N. 91 - Luglio 2015
(CXXII)
“Esiste scelta che escluda la colpa?”
Dalla civiltà della vergogna alla civiltà dell’attesa - Parte II
di Paola Scollo
Nel corso del V secolo
a.C.
è
possibile
osservare
una
progressiva
interiorizzazione
della
coscienza,
secondo
la
terminologia
proposta
da
Kardiner,
che
si
pone
all’origine
dell’interiorizzazione
del
divino
e
della
concezione
del
senso
di
colpa.
E la
cultura
della
vergogna
cede
spazio
a
quella
della
colpa.
Si
tratta
di
un
passaggio
focale
all’interno
della
storia
della
civiltà
occidentale,
in
quanto
rappresenta
l’orizzonte
umano
e
interiore
su
cui
il
cristianesimo
può
insinuarsi
e
svilupparsi.
Seguire le tappe di questo
percorso
si
configura
quale
opera
di
ampio
respiro.
Con
ogni
probabilità
le
premesse
vanno
colte
nella
dimensione
storica,
sociale
e
politica
della
Grecia
peninsulare
in
età
arcaica,
la
quale
appare
segnata
da
una
profonda
crisi
economica
e,
più
in
generale,
da
un
dilagante
senso
di
incertezza
e di
precarietà.
Di
fronte
alla
mancanza
di
sicurezza
personale
è
poco
probabile
che
l’uomo
greco
abbia
assunto
un
atteggiamento
di
fede
incondizionata,
ossia
di
fiducia
e di
abbandono
nei
confronti
della
divinità
capricciosa
e
invidiosa.
Fino
a
quando
sopravvisse
un
senso
di
solidarietà
l’idea
della
colpa
collettiva
rimase
stabile.
Tuttavia,
con
l’insorgere
delle
prime
tensioni
familiari
e la
conseguente
rottura
dei
vincoli
familiari
cominciò
a
emergere
la
consapevolezza
delle
responsabilità
del
singolo.
In sintesi, la diffusione
di
uno
spirito
individualistico
e
antropocentrico
si
sviluppò
in
parallelo
con
la
disgregazione
della
famiglia,
fulcro
della
società
arcaica.
E in
tale
processo
innegabile
è il
contributo
offerto
dal
pensiero
filosofico.
Già
negli
insegnamenti
socratici,
che
alimentano
dubbi
e
interrogativi
su
un
mondo
retto
da
apparenze
e
false
credenze,
è
ravvisabile
uno
spostamento
dell’asse
speculativo
dalla
natura
all’uomo
quale
soggetto
pensante.
Occorre
a
tal
proposito
ricordare
che
anche
i
Sofisti
sviluppano
le
loro
riflessioni
in
chiave
antropocentrica.
E la
diffusione
dell’arte
dialettica,
quale
metodo
più
efficace
per
la
trattazione
di
un
argomento,
ben
esprime
l’idea
della
contrapposizione
tra
generazioni,
parzialmente
complice
della
rottura
dell’unità
familiare.
Centrale
è
poi
il
ruolo
di
Platone,
che
nel
Timeo
ritrae
il
daimon
come
l’essenza
di
pura
razionalità
presente
nell’uomo.
Questa
immagine
dischiude
una
fase
in
cui
la
discussione
sul
daimon
diviene
focale
nel
pensiero
di
Stoici,
Neoplatonici
e
Cristiani
medievali.
È in ambito teatrale che
tale
nuovo
modo
di
sentire
trova
terreno
fertile.
L’idea
del
tragico
sorge,
infatti,
nel
momento
in
cui
l’uomo
acquisisce
consapevolezza
dell’insanabile
conflitto
tra
libertà
e
necessità,
ossia
tra
la
propria
volontà
di
agire
e
gli
ostacoli
che
impediscono
il
raggiungimento
del
fine
che
si è
posto.
In
questa
idea
confluiscono
sia
il
senso
del
rischio
e
del
pericolo
sia
il
desiderio
di
sfida
e di
scommessa
verso
l’ignoto,
all’origine
della
tensione
drammatica
che
attraversa
l’esistenza
in
sé.
Il conflitto tra volontà
umana
e
Necessità
reca
una
inevitabile
caduta,
una
rovina,
una
perdita:
è
questa
la
condizione
umana
portata
sulla
scena
dalla
tragedia.
Il
dramma
tragico
vendica
la
vita
in
quanto
è
espressione
dell’agire
dell’uomo,
della
volontà
di
accedere
ai
misteri
ultimi
dell’esistenza
e di
affermare
la
propria
libertà,
sottoponendosi
- ma
solo
dopo
averlo
accettato
e
subito
- a
un
inevitabile
destino
di
sconfitta
e di
morte.
Nelle
rappresentazioni
teatrali
rivive
dunque
l’antitesi
tra
physis
e
nomos
-
legge
naturale
e
legge
umana
- al
centro
dei
dibattiti
filosofici
nel
corso
del
V
secolo
a.C.
Un primo illuminante
esempio
è
offerto
dal
teatro
di
Eschilo,
che
riflette
uno
Stato
in
fieri
e
una
società
che
ha
sete
di
democrazia.
I
drammi
eschilei
presentano
personaggi
poderosi,
complessi,
ricchi
di
risvolti
psicologici
che
si
trovano
a
lottare
contro
demoni,
spiriti
maligni,
forze
malefiche
-
antitetiche
a
Zeus
e
alla
legge
morale
-
che
freneticamente
evocano
idea
di
tragedia,
morte
e
lutto.
A
dominare
è il
motivo
della
crudeltà
e
del
sangue
strettamente
connesso
alla
regola
assurda
che
domina
e
scandisce
l’esistenza:
ogni
aspetto
della
vita
è
prestabilito
e
nessuno
è
pienamente
padrone
di
sé,
eccezion
fatta
per
Zeus.
Il
dio
eschileo
risiede
infatti
nelle
altezze
e da
lì -
che
sia
Apollo
o
Zeus
-
«coglie
lo
strazio»
e «a
chi
ha
offeso
manda
Vendetta,
colpo
lento
e
sicuro»
(58
-
59).
Questa visione anima, ad
esempio,
il
dramma
di
Prometeo,
reo
di
aver
donato
all’uomo
lo
zampillo
di
fuoco,
«strada
maestra
di
ogni
ingegnoso
mestiere».
Ad
Io,
che
chiede
chi
lo
abbia
inchiodato
al
precipizio,
Prometeo
risponde
che
è
stata
l’insidia
di
Zeus.
Egli
deve
essere
punito
perché
non
ha
dato
valore
alla
parola
del
Padre:
ha
commesso
un
delitto
ed è
necessario
che
sconti
il
castigo
degli
dèi
al
fine
di
divenirne
devoto.
E
tremendo
è l’imperium
di
Zeus:
la
sua
legge
è
sovrana.
Colto
nel
suo
dramma,
Prometeo
è
carico
di
ira
e di
odio
nei
confronti
degli
dèi,
ma
non
è in
grado
di
porre
sollievo
alla
sua
sofferenza.
È la
Quota
fatale
a
disporre
della
decisione
estrema
e
l’ingegno
è
fragile
rispetto
al
Destino
che
stringe.
Occorre
flettersi
all’Inevitabile:
questo
è
vero
equilibrio.
Del
resto,
la
colpa
viene
tramandata
da
una
generazione
all’altra.
E
non
esiste
limite
al
tormento.