N. 93 - Settembre 2015
(CXXIV)
“ESISTE SCELTA CHE ESCLUDA LA COLPA?”
DALLA CIVILTÀ DELLA VERGOGNA ALLA CIVILTÀ
DELL’ATTESA - PARTE IV
di
Paola Scollo
Sofocle può essere considerato l’ultimo esponente della concezione arcaica delle leggi fondata sulla consapevolezza del limite che separa l’uomo dagli dèi. In un contesto storico segnato dalla crisi irreversibile determinata dalla guerra del Peloponneso, il tragediografo mette in scena un universo etico sconvolto dal dubbio e dall’ambiguità.
A
dominare
è il
dramma
dell’individuo
scisso
tra
il
desiderio
di
partecipare
estaticamente
della
visione
del
divino
e il
senso
del
limite
che
si
oppone
a
tale
anelito.
Il
contrasto
è
duplice:
è
dell’individuo
rispetto
alla
collettività
e
dell’individuo
rispetto
allo
Stato.
Edipo,
Aiace,
Filottete,
Antigone
e
Creonte
non
sono
che
alcuni
dei
personaggi
simbolo
di
questo
insanabile
dibattimento
che
culmina
in
un
frustrante
isolamento.
La
solitudine
è la
condanna
di
chi
non
accoglie
i
principi
che
regolano
la
realtà,
basati
sul
dolore
e
sulla
conoscenza
del
dolore.
Unico
rimedio
per
contrastare
tale
destino
è la
rivendicazione
del
proprio
io
e
l’affermazione
della
propria
solitudine.
In
Sofocle
il
passaggio
dalla
civiltà
della
vergogna
alla
civiltà
della
colpa
può,
pertanto,
dirsi
compiuto.
L’eroismo
dei
personaggi
omerici
si
spegne
definitivamente
insieme
alla
follia
di
Aiace,
all’emarginazione
di
Filottete
o
alla
forza
di
Antigone,
le
cui
vicende
sono
cruda
consapevolezza
della
fragilità
umana
di
fronte
alla
Necessità
della
potenza
divina.
Ma
il
personaggio
sofocleo
non
è
soltanto
emarginato
dalla
collettività:
è
abbandonato
anche
dalla
divinità.
Il
distacco
tra
uomo
e
dio
è
divenuto
frattura
insanabile,
per
cui
all’uomo
non
resta
che
accettare
il
proprio
limite
e
sottomettersi
alla
divinità.
La
conoscenza
di
un
ordine
cosmico
è
dunque
sapienza
inaccessibile:
l’uomo
non
ha
conoscenza
di
sé
ma,
in
primis,
non
ha
conoscenza
degli
dèi.
Nel
dramma
sofocleo
alcuni
individui
appaiono
portatori,
talvolta
anche
inconsapevoli,
di
una
macchia
di
colpevolezza.
Di
qui
l’inevitabile
sofferenza
imposta
dagli
dèi,
non
semplicemente
garanti
del
kosmos
universale
e
della
polis,
ma
anche
giudici
dei
colpevoli.
Il
dolore
umano
è
destinato
a
ripetersi
e ad
ampliarsi
fino
a
investire
l’essenza
stessa
della
vita
e
dell’essere
al
mondo.
Esplicito,
in
tal
senso,
l’ultimo
stasimo
dell’Edipo
re
in
cui
viene
affermata
l’infelicità
del
genere
umano:
«Quale,
quale
uomo
/
attinge
felicità
più
salda
/ di
un’illusione
che
balugina/
e
rapida
declina?
/ Se
il
tuo
destino,
/ o
sventurato
Edipo,
/ se
il
tuo
destino
a
paradigma
prendo,
/
nessun
mortale
dirò
felice»
(1189
-
1195).
Interessanti
spunti
di
riflessione
sulla
nozione
di
colpa
giungono
poi
dalla
lettura
dell’Antigone,
dove
si
dispiega
il
dissidio
etico
ed
esistenziale
che
angoscia
la
società
ateniese
tra
V e
IV
secolo
a.C.:
la
contrapposizione
tra
la
fiducia
nelle
potenzialità
dell’ingegno
umano
e le
tradizionali
istituzioni
religiose
di
cui
Antigone
è
espressione.
Nell’immagine
del
tragediografo,
a
minacciare
l’ordine
cosmico,
assicurato
dalle
divinità,
è il
Destino,
ovvero
la
Natura
stessa.
È
viva
la
consapevolezza
di
una
maledizione,
determinata
da
una
colpa,
che
si
trasmette
di
generazione
in
generazione
e
che
necessita
di
essere
redenta
mediante
una
vittima
pura
e
obbediente.
L’uomo
non
rinuncia
all’azione,
ma
nella
scelta
è la
caduta
e in
ogni
decisione
si
scopre
umanamente
e
finitamente
solo.
La
scelta
umana
è,
in
sintesi,
una
scommessa
nei
confronti
dell’ignoto.
E,
in
tal
senso,
la
tragedia
non
è
che
espressione
di
questa
misteriosa
quanto
impenetrabile
verità
che
costituisce
l’essenza
della
civiltà
della
colpa:
è la
percezione
di
uno
straniamento
conseguente
all’osservazione
di
se
stessi
dall’esterno.
All’uomo
non
resta
che
uniformarsi
a
tale
ordine,
kosmos,
nel
continuo
tentativo
di
condurre
un’esistenza
secondo
natura,
physei.