N. 73 - Gennaio 2014
(CIV)
LA RESISTENZA PIÙ LUNGA
STORIA DI INDIGENI IN LOTTA
di Filippo Petrocelli
I
Mapuche
sono
circa
1.200.000,
si
considerano
un
unico
popolo
nonostante
sulle
moderne
cartine
geografiche
appaiano
divisi
fra
Argentina
e
Cile.
Questo
li
rende
il
gruppo
indigeno
prevalente
in
questo
lembo
di
Latinoamerica,
oltre
che
una
delle
principali
resistenze
organizzate
del
continente
contro
lo
sfruttamento
indiscriminato
delle
risorse
naturali.
Il
termine
Mapuche
significa
“figli
della
terra”
e
mai
nel
nome
di
un
popolo
era
stato
esplicitato
così
bene
il
proprio
tragico
destino.
E
per
la
loro
“pachamama”
- la
madre
terra
-
questi
nativi
sono
in
guerra
con
i
conquistadores,
vecchi
e
nuovi,
da
oltre
500
anni.
Prima
gli
spagnoli
ai
quali
opposero
una
strenua
resistenza,
poi
i
neonati
stati
sudamericani,
oggi
soprattutto
le
multinazionali
avide
di
legname,
terreni
da
disboscare
e
materie
prime.
La
vita
di
questa
comunità
si
basa
ancora
sulla
famiglia
allargata,
guidata
da
un
capo,
detto
lonki
o
lonko
e
l’attività
di
sussistenza
prevalente
è
l’agricoltura.
Nei
periodi
di
guerra,
le
tribù
si
sono
sempre
federate,
eleggendo
un
capo,
il
tonqui.
Questo
dimostra
quanto
al
di
là
dei
vincoli
di
sangue,
esista
un
complesso
di
leggi
comuni
che
definisce
questo
mosaico
di
popoli
indigeni
come
un
unico
vero
popolo.
Un
popolo
fiero,
ribelle,
disinteressato,
che
non
ha
più
intenzione
di
abbassare
la
testa
e
che
si
batte
per
ottenere
ogni
brandello
di
terra
sottrattogli
illegalmente.
La
riconquista
di
territorio
praticata
ha
anche
introdotto
un’importante
novità
dal
grande
valore
simbolico:
le
terre
liberate
non
diventano
di
proprietà
di
gruppi,
famiglie
o
individui
Mapuche
ma
tornano
ad
essere
“territorio
ancestrale”,
una
sorta
di
proprietà
allargata,
collettiva
e
popolare.
In
altre
parole
questi
indios
hanno
fatto
del
suolo
che
calpestano
il
patrimonio
condiviso
della
loro
gente.
Ecco
perché
questa
reconquista
indigena
ha
molto
da
insegnare.
Una
lunga
marcia
quella
intrapresa,
che
dura
da
mezzo
millennio
e
non
sembra
intenzionata
a
fermarsi
prima
della
vittoria,
prima
del
ritorno
di
questo
popolo
sulla
terra
dei
loro
antenati.
Il
fronte
cileno
In
Cile
i
Mapuche
sono
800.000,
circa
il
10%
della
popolazione.
Durante
la
dominazione
dei
conquistadores,
la
nazione
Mapuche
si
estendeva
a
sud
del
rio
Bio-Bio,
fiume
che
aveva
sempre
rappresentato
il
limes
naturale
fra
potere
spagnolo
e
autonomia
indigena.
Nel
Cile
moderno
però
l’esistenza
di
questo
popolo
rappresentava
un
problema:
il
confine
andava
spostato
molto
più
a
sud
e
così,
fra
il
1863
ed
il
1883,
veniva
portato
a
termine
la
conquista
dell’ultimo
brandello
di
terra
indigena,
quello
a
sud
del
Bio-Bio.
Sono
anni
in
cui
la
politica
cilena
favorisce
il
latifondo,
promuovendo
una
politica
mirata
a
privare
questo
popolo
anche
delle
basi
materiali
della
propria
sopravvivenza,
attraverso
un
generale
processo
di
pauperizzazione
ed
esclusione
sociale.
Semplicemente
nel
Cile
moderno
non
c’è
altro
spazio
per
altra
etnia
se
non
per
i
cileni.
La
questione Mapuche
resta
sotto
traccia
fino
al
secondo
dopoguerra,
quando
emerge
di
pari
passo
con
la
questione
agraria.
Il
primo
governo
ad
affrontare
il
problema
è
quello
di
Eduardo
Frei
Montalva,
leader
della
Democrazia
Cristiana
che
propone
una
riforma
agraria,
orientata
alla
redistribuzione
delle
terre
dei
latifondisti
all’inizio
degli
anni
Sessanta.
Ma
sarà
solo
con
il
successivo
governo
Allende
che
il
processo
si
metterà
realmente
in
moto,
attraverso
la
restituzione
di
200.000
ettari
di
terreni
al
popolo
Mapuche.
Tuttavia
dopo
il
golpe
del
settembre
1973,
Pinochet
si
dimostrerà
particolarmente
attento
ad
annullare
tutte
queste
conquiste,
fermando
il
processo
di
restituzione
delle
terre.
Circa
il
65%
di
quelle
restituite
ai
Mapuche
furono
nuovamente
consegnate
in
mano
alla
grande
proprietà
terriera
e
molte
altre
furono
destinate
a
fini
speculativi.
Queste
terre
cessavano
di
essere
indigene
ed
ufficialmente
venivano
affidate
a
proprietari
privati
mentre
alcuni
dei
leader
della
comunità
furono
arrestati
ed
altri
addirittura
uccisi.
La
riscossa
Mapuche
però
inizia
sul
finire
degli
anni
Settanta.
In
quegli
anni
fioriscono
vari
gruppi
ed
associazioni
culturali
indigene
di
diverso
orientamento,
interessate
a
rivendicare
diritti
e
autonomia
ma
soprattutto
a
diffondere
una
nuova
coscienza
indigena.
Ufficialmente
solo
con
il
1987
tutte
queste
associazioni
si
riuniscono
nel
Coordinamento
Nazionale Mapuche,
che
ha
come
obiettivo
il
riconoscimento
ufficiale
della
loro
autonomia
ed
esistenza
come
popolo,
almeno
a
livello
costituzionale.
Nella
costituzione
cilena
infatti
non
esisteva
nessun
accenno
ai
diritti
indigeni.
La
“politicizzazione”
della
comunità
inoltre
aveva
favorito
una
generica
presa
di
coscienza
da
parte
di
tutte
le
minoranze
del
paese,
sfociata
nella
costruzione
del
Consiglio
Nazionale
dei
Popoli
Indigeni.
Proprio
in
quegli
anni
di
crisi
della
dittatura
cilena,
in
cui
iniziava
una
lenta
fase
di
transizione
verso
la
democrazia,
la
comunità
Mapuche
decideva
di
percorre
una
via
eminentemente
politica,
firmando
il 1
dicembre
1989
il
patto
di
“Nueva
Imperial”.
Questo
accordo,
prometteva
un
pieno
riconoscimento
dei
diritti
del
popolo
indigeno
oltre
che
una
serie
di
interventi
di
tutela
fra
cui
la
creazione
di
un
fondo
della
Corporazione
per
lo
sviluppo
indigeno.
Nei
primi
anni
Novanta
la
comunità
portava
a
termine
una
serie
di
riappropriazioni
simboliche,
strappando
almeno
temporaneamente
alla
speculazione
il
loro
patrimonio
sacro.
Occupazioni
simboliche,
spesso
di
breve
durata
che
segnarono
l’inizio
di
una
opposizione
di
massa
favorita
anche
da
una
serie
di
iniziative
legali,
orientate
a
sensibilizzare
l’opinione
pubblica
sulla
questione
Mapuche.
La
cesura
del
1997
È il
1997
l’anno
fondamentale
per
la
resistenza
indigena.
La
costruzione
della
diga
di Ralco
è
l’oggetto
del
contendere:
la
comunità
pewenka,
di
etnia
Mapuche,
è
contraria
al
progetto
mentre
lo
stato
cileno
ritiene
l’opera
indispensabile.
La
costruzione
dell’enorme
infrastruttura
causerebbe
un
esodo
immenso,
quasi
una
diaspora,
in
cui
intere
comunità
sarebbero
costrette
a
lasciar
le
proprie
case,
i
propri
luoghi
sacri
e le
proprie
terre.
Anche
gli
organi
di
rappresentanza
indigena,
creati
con
gli
accordi
del
1989,
si
oppongono
ma
il
loro
parere
non
viene
neanche
preso
in
considerazione.
Ogni
opposizione
deve
tacere
e la
repressione
del
dissenso
è
l’unica
risposta
che
lo
stato
cileno
riesce
a
formulare.
La
costruzione
della
diga
di
Ralco
è
una
priorità
assoluta
e
quindi
andrà
realizzata
anche
sulla
pelle
delle
popolazioni
locali.
A
questo
punto
avviene
un
salto
di
qualità
nella
tattica
dei
Mapuche:
esaurite
le
vie
legali
e
svuotata
di
senso
la
rappresentanza
politica,
la
lotta
si
radicalizza.
Cominciano
sabotaggi,
incendi,
piccoli
attacchi
ai
macchinari
delle
imprese
impegnate
nel
saccheggio
della
loro
terra.
Nascono
nuove
associazioni,
con
caratteri
più
marcatamente
anticapitalistici,
che
uniscono
al
patrimonio
culturale
indigeno
una
profonda
critica
del
neo-liberismo
e
della
società
contemporanea.
Questa
radicalità
diffusa
scatena
una
feroce
repressione
che
sfrutta
l’assetto
fortemente
autoritario
del
codice
penale
cileno,
ereditato
dalla
dittatura
di
Pinochet.
Due
le
principali
“armi
legali”
usate
per
sconfiggere
i
Mapuche:
la
legge
sulla
sicurezza
interna
-
che
limita
la
difesa
in
sede
processuale
degli
imputati
- e
la
legge
antiterrorismo
-
testimoni
anonimi,
pene
spropositate
e
regimi
carcerari
speciali
-.
Tutto
ciò
contribuisce
a
infliggere
ai
Mapuche
pene
detentive
spropositate:
per
un
incendio
di
un
macchinario
di
un’impresa
forestale
oltre
dieci
anni,
per
un
viso
travisato
in
una
manifestazione
più
di
tre
anni.
In
questo
il
Cile
democratico
altro
non
sembra
che
una
copia
“ripulita”
di
quello
di
Pinochet
e la
Concertation
- il
governo
di
coalizione
fra
socialisti
e
democristiani
che
ha
guidato
in
paese
negli
ultimi
vent’anni
– in
fondo
somiglia
molto
da
vicino,
ad
una
giunta
militare
senza
divisa.
Il
fronte
argentino
In
Argentina
i
Mapuche
sono
circa
400.000
e
sono
concentrati
nella
regione
di
Rio
Negro,
del
Neoquen
e
del
Chubut
nella
Patagonia
argentina.
Il
processo
di
nation
building,
anche
qui
come
in
Cile,
è
stato
fatto
sulla
pelle
delle
popolazioni
indigene.
Sul
finire
dell’Ottocento,
il
progetto
dei
leader
di
Buenos
Aires
era
quello
di
fare
del
paese
una
grande
potenza
agricola.
Occorreva
quindi
cacciare
tutti
quei
popoli
che
abitavano
le
sterminate
praterie
della
Patagonia
che
accarezzano
le
Ande,
per
sfruttare
le
sconfinate
risorse
di
quelle
zone.
Il
compito
fu
inizialmente
affidato
alle
armi
e
molte
sono
state
le
spedizioni
militare
di
conquista
mascherate
da
guerre
patriottiche.
Successivamente
invece
è
stata
favorita
una
penetrazione
economica
di
coloni
di
origine
europea,
generosamente
sovvenzionati
dallo
stato
con
enormi
appezzamenti
terrieri.
Durante
il
periodo
peronista
e la
dittatura
dei
generali,
la
questione
Mapuche
non
era
neanche
motivo
di
discussione,
non
esisteva:
continuava
una
politica
di
favoreggiamento
verso
la
grande
proprietà
terriera
ed i
diritti
indigeni
venivano
violati
in
continuazione.
Il
punto
più
basso
però
doveva
ancora
essere
toccato:
durante
la
fase
di
transizione
alla
democrazia,
nel
pieno
della
crescita
economica,
sono
iniziati
ad
emergere
problemi
di
natura
speculativa
su
quel
pezzo
di
Patagonia
un
tempo
Mapuche.
A
partire
dagli
anni
Ottanta,
enormi
appezzamenti
venivano
comprati
da
aziende
multinazionali,
sulla
base
di
titoli
di
proprietà
spesso
fittizi,
ottenuti
con
la
complicità
dello
stato
argentino.
Questa
svendita
vedeva
la
ferma
opposizione
dei
nativi
che
hanno
iniziato
un
braccio
di
ferro
con
le
multinazionali
di
vari
settori
-
dal
tessile
all’agricolo,
dall’energetico
al
minerale
-
intenzionate
ad
avviare
uno
sfruttamento
selvaggio
nel
loro
territorio.
In
quegli
anni
la
lotta
indigena
si
concentra
su
battaglie
legali
contro
la
speculazione,
con
l’occupazione
di
terre
espropriate
illegalmente
ma
anche
attraverso
una
profonda
indagine
ambientale
sul
saccheggio
perpetrato
dalle
aziende
private.
Le
principali
organizzazioni
di
resistenza
nate
in
quegli
anni,
il
Consejo
Asesor
Indigena
e la
Confederazione
Mapuche
del
Neoquen,
individuano
come
nemici
lo
stato
-
che
aveva
rubato
le
loro
terre
- ma
soprattutto
le
aziende
multinazionali
intenzionate
a
prosciugare
la
loro
“pachamama”.
Negli
ultimi
dieci
anni
i
Mapuche
sono
riusciti
a
riconquistare
oltre
200.000
ettari,
attraverso
scontri
anche
duri
con
la
polizia,
occupazioni
di
terre
e
battaglie
di
natura
legale.
Benetton
vs
Mapuche
Terra
ricchissima
di
materie
prime,
la
Patagonia
ha
attirato
uomini
d’affari,
aziende
di
stato,
multinazionali
ed
imprenditori
da
ogni
parte
del
mondo.
Nel
1991
la
Benetton
ha
acquistato
900.000
ettari
di
terreno
da
una
società
immobiliare
inglese,
diventando
il
più
grande
latifondista
del
paese
sudamericano
e
una
delle
principali
aziende
straniere
ad
avere
interessi
in
Argentina.
Le
comunità
Mapuche
si
sono
sempre
opposte
a
questa
vendita,
sostenendo
che
queste
terre
fossero
di
proprietà
indigena,
sottratte
irregolarmente
dallo
stato
per
essere
poi
cedute
a
privati.
Verso
la
metà
degli
anni
Novanta
inizia
un
contenzioso
giudiziario
infinito,
soprattutto
in
seguito
all’introduzione
nel
1994
nella
costituzione
argentina
di
un
articolo
sui
diritti
delle
popolazioni
indigene.
Da
una
parte
si
schierano
le
famiglie
e le
comunità
indigene,
dall’altra
l’azienda
italiana,
nel
mezzo
la
mediazione
interessata
dello
stato
argentino.
Il
caso
ha
avuto
risalto
internazionale
quando
nel
2004
il
premio
Nobel
argentino
Adolfo
Perez
Esquivel
ha
scritto
una
lettera
a
Luciano
Benetton,
cui
chiedeva
la
restituzione
di
terra
ai
nativi.
Questo
ha
acceso
i
riflettori
sulla
vicenda,
spingendo
l’azienda
a
cercare
una
mediazione
attraverso
la
restituzione
di
alcune
terre,
rifiutata
però
dalle
organizzazioni
Mapuche.
Poco
dopo
il
silenzio
è
tornato
assordante.
Il
centro
della
questione
è
che
i
Benetton
impugnano
un
regolare
contratto
di
vendita
e
formalmente
sono
inattaccabili,
ma i
Mapuche
contestano
la
veridicità
di
questo
ragionamento.
Quelle
terre
sono
state
vendute
dall’Argentina,
senza
che
lo
stato
le
avesse
mai
realmente
possedute
e
sono
patrimonio
di
una
comunità
che
non
intende
rinunciarvi.
La
giustizia
argentina
ha
avuto
un
atteggiamento
ambiguo,
sostenendo
nei
vari
gradi
di
giudizio
le
ragioni
prima
degli
indios,
poi
quelle
dei
Benetton
e
viceversa.
Chissà
se
il
Wallmapu,
la
nazione
Mapuche,
continuerà
la
sua
esistenza
in
libertà,
felice
e
fiera
delle
sue
tradizioni
intatte
da
generazioni,
oppure
se
verrà
addomestica,
diventando
una
remota
provincia
divisa
fra
Argentina
e
Cile.
Quello
che
appare
sicuro
è
che
per
il
momento
questo
popolo
non
è
intenzionato
ad
arrendersi.