N. 90 - Giugno 2015
(CXXI)
“Esiste scelta che escluda la colpa?”
Dalla
civiltà
della
vergogna
alla
civiltà
dell’attesa
-
Parte
I
di
Paola
Scollo
La
ricerca
di
esperienze
religiose
nei
poemi
di
Omero
si
configura,
nell’immagine
di
numerosi
eminenti
studiosi,
quale
operazione
destinata
al
fallimento.
Con
ogni
probabilità
all’origine
di
tale
giudizio
–
come
ha
spesso
rilevato
Eric
Dodds
– è
da
porre
una
“valutazione
moderna”
della
religione
di
fatto,
ovvero
quel
che
«per
religione
riconoscono
gli
Europei
e
gli
Americani
illuminati
al
giorno
d’oggi».
Nel
panorama
degli
studi
sulla
cultura
religiosa
e
psicologica
greca
è
stato
proprio
il
volume
di
Dodds,
dal
titolo
I
Greci
e
l’irrazionale,
a
suggerire
nuove
e
interessanti
riflessioni,
fra
cui
la
possibilità
di
individuare
elementi
irrazionali
della
condotta
umana
sin
dalla
società
omerica.
In
via
preliminare
Dodds
ha
tentato
di
definire
il
valore
di
Atē,
personaggio
mitologico
spesso
considerato
causa
di
tracotanza,
hybris.
Come
ben
osserva
lo
studioso,
Atē
nell’Iliade
non
è da
intendere
nell’accezione
di
rovina,
come
nel
dramma
tragico,
ma
di
stato
d’animo,
nella
duplice
valenza
di
ottundimento
della
coscienza
e di
stato
di
pazzia
indotto
non
da
particolari
condizioni
fisiche
e/o
psichiche,
ma
da
forze
esterne.
Di
qui
l’impossibilità
di
dimostrare,
almeno
in
un
primo
tempo,
ogni
pur
possibile
legame
tra
Atē
e
senso
di
colpa.
Le
ricerche
condotte
da
Dodds
guidano
all’acquisizione
fondamentale
secondo
cui
gli
eroi
di
Omero
non
si
interrogarono
mai
sull’agire
umano
in
termini
di
predestinazione
o di
libero
arbitrio.
Essi
si
limitarono,
piuttosto,
a
distinguere
tra
modus
agendi
in
condizioni
normali
e in
condizioni
di
Atē,
ponendo
all’origine
delle
due
differenti
condotte
la
Moira
o la
volontà
divina,
senza
coinvolgimento
della
sfera
della
volizione
e
della
volontarietà.
D’altra
parte,
mancherebbe
ancora
una
concezione
unitaria
della
psiche,
ovvero
dell’anima
o
della
personalità,
destinata
invece
ad
assumere
un
ruolo
di
indiscutibile
valore
in
ambito
cristiano.
L’anima
è
ritratta
soprattutto
in
punto
di
morte,
nell’atto
di
abbandonare
il
corpo.
Sul
filo
di
questo
ragionamento,
è
possibile
valutare
le
azioni
determinate
da
Atē
come
una
perdita
delle
facoltà
di
discernimento
della
cui
genesi
non
si è
chiamati
a
offrire
spiegazione
logica
e/o
causale,
in
quanto
riconducibile
appunto
a
una
sfera
sovrumana.
Va
da
sé
che
tale
vincolante
ruolo
dell’entità
soprannaturale
sull’agire
umano
genera
interesse
e
stupore
prevalentemente
in
chi
è
solito
definire
Iliade
e
Odissea
poemi
«irreligiosi».
A
tal
proposito
è
doveroso
puntualizzare
che
la
civiltà
omerica
non
ha
sviluppato
una
propria
concezione
di
colpa.
È
preferibile
parlare
di
civiltà
della
vergogna,
in
quanto
fulcro
e a
un
tempo
fine
ultimo
dell’esistenza
è la
considerazione
altrui,
il
riconoscimento
e la
stima
pubblica,
tīme.
E
l’uomo
è
costretto
a
ricorrere
a
forze
sovrumane
per
motivare
il
suo
stato
di
Atē,
quindi
per
offrire
alla
collettività
una
giustificazione
della
sua
vergogna.
Non
vi è
ancora
traccia
del
cosiddetto
timor
di
Dio
che,
al
contrario,
si
pone
quale
forza
etica
preminente
e
determinante
del
modus
agendi
et
operandi
del
cristiano.
In
epoca
arcaica
la
divinità
è
concepita
come
una
Potenza
che
supera
di
necessità
l’uomo,
intervenendo
a
ristabilire
le
distanze
tra
sé e
l’essere
umano
che
tenta
di
trascendere
i
propri
limiti,
macchiandosi
di
hybris.
Tale
consapevolezza,
che
attraversa
la
produzione
letteraria
greca
di
Erodoto,
Pindaro
e
Sofocle,
è
già
in
nuce
nei
poemi
di
Omero.
Una
testimonianza
illuminante
in
tal
senso
è
presente
nel
XXIV
canto
dell’Iliade,
laddove
Achille,
di
fronte
alla
morte
dell’amico
Patroclo,
riflette:
«Questo
è
infatti
il
destino
che
gli
dèi
assegnarono
ai
miseri
mortali:
vivere
nel
dolore;
ed
essi
soli
sono
senza
affanni».
Nei
poeti
lirici
questa
concezione
è
avvolta
da
una
maggiore
angoscia,
quasi
a
sottolineare
il
vano
tentativo
dell’agire
umano
sottoposto
alla
prevaricante
volontà
divina.
Al
termine
dell’età
arcaica
la
riflessione
è,
invece,
dominata
dall’idea
del
phthŏnos
- la
gelosia
divina
-
fonte
opprimente
di
mali
e di
dolore,
cui
viene
poi
data
una
valenza
morale
mediante
il
nesso
con
Nemesis
- la
giusta
indignazione
-
che
gli
dèi
nutrono
di
fronte
all’uomo
che
si
vanta
dei
successi
conseguiti,
ostentando
quella
hybris
che
lo
pone
ogni
oltre
limite.
Ovviamente
tale
processo
di
moralizzazione
è
legato
alla
sete
di
giustizia
sociale
che
anima
l’uomo
greco
arcaico,
inducendolo
spesso
a
individuare
nell’entità
soprannaturale
-
Zeus
in
primis
- il
garante
dell’Uguaglianza
che
attua
il
castigo
dei
colpevoli.
In
Esiodo,
Solone,
Teognide
ed
Eschilo
è
viva
l’idea
secondo
cui
il
colpevole
debba
essere
punito
attraverso
i
suoi
discendenti.
E
tale
considerazione
è
accolta
come
una
vera
e
propria
Necessità.
Si
tratta
di
una
norma
di
Natura
cui
bisogna
sottoporsi
per
espiare
la
colpa
originaria
ed
essere
riammessi
nella
comunità.
Occorre
comunque
ricordare
che,
anche
in
qualità
di
garante
di
dike
e
kosmos,
il
dio
non
manifesta
compassione
nei
confronti
dell’essere
umano.
In
altre
parole,
non
vi è
traccia
di
quell’amore
divino,
philotheos,
di
cui
per
la
prima
volta
parla
Aristotele.
Manca
un
vero
e
proprio
individualismo,
ossia
una
considerazione
del
singolo
con
diritti
e
doveri.
A
dominare
è
ancora
la
colpa
ereditaria.