N. 148 - Aprile 2020
(CLXXIX)
LO
STIVALE
SCALZATO
STORIA
DI
UN
VIAGGIO
“MEMORABILE”
AL
TEMPO
DEL
COVID
di
Simone
Valtieri
I
viaggi
più
memorabili
di
una
vita:
Islanda;
Hawaii;
rientro-a-casa-da-Milano-a-Viterbo.
“Viaggi”,
non
ho
sbagliato
vocabolo
nel
definire
quanto
da
me
intrapreso
la
scorsa
domenica,
26
aprile
2020,
e
neanche
nell’accostarlo
a
due
tra
le
esperienze
più
suggestive
mai
vissute.
Solo
così
posso
definire
tale
spostamento
–
una
volta
di
routine,
stavolta
tutto
il
contrario
–
attraverso
quello
"stivale
scalzato"
che
è
oggi
l’Italia,
affascinante
nella
sua
spoglia
bellezza
e
allo
stesso
tempo
angosciante
nell’assordante
silenzio,
fortunatamente
interrotto
qua
e là
dal
canto
degli
uccelli
e
non
solo
dalle
sirene
delle
ambulanze.
E
dire
che
sono
cresciuto
preparato,
o
quasi,
a
una
situazione
del
genere
da
decine
e
decine
di
film,
fumetti
e
cartoni
animati
che
trattavano
tematiche
apocalittiche,
e
che
mi
hanno
accompagnato
durante
infanzia
e
adolescenza.
Eppure
viverla,
un’esperienza
surreale
come
questa,
ha
tutto
un
altro
sapore.
Sono
un
giornalista,
per
mestiere
raccolgo
storie
da
chi
ha
voglia
di
raccontarle,
ma è
difficile
trovarne
una
se
le
uniche
cose
che
incontri
durante
il
tuo
primo
spostamento
da
56
giorni
a
questa
parte,
sono
sparute
auto
e
qualche
bus
vuoto,
con
uno
sfondo
di
poche
persone
inguantate
e
dotate
di
mascherina
a
passeggio
con
il
proprio
cane.
È
buffo,
un
tempo
le
museruole
le
avevano
loro,
oggi
noi,
e
forse
è
uno
dei
tanti
segnali
di
questa
ribellione
della
natura
in
atto,
al
pari
dell’aria
pulita
che
stavo
respirando
in
una
delle
città
più
inquinate
del
Bel
Paese,
setacciata
da
un
accessorio
che
prima
avevo
visto
utilizzare
solo
a
qualche
turista
orientale.
Comunque,
è
stata
una
proverbiale
domenica
primaverile
quella
del
26
aprile
scorso,
e
dopo
56
giorni
(lo
ripeto,
perché
fa
impressione,
soprattutto
a
chi
come
me è
abituato
a
spostarsi
più
volte
al
mese)
chiuso
nella
stanzetta
che
ho
in
affitto
al
quarto
piano
di
un
condominio
di
Milano,
mi
accingevo
a
tornare
nella
mia
Viterbo,
passando
per
la
natìa
Roma.
Lo
spostamento
era
motivato
da
“comprovate
esigenze
lavorative”,
per
dirla
nel
linguaggio
burocratico
che
ci è
diventato
tanto
famigliare.
Sono
saltati
due
numeri
del
mensile
che
dirigo
a
Viterbo
ed è
già
ora
di
cominciare
a
lavorare
per
quello
di
giugno,
ovviamente
non
prima
di
aver
trascorso
14
giorni
d'isolamento
domiciliare
tra
le
mura
amiche.
Così,
poco
dopo
le
otto
e
mezza,
sono
uscito
di
casa
zaino
in
spalla
e mi
sono
incamminato
verso
la
Stazione
Centrale,
con
un
anticipo
fin
troppo
prudente.
Ho
incontrato
tre
auto
e
tre
cani
che
portavano
a
spasso
i
rispettivi
padroni
prima
di
scendere
le
scale
della
metropolitana
Moscova.
Una
persona
sulla
banchina,
altre
tre
sulla
metro,
nessuna
quando
sono
arrivato
a
Centrale...
neanche
quella
volta
che
rimasi
appiedato
a
mezzanotte
e
mezza
con
la
stazione
ormai
chiusa
vidi
meno
gente.
Le
prime
persone
avvistate
sotto
l’enorme
volta
sono
le
poche
in
fila
al
posto
di
blocco
della
polizia.
Attendo
diligentemente
il
mio
turno
a
due
metri
abbondanti
di
distanza
da
chi
mi
precede
e
consegno
a un
militare
documenti
e
autocertificazione.
Lui
confonde
Viterbo
con
Latina
prima
di
domandarmi
per
quale
motivo
mi
stia
muovendo.
Appena
inizio
a
parlare
mi
interrompe
dicendo:
“insomma,
per
lavoro?”.
Il
tempo
di
consegnare
il
tutto
al
suo
superiore,
che
credo
abbia
immesso
il
numero
della
mia
carta
d’identità
nel
sistema,
e mi
lasciano
passare
augurandomi
buon
viaggio.
Mi
danno
un
tagliandino
con
su
scritto
“Controllato
Gate
C”:
mi
sono
sentito
come
se
avessi
attraversato
Checkpoint
Charlie
a
Berlino
ai
tempi
della
Guerra
Fredda.
Già
avevo
deciso
di
incorniciarlo
e
appenderlo
al
muro
come
ricordo,
ma
mi è
stato
sottratto
non
appena
il
mio
treno
è
giunto
sul
binario.
Serviva,
in
pratica,
a
distinguermi
da
coloro
che
erano
arrivati
con
altri
treni
e
dovevano
dunque
uscire
e
passare
per
i
controlli
prima
di
poter
proseguire
il
viaggio.
Arrivo
fino
al
vagone
5,
ma
mi
rimandano
indietro
al
9,
che
è
vuoto
e,
dunque,
con
un
maggiore
spazio
per
attuare
il
“distanziamento
sociale”.
Viaggio
comunque
in
fondo
al
compartimento
non
distante
da
altre
due
passeggere.
La
prima,
seduta
davanti
a
me,
era
una
bellissima
donna
campana
che
tornava
a
casa
dopo
tre
mesi
senza
vedere
la
figlia
di
sette
anni,
la
quale,
ho
appreso
(era
inevitabile
sentire
le
sue
telefonate),
piangeva
tutte
le
notti
in
sua
assenza.
Ha
avuto
bisogno
di
un
certificato,
che
il
marito
le
ha
spedito
dopo
aver
portato
la
figlia
dal
medico,
per
poter
rientrare
a
casa.
La
seconda,
accanto
a me
ma
dall’altra
parte
della
carrozza,
era
invece
una
giovane
studentessa
di
Formia
(se
l’ha
controllata
lo
stesso
militare
che
ho
beccato
io,
magari
stavolta
con
Latina
c’ha
preso...),
che
mi
ha
detto
di
aver
passato
la
Pasqua
in
estrema
solitudine,
un
segmento
di
storia
semplice
ma
comune
a
moltissimi
suoi
coetanei
di
questi
tempi.
Non
so
con
quale
motivazione
viaggiasse,
e
comunque
–
saranno
anche
per
queste
mascherine
che
celano
i
volti
esaltando
l’intensità
degli
sguardi
–
aveva
due
occhi
tra
i
più
belli
che
abbia
mai
visto.
Non
abbiamo
chiacchierato
molto
tra
noi
tre,
è
stato
predominante
il
tempo
passato
con
la
testa
china
sullo
smartphone
a
comunicare
con
chi
ci
aspettava
a
casa.
Anche
se
questo
non
valeva
troppo
per
me,
a
dirla
tutta.
Non
perché
non
sia
schiavo
anch’io
di
questo
“black
mirror”
che
ci
portiamo
appresso,
ma
perché
non
avevo
detto
a
quasi
nessuno
che
sarei
rientrato.
Avrei
dovuto
fare
ritorno
a
Viterbo
già
il
24
marzo,
dopo
almeno
tre
settimane
di
isolamento
per
essere
certo
di
non
aver
contratto
il
Covid,
semplicemente
sfruttando
il
diritto
di
raggiungere
la
propria
residenza.
Ma
due
giorni
prima
della
partenza
era
stato
annunciato
il
terzo
DPCM
del
governo
che
lo
vietava,
e
quello
successivo
mi
avevano
pure
cancellato
il
treno,
del
quale
già
tre
volte
era
cambiato
l’orario.
Allora
non
avevo
altre
motivazioni
lavorative
impellenti
che
mi
spingevano
a
tornare
a
casa;
d’altronde
con
i
bar
e i
locali
chiusi,
il
free
press
che
dirigo
non
poteva
essere
stampato
e
distribuito,
perciò
sono
restato
a
Milano.
Però
i
miei
affetti
a
casa
c’erano
rimasti
male,
volevano
comunque
sapermi
vicino
e al
contempo
lontano
dal
focolaio
per
eccellenza,
e in
più
i
miei
due
più
cari
amici
sono
entrambi
in
attesa
che
la
cicogna
passi
a
fargli
visita,
e
avrei
tanto
voluto
esserci.
Per
questo
motivo
ho
deciso
di
sorprenderli.
E
l’ho
deciso
nel
momento
stesso
in
cui
si è
reso
necessario
il
mio
rientro.
Peraltro,
sembrano
due
secoli
fa,
ma
allora
la
luce
in
fondo
al
tunnel
non
si
vedeva
proprio,
mentre
in
questo
viaggio
ho
visto
anche
meno
tunnel
del
solito
(grazie
a
qualche
deviazione
del
treno
dalla
solita
tratta),
e
parecchie
più
luci
dai
prati,
dalle
colline
e
dagli
specchi
d’acqua
inebriati
dal
sole.
Così,
dopo
essermi
goduto
abbondantemente
il
panorama,
sono
arrivato
a
Roma
in
perfetto
orario,
alle
14.22.
Sul
mio
treno
(l’unico
che
fende
una
volta
al
giorno
l’Italia
in
questi
tempi
di
pandemia,
portando
gente
mascherata
da
Torino
a
Napoli,
e
ritorno),
avranno
viaggiato
in
totale
una
cinquantina
di
persone,
delle
quali
forse
quindici
sono
scese
con
me
in
una
Stazione
Termini
deserta.
Che
bella
però
l’aria
di
casa...
Passato
un
altro
posto
di
blocco
sono
uscito
su
Piazza
dei
Cinquecento
e mi
sono
abbassato
un
istante
la
mascherina
per
respirarla.
Sulla
piazza
solo
autobus
e
taxi
fermi,
oltre
a
una
distesa
di
gabbiani.
Mi
sono
diretto
verso
le
piattaforme
a me
più
familiari,
quelle
del
40 e
del
64
che
ho
preso
per
una
vita
durante
gli
anni
universitari
e
non
solo,
e
sono
salito
su
un
autobus
vuoto.
Devo
dire
che,
più
che
angoscia,
ho
provato
emozione,
quasi
adrenalina.
Ho
toccato
con
mano
questo
strano
privilegio
di
poter
attraversare
la
città
più
bella
del
mondo,
dove
37
anni
e
mezzo
fa
sono
nato,
e di
farlo
a
bordo
di
un
mezzo
Atac
tutto
per
me:
pazzesco!
Non
avevo
mai
visto
Piazza
della
Repubblica
senza
una
macchina
che
turbina
attorno
alla
Fontana
delle
Naiadi
e
senza
taxi
e
Suv
parcheggiati
davanti
al
colonnato,
né
potevo
immaginare
Via
Nazionale
o
Piazza
Venezia
così
statiche.
Ma,
soprattutto,
va
ribadito,
proprio
non
riuscivo
a
credere
di
essere
su
un
autobus
vuoto
nel
centro
di
Roma!
Ho
fatto
foto
che
neanche
il
più
assiduo
turista
giapponese,
correndo
da
una
parte
all’altra
del
bus
spoglio
del
solito
brusio
e
delle
fragranze
(talvolta
olezzi)
emanate
delle
persone,
per
immortalare
questo
o
l’altro
frammento
di
una
Roma
nuda
e
sconvolgente
nella
sua
bellezza.
Sono
arrivato
in
una
manciata
di
minuti
alla
Chiesa
Nuova,
dove
sono
sceso
a
salutare
i
miei
cugini
(tra
i
pochissimi
che
sapevano
del
mio
rientro)
mantenendo
i
due
metri
di
distanza.
Un’emozione
vera,
stemperata
subito
da
qualche
battuta
sul
fatto
che
non
ci
si
poteva
abbracciare,
ma
nessuno
ci
avrebbe
impedito
di
fare
un
selfie
prospettico
simulando
tale
abbraccio.
Qualche
parola
con
loro
e
subito
sono
salito
sull’autobus
successivo,
che
mi
avrebbe
portato
alla
stazione
di
San
Pietro
in
dieci
minuti.
Il
treno
per
Viterbo
sarebbe
passato
proprio
dieci
minuti
dopo,
e io
vi
sono
salito
a
bordo
un
battito
d’ala
di
gabbiano
prima
che
si
chiudessero
le
porte
e
che
mi
lasciassi
alle
spalle
l’amato
“Cuppolone”.
L’avessi
perso,
avrei
dovuto
attendere
altre
due
ore,
visto
che
di
domenica
i
collegamenti
tra
le
mie
due
città
(in
una
ci
sono
nato
e vi
ho
studiato,
nell’altra
ci
sono
cresciuto
e
tornato
a
vivere)
sono
più
radi.
Ma
probabilmente
non
mi
sarebbe
neanche
dispiaciuto,
anche
se
domenica
era
una
di
quelle
giornate
in
cui
tutto
fila
liscio,
lo
senti
nell’aria,
persino
quand’è
filtrata
da
una
mascherina.
Su
quel
treno
da
Ostiense
a
Porta
Romana,
ci
ho
passato
letteralmente
una
vita
a
fare
su e
giù,
ma
salirvi
e
trovarlo
anch’esso
semivuoto,
è
stata
l’ennesima
probante
esperienza
di
giornata.
Mi
sono
subito
recato
nella
prima
carrozza
e ho
chiesto
al
controllore
se
fosse
possibile
fare
il
biglietto,
visto
che
con
l’app
non
c’ero
riuscito
e
che
ero
salito
in
extremis
a
bordo.
Lui,
peraltro
sosia
di
un
mio
caro
amico,
mi
ha
invitato
a
sedere
dicendomi
che
mi
avrebbe
raggiunto
più
tardi.
Nella
carrozza
con
me
c’erano
due
signore,
entrambe
scese
prima
di
Bracciano.
Da
lì
in
poi
il
treno
ha
viaggiato
con
un
solo
passeggero,
e
quel
tragitto
da
un’ora
e
quarantacinque
minuti
che
ai
tempi
dell’Università
mi
sembrava
infinito,
è
passato
in
un
attimo.
Giusto
il
tempo
di
sincronizzarsi
con
quei
pazzi
dei
miei
amici
(altri
sparuti
che
sapevano
del
mio
ritorno),
che
mi
hanno
mandato
incontro
un
drone
a
riprendermi
mentre
salutavo
dal
finestrino,
e
sono
arrivato
a
Porta
Romana.
Il
controllore,
alla
fine,
il
biglietto
non
me
l’ha
più
fatto.
Gli
ho
domandato
a
tal
proposito,
ma
mi
ha
sorriso
farfugliando
di
un
guasto
sul
suo
dispositivo.
Così
ho
incassato,
ringraziato,
e
sono
sceso
nella
mia
Viterbo.
Restava
un’ultima
cosa
da
fare:
raggiungere
casa
e
avvisare
la
ASL
di
essere
rientrato
da
una
ex
zona
rossa,
certo,
ma
non
intendevo
questa,
ce
n’era
una
ancora
più
importante.
Nel
tornare
alla
mia
abitazione
il
tragitto
prevede
il
passaggio
sotto
casa
di
mamma
e
papà.
Ebbene,
lui
sapeva
del
mio
rientro
(sì,
cominciano
a
essere
tanti
quelli
che
ne
erano
a
conoscenza,
ma
vi
assicuro
che
sono
sempre
pochi
rispetto
a
chi
ne
era
all’oscuro),
anche
perché
ha
avuto
il
compito
nei
giorni
scorsi,
tra
le
altre
cose,
di
riempirmi
il
frigorifero.
Lei
invece
non
ne
aveva
idea.
Mamma
era
anche
stata
subdolamente
depistata
dal
sottoscritto,
che
il
giorno
prima,
videochiamandola,
aveva
simulato
di
essere
in
procinto
di
andare
a
fare
un’abbondante
spesa
in
vista
dei
prossimi
giorni
milanesi.
E
così,
allertato
un
loro
vicino
di
casa
(nonché
mio
amico)
dell’imminente
rientro,
ho
anche
goduto
di
un
regista
che
filmasse
la
riuscitissima
sorpresa,
con
lei
che,
incredula,
quasi
non
mi
riconosceva
affacciata
alla
finestra.
E
non
solo
per
la
barba
da
quarantena
che
sto
indossando
in
questi
giorni
e
che
ho
deciso
di
tagliare
solo
al
termine
di
questa
necessaria
limitazione
di
libertà
individuali.
Il
mio
viaggio
era
concluso,
non
la
mia
giornata,
che
è
proseguita
con
decine
e
decine
di
telefonate,
videochiamate
e
messaggi
vocali
a
parenti
e
amici,
ai
quali
ho
raccontato,
in
sintesi,
la
stessa
storia
narrata
in
queste
righe.
Sono
stato
fortunato,
e
sono
estremamente
consapevole
di
essermi
avvalso
di
un
privilegio
raro,
derivante
della
professione
che
svolgo
con
passione
e
dedizione
da
anni.
Ora,
tra
le
quattro
mura
agognate,
l’adrenalina
è
scesa,
e la
soddisfazione
per
quest’esperienza
memorabile
ha
già
lasciato
il
posto
a un
po’
di
magone,
figlio
di
un
viaggio
surreale
e
nipote
di
una
situazione
complessiva
drammatica.
Non
ho
mai
avuto
problemi
a
passare
del
tempo
da
solo.
Preferisco
la
compagnia,
certo,
ma
sto
bene
anche
con
me
stesso
e ho
sempre
tantissime
cose
da
fare,
da
leggere,
da
guardare.
Ma
mi
rendo
conto
che
questo
non
possa
valere
per
tutti,
soprattutto
per
chi
sta
pagando
un
prezzo
altissimo
per
sé e
per
i
propri
cari,
in
termini
economici
e
umani.
Soprattutto,
mi
rendo
conto
che
una
vita
senza
abbracci,
non
è
che
abbia
molto
senso
di
essere
vissuta.
Per
cui
ora
resto
qui,
aggiungendo
altri
giorni
ai
56
già
trascorsi
in
“quarantena”,
dopo
aver
assaporato
ben
otto
ore
di
libertà,
conscio
che
prima
o
poi
tutto
questo
finirà
e ci
troveremo
a
fare
i
conti
con
noi
stessi
e
con
le
scelte
fatte
nel
corso
della
vita
ante-Covid-19.
Tante
coppie
scoppieranno,
tante
se
ne
formeranno,
molti
perderanno
il
lavoro
o
magari
troveranno
la
forza
di
cambiarlo
e
reinventarsi,
o di
prendere
decisioni
capaci
di
dare
una
svolta
alle
proprie
vite.
Altrettanti
invece
non
cambieranno,
nella
loro
intrinseca
staticità,
e
quasi
sicuramente
il
mondo
tornerà
a
essere
più
inquinato,
dopo
la
boccata
d’aria
respirata
grazie
all’immobilità
dei
propri
abitanti
più
indisciplinati
(gli
esseri
umani,
ovviamente).
Ciò
che
spero
è
che
se
qualcuno
si
dovesse
trovare
in
una
situazione
di
solitudine
o
isolamento
dopo
tutto
questo,
sia
per
scelta.
Magari
alla
ricerca
di
tempo
per
sé
stesso
tra
quattro
mura,
oppure
muovendosi
sul
meraviglioso
Hringvegur
islandese,
o
ancora
visitando
una
remota
isola
delle
Hawaii.
Questo
perché
mi è
rimasta
la
sensazione
che
vedere
una
singola
volta
nella
vita
questo
meraviglioso
Stivale
scalzato
sia
più
che
sufficiente.
Il
bello
"fine
a se
stesso",
se
non
lo
puoi vivere,
non
è in
fondo
il
più
grande
degli
sprechi?