il
coronamento
superiore,
caratterizzato
da
una
parte
leggermente
ricurva
probabilmente
concepita
per
proteggere
dalla
polvere
i
pannelli
sottostanti
(e
per
questo
chiamato
anche
polvererius)
–
veniva
solitamente
raffigurato
il
cielo
stellato.
Eseguito
in
prima
istanza
dal
fustier
(intagliatore
del
legno),
è
sormontato
da
una
grande
decorazione
in
legno
ricoperta
d’oro,
chiamata
clairevoie
(claravoya/galerie).
La
clairevoie
traforata
(ajourée)
comprendente
il
revers,
appare
come
elemento
chiave
e
obbligatorio
dei
grandi
baldacchini
in
legno.
Nella
parte
inferiore
la
predella
(escabeau/
scabellum/escabel/marchepié),
di
forma
rettangolare,
aveva
normalmente
la
stessa
larghezza
dell’insieme
del
quadro.
I
retables,
limitati
dal
revers
in
alto
e
dalla
predella
in
basso,
si
presentano
generalmente
come
delle
superfici
suddivise,
in
senso
verticale,
in
tre
parti.
Solo
i
documenti
d’archivio
e
qualche
rara
opera
conservata
permettono
di
leggere
l’iconografia
e di
evocare
l’aspetto
di
queste
grandi
scenografie
di
chiesa
ma,
a
causa
delle
numerose
perdite,
rimane
difficile
apprezzare
la
ricchezza
delle
cornici
lignee
intagliate.
Eccetto
qualche
rara
eccezione,
i
retables
provenzali
si
somigliano:
nelle
superfici
semplici,
nelle
grandi
figure
centrali,
nel
ripetersi
di
certi
temi
e
tradizioni
radicate
da
tempo.
Con
il
trascorrere
degli
anni
si
complicano
nello
sviluppo
delle
storie,
ma
restano
ancora
ben
distanti
dall’esuberanza
delle
opere
nizzarde,
dove
il
gusto
per
gli
allineamenti
verticali
permette
di
moltiplicare
le
devozioni
ma
frammenta
la
superficie.
Il
prezzo
di
un
retablo
di
buon
livello,
con
dimensioni
standard
(una
decina
di
palmi
in
altezza
su
sei
o
sette
di
larghezza,
all’incirca
2,25
m
per
1,5
m),
dipinto
con
colori
di
qualità
e
impiegando
l’oro,
variava
di
solito
tra
i
100
e i
150
fiorini
per
tutta
la
durata
del
XV
secolo;
gli
stendardi
risultano
molto
meno
costosi,
generalmente
tra
i 20
e i
40
fiorini.
Normalmente
era
stabilito
che
la
consegna
dell’opera
doveva
avvenire
entro
un
anno,
nella
maggior
parte
dei
casi
tra
i
sei
e
gli
otto
mesi,
solitamente
in
concomitanza
con
festività
del
calendario
cristiano.
Tra
la
regione
di
Nizza
e la
Liguria
da
un
lato,
la
Catalogna
e la
Linguadoca
dall’altro,
la
Provenza,
mantenne
una
certa
originalità,
accogliendo
parte
dello
stile
dei
pittori
del
nord
e
degli
artisti
italiani,
ma
rifiutando
certe
composizioni,
come
il
grande
polittico
alla
fiamminga
o la
Sacra
Conversazione
all’italiana.
Le
opere
eseguite
a
Marsiglia
tra
il
XV e
l’inizio
del
XVI
secolo
non
appaiono
molto
differenti
nella
concezione
da
quelle
di
Aix-en-Provence
o di
Avignone,
d’altronde
in
quanto
spesso
realizzate
dagli
stessi
artisti.
Per
le
confraternite,
la
commissione
di
un
retable,
risultava
motivo
di
prestigio.
Riguardo
al
soggetto
da
rappresentare
il
committente
prendeva
spunto
da
opere
già
apprezzate
e
ammirate
che
fungevano
da
referenti.
Un
esempio
di
questa
consuetudine
è
dato
dalla
commissione
ricevuta
da
Pierre
Boeuf,
nel
1507,
a
proposito
di
un
retable
con
la
rappresentazione
di
un
Roveto
ardente,
da
eseguire
basandosi
su
quello,
celebre,
di
Nicolas
Froment,
oggi
conservato
nella
cattedrale
di
Aix-en-Provence.
Allo
stesso
tempo
i
pittori
mostravano
volentieri
le
opere
da
loro
eseguite:
una
sorta
di
campionario
dal
quale
il
committente
poteva
scegliere.
La
maggior
parte
di
queste
imitazioni
riguardava
le
dimensioni
e il
“contorno”
(entourage):
cornici
e
modanature.
Le
confraternite
molto
frequentemente
incaricavano
gli
artisti
di
realizzare
non
solo
il
retable
per
il
loro
altare
ma
anche
gli
stendardi
(bannières)
per
le
processioni,
rappresentanti
generalmente
la
stessa
iconografia.
Al
pittore
era
affidato
il
compito
di
dipingere
al
centro
del
quadro
la
figura
del
Santo
o
della
Santa
patrona
della
loro
associazione
preferendo,
più
frequentemente,
il
ritratto
in
piedi,
sostituito
alle
volte
dalla
rappresentazione
del
martirio.
I
privati
invece
preferivano
scene
dalla
vita
di
Cristo
e
della
Madonna,
prediligendo
l’immagine
della
Vergine
col
bambino.
Nella
predella
la
raffigurazione
più
diffusa
era
quella
di
Cristo
fra
gli
Apostoli;
bisogna
attendere
gli
anni
‘70
del
XV
secolo
per
trovarvi
le
storie
della
vita
del
Santo
raffigurato
nel
pannello
centrale,
un
tema
comune
in
Italia.
Il
primo
caso
conosciuto
è
una
predella
con
dodici
miracoli
di
Santa
Caterina
da
Siena,
dipinta
da
Pierre
Villate
a
Marsiglia
per
i
Domenicani
e
descritta
in
un
documento
del
1471.
Solo
in
rare
occasioni
è
stato
possibile
mettere
in
relazione
i
documenti
con
le
opere
conservate.
Il
caso
più
eclatante
è il
ritrovamento,
da
parte
dell’abate
Requin
nel
1889,
del
contratto
per
l’Incoronazione
della
Vergine
di
Enguerrand
Quarton
–
oggi
al
Museo
Civico
di
Villeneuve-lès-Avignon
–
che
tuttora
rimane
il
testo
più
dettagliato,
relativo
a
un’opera
conservata,
che
ci
sia
pervenuto
della
pittura
europea
del
XV
secolo.
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