[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

179 / NOVEMBRE 2022 (CCX)


arte

GUTTUSO, IL “PITTORE ROSSO NUMERO UNO”

TRA ARTE E PARTITO

di Gaetano Cellura

 

Renato Guttuso dipingeva seduto, la tavolozza disposta sopra un panchetto. Poggiava il pennello sulla tela “impugnandolo come una penna” (testimonianza di Marcello Venturoli). Fumava. Canticchiava. Discuteva e scherzava con gli amici, che non mancavano nel suo atelier: cenacolo di artisti e di intellettuali, “spazio politico” durante e dopo il fascismo.

 

Dipingere era per lui un “atto pubblico, fra amici”. Dai tempi del primo studio a Bagheria, la città natale – una stanzetta dove i contadini andavano e venivano – a quelli (di artista affermato) del “sottomarino” del Palazzo del Grillo a Roma. Lavorava molto e amava dipingere quadri di grandi dimensioni. Il più grande è stato i Funerali di Togliatti.

 

Alle sette e mezza Guttuso già respirava l’odore della trementina. Era un uomo affabile e gentile che in certi momenti diventava scontroso e diffidente. Era frugale: i cibi, le vacanze, i locali notturni, i “divertimenti” non lo interessavano. Si arrabbiava quando gli chiedevano come riuscisse a conciliare l’inconciliabile: “l’essere comunista e ricco con tanto di camerieri in guanti bianchi”.

 

«Cosa vogliono da me?» – diceva – «Perché mi invidiano? Lavoro come un mulo, vendo a un milione un quadro che ne vale quattro!».

 

Credeva nell’amicizia. Ma forse non sino al punto di anteporla alla ragion di Partito. L’amicizia di una vita con Leonardo Sciascia finì male: la politica, il Partito, il Segretario del Partito ne furono la causa. Sciascia rese pubblico il contenuto di una conversazione privata con Berlinguer, alla presenza dell’amico pittore, sugli appoggi internazionali di cui godevano le BR. Berlinguer negò ogni cosa: e nella querelle giudiziaria, di verità e di menzogna che ne seguì, Guttuso testimoniò a favore del segretario del Pci.

 

Il pittore rosso numero uno, come lo chiamarono gli americani, amava la vita. Amava viverla. E amava le donne. Sposò Mimise (Maria Luisa Dotti) nel 1950. E con Marta Marzotto visse una intensa storia d’amore. Le due donne furono per il pittore anche muse ispiratrici.

 

Ma era malinconico, divorato dall’angoscia, dai mostri che si portava dentro dall’infanzia. I mostri di Villa Palagonia, che colpirono la sua fantasia di bambino a Bagheria. Nel 1938, ricevette da Brandi una cartolina con la riproduzione di Guernica, l’amore della sua giovinezza. La tenne nel “portafoglio sino al 1943, come la tessera di un ideale Partito”. Considerava Picasso il più antiastratto dei pittori.

 

A Guttuso piaceva cantare. Cantare Lilì Marlen, inno alla libertà, durante la guerra, nel salotto di una signora romana. O accompagnare a mezza voce a Palermo, in casa di amici, Rosa Balistreri, le sue canzoni piene di strazio, amore e rancore.

 

Diceva di avere un senso religioso della vita. Praticante fino all’episodio della Crocifissione, “fu urtato dall’oscurantismo mostrato dalla Chiesa nei confronti del dipinto” (testimonianza del senatore Andreotti).

 

Tutti lo credevano ateo: in realtà soffriva di forti contrasti interiori e andava in cerca di una verità ancora più profonda della fede nella politica e nel Partito. Lo credeva ateo anche il vescovo Angelini, che lo assistette in punto di morte, sorpreso dalle parole con cui il pittore lo tolse dall’imbarazzo, facilitandogli il compito: «Don Fiorenzo» – gli disse – «io sono sempre stato cristiano». Senza contrarietà ricevette i sacramenti estremi. Era il 18 gennaio del 1987.

 

Il primo contatto con l’arte, Guttuso l’ebbe da bambino spiando il lavoro dei pittori di carretti siciliani. Fece poi pratica nello studio del pittore futurista Pippo Rizzo. Il 1929 è l’anno del suo esordio ufficiale, Guttuso ha diciassette anni. Espone a Palermo e a Roma, dove si trasferisce nel 1937. Per lui l’arte doveva avere un contenuto morale, un carattere di verità politica. Doveva essere “manifestazione di collera”. E presto sarebbe entrato in polemica con gli astrattisti che militavano nel Partito Comunista.

 

I pittori che amava di più erano Caravaggio, Goya, Géricault, Delacroix e l’amico Picasso. A Morandi, l’altro grande pittore italiano del Novecento, lo univano la concezione della pittura come “imitazione delle cose del mondo” e la malinconia.

 

Guttuso confessò di aver dato il meglio di sé come artista durante il fascismo, quando “tutto era compresso”: Fucilazione in campagna (dedicata a Garcìa Lorca, ucciso dai franchisti), Fuga dall’Etna e Crocifissione sono di quel periodo.

 

Crocifissione, pensata come la rappresentazione del “supplizio di un uomo giusto”, fu l’opera dello scandalo, dello scontro con la Chiesa, che condannò soprattutto la nudità dei personaggi. Con Marsigliese contadina, Occupazione delle terre incolte in Sicilia, Portella delle Ginestre, Zolfara siamo nella temperie del dopoguerra. Conflitti di classe e delitti di mafia. Sono gli anni del realismo sociale, da non confondere con il realismo socialista.

 

Guttuso si è allineato alle posizioni del PCI, ne diventa militante attivo e membro del comitato centrale. Ritiene un dovere dell’artista parlare agli uomini attraverso i propri quadri, cioè attraverso le proprie idee. Diceva: «Se dipingo una barricata voglio che sia chiaro da che parte mi trovi di quella barricata». Fu il suo contributo artistico alla causa del socialismo. Quanto ai diktat di Mosca e alle imposizioni del realismo socialista cui l’arte doveva sottostare, mostrò una certa autonomia difendendo la libertà dell’artista. Ma lo fece con molta prudenza. E nessuna parola spese a sostegno degli artisti ribelli perseguitati dal regime sovietico.

 

Stesso discorso per i fatti d’Ungheria del 1956. C’era anche lui alla Casa della Cultura di Milano, tra operai e militanti comunisti disorientati e in fermento, quando Mario Alicata disse che l’esercito sovietico difendeva l’indipendenza dell’Ungheria. Il pittore giustificò tutto – credo anche le parole di Alicata – dicendo poi che il comunismo era una speranza che non poteva morire e che il suo cuore, in quel momento, non sanguinava meno di quello dei compagni che avevano lasciato il Partito in seguito all’invasione sovietica.

 

Nel 1974 nella casa di Velate, tra le brume del Nord, dipinse il più mediterraneo dei suoi quadri: la Vucciria, il mercato rionale di Palermo. Lampo di nostalgia dei colori, del sole, delle voci della Sicilia lontana. Gli faceva compagnia il cane Puskin e aveva vicino scorte di whisky e di sigarette.

 

L’opera più complessa, più enigmatica di Guttuso rimane Spes contra spem. Anche questa dipinta a Velate, tra l’estate e l’autunno del 1982. E a suggerirne il titolo definitivo fu Antonello Trombadori. Werner Haftmann la considerava un’allegoria delle tre età della vita. Ma tanti altri sono, possono esserne i significati. Il tema paolino della giustificazione per la fede: «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza».

 

La speranza nella resurrezione e in un’altra vita, contro ogni speranza. O in un nuovo mondo, contro ogni speranza. La speranza, inaspettata, di vedere la propria anima liberata dai mostri. E anche il tema “courbetiano” dell’enigma. Che scioglierà chi potrà. Ma forse Spes contra spem è soltanto un addio anticipato. Nel raccoglimento. E nel silenzio. Poi spezzato dalle polemiche sul suo testamento.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]