GUTTUSO, IL “PITTORE ROSSO NUMERO
UNO”
TRA ARTE E PARTITO
di Gaetano Cellura
Renato Guttuso dipingeva seduto, la
tavolozza disposta sopra un
panchetto. Poggiava il pennello
sulla tela “impugnandolo come una
penna” (testimonianza di
Marcello Venturoli). Fumava.
Canticchiava. Discuteva e scherzava
con gli amici, che non mancavano nel
suo atelier: cenacolo di artisti e
di intellettuali, “spazio politico”
durante e dopo il fascismo.
Dipingere era per lui un “atto
pubblico, fra amici”. Dai tempi del
primo studio a Bagheria, la città
natale – una stanzetta dove i
contadini andavano e venivano – a
quelli (di artista affermato) del
“sottomarino” del Palazzo del Grillo
a Roma. Lavorava molto e amava
dipingere quadri di grandi
dimensioni. Il più grande è stato i
Funerali di Togliatti.
Alle sette e mezza Guttuso già
respirava l’odore della trementina.
Era un uomo affabile e gentile che
in certi momenti diventava scontroso
e diffidente. Era frugale: i cibi,
le vacanze, i locali notturni, i
“divertimenti” non lo interessavano.
Si arrabbiava quando gli chiedevano
come riuscisse a conciliare
l’inconciliabile: “l’essere
comunista e ricco con tanto di
camerieri in guanti bianchi”.
«Cosa vogliono da me?» –
diceva – «Perché mi invidiano?
Lavoro come un mulo, vendo a un
milione un quadro che ne vale
quattro!».
Credeva nell’amicizia. Ma forse non
sino al punto di anteporla alla
ragion di Partito. L’amicizia di una
vita con Leonardo Sciascia finì
male: la politica, il Partito, il
Segretario del Partito ne furono la
causa. Sciascia rese pubblico il
contenuto di una conversazione
privata con Berlinguer, alla
presenza dell’amico pittore, sugli
appoggi internazionali di cui
godevano le BR. Berlinguer negò ogni
cosa: e nella querelle
giudiziaria, di verità e di menzogna
che ne seguì, Guttuso testimoniò a
favore del segretario del Pci.
Il pittore rosso numero uno, come lo
chiamarono gli americani, amava la
vita. Amava viverla. E amava le
donne. Sposò Mimise (Maria Luisa
Dotti) nel 1950. E con Marta
Marzotto visse una intensa storia
d’amore. Le due donne furono per il
pittore anche muse ispiratrici.
Ma era malinconico, divorato
dall’angoscia, dai mostri che si
portava dentro dall’infanzia. I
mostri di Villa Palagonia, che
colpirono la sua fantasia di bambino
a Bagheria. Nel 1938, ricevette da
Brandi una cartolina con la
riproduzione di Guernica,
l’amore della sua giovinezza. La
tenne nel “portafoglio sino al 1943,
come la tessera di un ideale
Partito”. Considerava Picasso il più
antiastratto dei pittori.
A Guttuso piaceva cantare. Cantare
Lilì Marlen, inno alla
libertà, durante la guerra, nel
salotto di una signora romana. O
accompagnare a mezza voce a Palermo,
in casa di amici, Rosa Balistreri,
le sue canzoni piene di strazio,
amore e rancore.
Diceva di avere un senso religioso
della vita. Praticante fino
all’episodio della Crocifissione,
“fu urtato dall’oscurantismo
mostrato dalla Chiesa nei confronti
del dipinto” (testimonianza
del senatore Andreotti).
Tutti lo credevano ateo: in realtà
soffriva di forti contrasti
interiori e andava in cerca di una
verità ancora più profonda della
fede nella politica e nel Partito.
Lo credeva ateo anche il vescovo
Angelini, che lo assistette in punto
di morte, sorpreso dalle parole con
cui il pittore lo tolse
dall’imbarazzo, facilitandogli il
compito: «Don Fiorenzo» – gli
disse – «io sono sempre stato
cristiano». Senza contrarietà
ricevette i sacramenti estremi. Era
il 18 gennaio del 1987.
Il primo contatto con l’arte,
Guttuso l’ebbe da bambino spiando il
lavoro dei pittori di carretti
siciliani. Fece poi pratica nello
studio del pittore futurista Pippo
Rizzo. Il 1929 è l’anno del suo
esordio ufficiale, Guttuso ha
diciassette anni. Espone a Palermo e
a Roma, dove si trasferisce nel
1937. Per lui l’arte doveva avere un
contenuto morale, un carattere di
verità politica. Doveva essere
“manifestazione di collera”. E
presto sarebbe entrato in polemica
con gli astrattisti che militavano
nel Partito Comunista.
I pittori che amava di più erano
Caravaggio, Goya, Géricault,
Delacroix e l’amico Picasso. A
Morandi, l’altro grande pittore
italiano del Novecento, lo univano
la concezione della pittura come
“imitazione delle cose del mondo” e
la malinconia.
Guttuso confessò di aver dato il
meglio di sé come artista durante il
fascismo, quando “tutto era
compresso”: Fucilazione in
campagna (dedicata a Garcìa
Lorca, ucciso dai franchisti),
Fuga dall’Etna e
Crocifissione sono di quel
periodo.
Crocifissione,
pensata come la rappresentazione del
“supplizio di un uomo giusto”, fu
l’opera dello scandalo, dello
scontro con la Chiesa, che condannò
soprattutto la nudità dei
personaggi. Con Marsigliese
contadina, Occupazione delle
terre incolte in Sicilia,
Portella delle Ginestre,
Zolfara siamo nella temperie del
dopoguerra. Conflitti di classe e
delitti di mafia. Sono gli anni del
realismo sociale, da non confondere
con il realismo socialista.
Guttuso si è allineato alle
posizioni del PCI, ne diventa
militante attivo e membro del
comitato centrale. Ritiene un dovere
dell’artista parlare agli uomini
attraverso i propri quadri, cioè
attraverso le proprie idee. Diceva:
«Se dipingo una barricata voglio
che sia chiaro da che parte mi trovi
di quella barricata». Fu il suo
contributo artistico alla causa del
socialismo. Quanto ai diktat di
Mosca e alle imposizioni del
realismo socialista cui l’arte
doveva sottostare, mostrò una certa
autonomia difendendo la libertà
dell’artista. Ma lo fece con molta
prudenza. E nessuna parola spese a
sostegno degli artisti ribelli
perseguitati dal regime sovietico.
Stesso discorso per i fatti
d’Ungheria del 1956. C’era anche lui
alla Casa della Cultura di Milano,
tra operai e militanti comunisti
disorientati e in fermento, quando
Mario Alicata disse che l’esercito
sovietico difendeva l’indipendenza
dell’Ungheria. Il pittore giustificò
tutto – credo anche le parole di
Alicata – dicendo poi che il
comunismo era una speranza che non
poteva morire e che il suo cuore, in
quel momento, non sanguinava meno di
quello dei compagni che avevano
lasciato il Partito in seguito
all’invasione sovietica.
Nel 1974 nella casa di Velate, tra
le brume del Nord, dipinse il più
mediterraneo dei suoi quadri: la
Vucciria, il mercato rionale di
Palermo. Lampo di nostalgia dei
colori, del sole, delle voci della
Sicilia lontana. Gli faceva
compagnia il cane Puskin e aveva
vicino scorte di whisky e di
sigarette.
L’opera più complessa, più
enigmatica di Guttuso rimane Spes
contra spem. Anche questa
dipinta a Velate, tra l’estate e
l’autunno del 1982. E a suggerirne
il titolo definitivo fu Antonello
Trombadori. Werner Haftmann la
considerava un’allegoria delle tre
età della vita. Ma tanti altri sono,
possono esserne i significati. Il
tema paolino della giustificazione
per la fede: «Egli ebbe fede
sperando contro ogni speranza».
La speranza nella resurrezione e in
un’altra vita, contro ogni speranza.
O in un nuovo mondo, contro ogni
speranza. La speranza, inaspettata,
di vedere la propria anima liberata
dai mostri. E anche il tema
“courbetiano” dell’enigma. Che
scioglierà chi potrà. Ma forse
Spes contra spem è soltanto un
addio anticipato. Nel raccoglimento.
E nel silenzio. Poi spezzato dalle
polemiche sul suo testamento.