N. 92 - Agosto 2015
(CXXIII)
“Esiste scelta che escluda la colpa?”
Dalla civiltà della vergogna alla civiltà dell’attesa - Parte III
di Paola Scollo
«Esiste scelta che escluda la colpa?» si interrogano gli anziani notabili di Argo nell’Agamennone, tragedia di apertura dell’Orestea. Agamennone è stato invaso da una follia miserabile che lo ha indotto a osare oltre l’estremo. Una follia che, con i suoi sconvenienti pensieri, accende i mortali. Apprendere la felicità significa nutrire speranze che strappano il pianto: «Giustizia inclina con tutto il suo peso/ verso chi ha patito, che capisca./ Puoi sapere il domani solo quando/ diventa passato» (250 - 253). L’errore umano nasce da chi esala «superbia/ e lusso oltre il giusto equilibrio» (379 - 380). Preferibile è «un’innocua fortuna/ che faccia contento/ chi nacque fornito di retto giudizio» (380).
Chi ha peccato è condannato a sperimentare silenzi umilianti, abbandonato in mezzo alla vergogna e a vane suppliche. Su di lui non scivola via lo sguardo divino: «Vendette di tenebra, col tempo,/ fanno fioco - contraccolpo brutale/ fatale - chi fu felice, ma ignorò la giustizia/ per chi finisce in questo cieco fondo/ non esiste salvezza. Godere la fama/ oltre i limiti, è rischio tremendo» (465 - 469). E la colpa - fiorente tra mortali perversi - si tramanda di padre in figlio: «L’energia del crimine/ fonda prole di crimini,/ specchio della sua tempra./ La prova: alle case in cui vige giustizia/ tocca sempre - è destino - / onorata progenie» (758 - 762).
Gli uomini hanno nel sangue fame implacabile di felicità, ma felice può dirsi solo «colui che chiuse la vita nella diletta prosperità» (923 - 925). Il dono più prezioso di dio per il mortale è disporre di un intelletto equilibrato (1331 - 1332). Tuttavia, chi conosce la propria storia ed è consapevole delle colpe dei padri non può affermare di essere nato all’ombra di un destino innocente (1338 - 1342) e con la morte è chiamato a scontare il crimine (1528 - 1529). Questa è la legge sovrana di Zeus: «È preso chi prende, chi ammazza sconta./ Chi infligge patisce: questo resiste/ finché resiste Zeus sul suo trono./ È la base di tutto./ Chi può svellere dalla casa/ questa maledetta radice?/ Catena di colpa e vendetta: ecco la vita» (1561 - 1566).
Nelle
Coefore,
secondo
dramma
della
trilogia,
si
consuma
la
vendetta
nei
confronti
di
Egisto
e
Clitemnestra,
uccisori
di
Agamennone.
«Morte
a
compenso
di
morte!»
è
questo
il
chiaro
suggerimento
che
giunge
da
Apollo
a
Oreste,
deciso
a
punire
gli
assassini
del
padre.
Anche
Elettra,
rivolgendosi
al
coro,
invoca
giustizia:
«Verrà
un
giorno
che
Zeus
-
saette/
gli
sbocciano
in
mano
-
cali/
il
suo
pegno
e
spacchi
teste?
Aaahh!/
Sia
lui
garante,
di
fronte
al
paese!/
Io
reclamo
giustizia
contro
i
delitti./
Odimi
Terra,
e
voi,
Maestà
dell’abisso!/»
(394
-
399).
Emerge,
dunque,
l’amara
consapevolezza:
«Delitto
strepitando
attira
Vendetta:
lei,
pronta,/
-
spira
da
quelli
uccisi
in
passato
-/
ammucchia
a
perdizione
fresca
perdizione»
(402
-
404).
«Su
lei
che
amava
i
colpi
furtivi/
Vendetta
piombò,
che
obliqua
trama./
Nella
lotta
gli
mosse
la
mano/
la
figlia
autentica
di
Zeus
-
Dike,
Giustizia
noi
la
chiamiamo]/
con
intuito
felice-/
soffio
travolgente
di
rancore/
contro
i
nemici/»
(946
-
951).
E
così
giunge
Giustizia
«matura
d’anni»
(956).
Lo
strazio
del
colpevole
attraversa
e
giunge
a
compimento
nelle
Eumenidi
laddove,
nell’inseguimento
di
Oreste
da
parte
delle
Erinni,
viene
ritratto
lo
scontro
fra
la
primigenia
società
matriarcale
e la
nascente
società
patriarcale,
destinata
a
trionfare:
«Nell’occhio
precipitoso
del
gorgo/
implora,
e
nessuno,
nessuno
lo
ode./
La
divinità
sorride
su
quella
testa
calda,/
che
mai,
alla
superbia,
si
prevedeva/
spossato
da
ferreo
spasimo,/
troppo
debole
per
valicare
i
flutti./
La
floridezza
dell’antica
vita/
cozza
sullo
spuntone
di
Giustizia/
ed
egli
sfuma
nel
buio./
Nessuno
lo
geme»
(558
-
565).
Oreste
dichiara
che,
in
questo
“scambio
di
morte
a
vendetta
del
padre”,
un
altro
è
corresponsabile:
«l’Obliquo
che
gli
profetava
tormenti,
chiodi
del
cuore
se
non
si
fosse
fatto
esecutore
di
chi
aveva
tramato
il
delitto»
(465
-
467).
Chiamata
a
pronunciarsi
sul
colpevole,
Atena
rimanda
la
decisione
al
fiore
del
popolo,
ossia
ai
«giudici
immacolati,
rispettosi
delle
cose
giurate,
chiamati
a
sentenziare
sui
delitti
di
sangue:
fondamento
di
giustizia,
teso
all’eterno»
(482a
-
484).
È
dunque
il
giudizio
dell’Aeropago
a
ristabilire
l’equilibrio,
ponendo
fine
alla
catena
di
delitti
che
chiamano
ulteriori
delitti
attraverso
il
reintegro
del
colpevole
nella
collettività.
In
seguito
all’affermazione
del
diritto
civile
e
alla
nascita
di
una
società
rigenerata
che
ha
espiato
le
proprie
colpe,
le
Erinni
vendicatrici
si
trasformano
in
Eumenidi,
garanti
di
prosperità
per
la
polis
nei
secoli
successivi.
Illuminanti,
a
tal
proposito,
le
parole
di
Atena:
«Alla
fine
trionfa
Zeus
della
Giusta
causa,/
ed è
vittorioso
il
nostro
duello/
in
difesa
del
bene.
Nei
secoli»
(973
-
975).
E
«Patto
di
pace
per
eterna
fortuna/
a
favore
della
gente
d’Atene:/
lo
strinsero
Zeus
che
l’universo
scruta/
e la
Quota
fatale/
-
Ora
al
mio
canto
inneggiate!-
»
(1044
-
1047).
L’Aeropago
viene
qui
celebrato
come
l’organo
civile
che
sostituisce
la
vendetta
individuale
del
crimine.
È
quindi
simbolo
di
Dike,
l’autorità
necessaria
alla
democrazia,
moderno
“luogo”
di
dibattito
e di
confronto.
Per
la
prima
volta
è
possibile
nutrire
speranza
nella
giustizia
garantita
dalle
rinnovate
e
purificate
istituzioni
terrene.
Nell’immagine
di
Eschilo,
l’ordine
cosmico
è
garantito
dall’equilibrio
tra
azione
umana
e
volontà
divina,
che
si
influenzano
e
determinano
reciprocamente.
In
sintesi,
nella
determinazione
del
destino
mortale
influiscono
sia
l’uomo
sia
dio.
Occorre
in
ogni
caso
ricordare
che
nel
teatro
eschileo
non
viene
punita
la
felicità
ma
la
colpa,
generata
da
una
scelta
libera
dell’empietà
e
che,
una
volta
commessa,
sottopone
l’individuo
a
una
serie
di
inevitabili
conseguenze
in
quanto
delitto
genera
delitto.
La
colpa
nasce
dalla
difficoltà
umana
di
interpretare
la
realtà
in
cui
vive,
segnata
da
una
spiccata
ambiguità.
Non
è
possibile
vantarsi
di
essere
felici,
perché
repentinamente
si
può
passare
dalla
condizione
di
vittima
a
quella
di
carnefice
e
viceversa.
E
vano
è
cercare
di
opporsi
all’inesorabile
corso
degli
eventi.
Eppure
i
personaggi
eschilei
sono
attraversati
dall’urgente
e
imperioso
bisogno
di
dire
e di
agire,
per
cui
lottano
e si
sforzano
di
arrestare
la
catena
di
omicidi
e di
efferatezze
che
li
soverchia.
Rispetto
al
disordine,
chaos,
del
reale
e
del
ricco
passato
mitico,
il
dramma
interviene
nel
tentativo
di
fissare
un
ordine,
kosmos,
e di
cogliere
un
senso.
Indossando
una
maschera,
espressione
del
desiderio
di
uscire
dalla
propria
identità
per
rivestire
un
ruolo
altro
da
sé,
l’attore
diviene
simbolicamente
l’eroe
che
svela
e
disvela
il
volto
del
reale.
È
agitato
da
passioni
e
vittima
delle
stesse.
In
tal
senso
il
teatro
di
Eschilo
è
specchio
dei
tempi:
è la
sintesi
dell’avventura
umana
condannata
a
lottare
contro
lo
scacco
della
sorte.
Ed è
proprio
in
questo
eterno
insanabile
dibattimento
che
si
consuma
e si
dispiega
il
dramma
collettivo.
Ed è
proprio
qui
che
risiede
il
tributo
del
tragediografo.
Non
si
può
parlare
ancora
di
una
visione
pienamente
antropocentrica,
ma
il
processo
di
interiorizzazione
può
senza
dubbio
dirsi
avviato.