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N. 43 - Luglio 2011 (LXXIV)

la donna e le sue relazioni sociali nei testi giuridici medievali
la "Carta de Logu" di Eleonora d’Arborea

di Roberto Polleri

 

Principiat su libru dessas constitucionis

ed ordinacionis sardiscas fattas ed ordinadas

peri sa illustrissima segnora donna Elianora

per sa gracia de Deus juighissa de Arbaree…

 

[Inizia il libro delle costituzioni ed ordinanze sarde

fatte e disposte dall’illustrissima signora donna Eleonora

per grazia di Dio regina di Arborea]

 

 

Attraverso questo scritto, vorremmo esplorare, in modo non certo esaustivo, uno dei codici più antichi giunti fino a noi in maniera praticamente intatta.

 

Cercando di fornire una sua collocazione temporale, cercheremo di scoprire gli elementi di modernità che si trovano nella “Carta de Logu”, ed in particolare per quanto concerne l’immagine della donna, la rilevanza della famiglia e la significatività dei rapporti sociali citati direttamente nei vari capitoli.

 

Tale opera non ha alcuna pretesa di completezza, ma il solo scopo di far scoprire un poco la grandezza e la lungimiranza di colei che ha promulgato questa Carta: la giudicessa Eleonora d’Arborea.

  

La Sardegna, sul finire del Milletrecento, è divisa in quattro regni distinti, denominati “giudicati”, e precisamente di Torres, di Gallura, di Cagliari e di Arborea, suddivisione territoriale risalente attorno all’827, anno in cui termina la dominazione bizantina sull’isola che in maniera autonoma si organizza per resistere alle incursioni saracene.

 

L’origine dei quattro giudicati si perde nella notte dei tempi, infatti non esistono fonti storiche che documentino la nascita degli stessi, solo in epoca successiva, appaiono in alcuni scritti questi principati, definiti come piccoli regni, del tutto autonomi nella definizione delle strutture amministrative interne e totalmente liberi nella gestione dei rapporti con l’esterno.

 

L’ordinamento dei giudicati deriva, con tutta probabilità, da una lenta evoluzione delle antiche suddivisioni bizantine, dove appare dai rari documenti dell’epoca, che la reggenza era affidata a famiglie locali strettamente imparentate tra loro.

 

Il Giudicato d’Arborea sorgeva nella pianura attorno ad Oristano, lungo la valle del Tirso e nelle zone costiere situate ad ovest dell’isola. Dopo la definitiva sconfitta dei pirati saraceni, avvenuta ad opera delle forze armate della repubblica marinara di Pisa a seguito della vittoria poc’anzi citata, arrivarono in Sardegna avanzando pretese dai singoli giudicati, i quali accettarono di buon grado di interloquire con la potente forza mediterranea.

 

Solo l’Arborea non si affidò completamente alla repubblica toscana, cercando caute alleanze con la di lei rivale da sempre: Genova. Seguì un periodo di lotte che portò alla fine di tre dei giudicati, ovvero Torres, Gallura e Cagliari le cui terre passarono per la maggior parte sotto il dominio pisano.

 

Unico intatto rimase il giudicato di Arborea, governato dalla dinastia dei De Serra visconti di Bas, legati da diverso tempo al potente regno di Aragona, grazie ad una serie di vincoli commerciali e matrimoniali.

 

L’Arborea occupava uno dei territori più fertili dell’isola, poteva contare su buoni porti e, grazie ad una attenta amministrazione interna, era riuscita a mantenere una discreta supremazia sull’isola ed una buona autonomia dai potenti regni continentali. Il giudicato era diviso in tredici curatorie o partes, regioni distinte tra loro che riunivano differenti villae o biddas, ovvero comuni agricoli di varie dimensioni.

 

Ognuno di questi era amministrato da un maiori de villa, coadiuvato da giurati scelti tra i probi uomini del villaggio, abitanti che venivano tenuti in considerazione per funzioni pubbliche grazie alle loro doti morali. A capo della curadoria stava invece il curadori che era un vero e proprio funzionario, un ufficiale regio che avocava a sé compiti di tipo amministrativo e giudiziario, che espletava anche attraverso assemblee ed i tribunali locali, indicati con il nome di coronas.

 

La capitale era la fiorente ed attiva città di Oristano, protetta da solide mura e da torri che ne garantivano la difesa.

 

Questo era il cuore pulsante del giudicato che aveva stretto con Pisa un rapporto di buona convivenza: il potere era suddiviso sull’isola senza attriti, anzi mantenendo scambi commerciali e culturali che portarono alcuni rampolli dei De Serra Bas a sposare donne pisane intrecciando le stirpi e gli interessi reciproci.

  

La figura di Eleonora d’Arborea è una delle più famose dell’isola, ammantata da un’aura di leggenda ma con una lunga serie di dati oggettivi che rendono la donna un elemento di spicco della storia sarda. Sarà infatti lei l’ultima della sua famiglia a riunire sotto il vessillo del giudicato le popolazioni isolane sparse che, per la prima volta si riconoscevano come “nazione sarda”, in contrapposizione al potente regno aragonese che avanzava pretese sull’intera isola.

 

L’immagine altamente femminile che traspare dai tratti di mamma premurosa, di moglie fedele e fervente cristiana, si unisce agli elementi più forti di dotta legislatrice e di illuminata sovrana che guidando un drappello di patrioti terrà testa all’invasore arrivato dal mare.

 

 

Nell’anno 1353, il sovrano Mariano V (1347 – 1376), padre di Eleonora, emana per il suo stato un “Codice rurale”, scritto nella lingua ufficiale e tradotto negli idiomi locali, con lo scopo di sistematizzare la normativa in merito all’agricoltura ed alla pastorizia. Scopo del sovrano era quello di salvaguardare le colture dei vigneti, degli orti e dei campi, troppo spesso devastati dal bestiame brado e non custodito. Il codice era composto da sessantasei capitoli divisi in due parti.

 

Accanto a questo, Mariano V, avvalendosi dell’apporto di un corpo di giuristi locali e continentali, promulgherà un Codice di leggi civili e criminali integrando alle norme preesistenti elementi di diritto romano, bizantino e tratti dettati dalla consuetudine locale. Saranno questi due codici la base di partenza per la stesura della “Carta de Logu”, vero e proprio codice di leggi dello Stato, dove il termine Carta o Charta ha il significato di “Documento dispositivo che crea un rapporto giuridico”, come citato da Paoli in “Diplomatica”; tale documento poteva essere redatto in forma solenne come era avvenuto in passato per la “Magna Charta”.

 

Il secondo termine Logu, nel periodo dei giudicati, aveva valore ben più ampio della semplice definizione territoriale, il significato infatti del termine è riconducibile ad una comunità più ampia di persone in quanto lo Stato di tipo medievale era ben differente dall’accezione di Stato moderno, per cui il numero delle persone assoggettate a tale dispositivo erano ben di più rispetto ai confini geografici del regno d’Arborea.

 

La struttura della Carta è divisa in due parti principali: il codice civile e penale, che consta di sei differenti sezioni per un totale di 132 leggi ed il codice rurale che è composto da due sezioni distinte con 66 differenti articoli.

 

La prima parte tratta delle “Ordinanze sulle vigne, sui campi di cereali e sugli orti”, mentre la seconda si occupa degli “Ordinamenti riguardanti le accomandite, le macellazioni, i termini (di legge e le ingiurie).

 

Molto più articolata risulta invece la prima parte relativa alla disciplina normativa civile e penale: dopo il “Proemio” che ricorda la data di promulgazione della “Carta de Logu” nella Pasqua del 1392, i legislatori passano a trattare dei reati contro la persona (es. omicidio, suicidio, aggressioni ecc.) per poi passare alla seconda sezione che tratta invece “Ordinanze sui furti e sulle malefatte”.

 

Il capitolo successivo è relativo ad una delle piaghe che ogni estate colpiva, e colpisce tutt’ora l’isola, ovverosia gli incendi; Eleonora stabilisce tempi e modalità di bruciatura delle stoppie, di creazione di fasce tagliafuoco al fine di limitare i danni derivanti dagli incendi.

 

La quarta sezione è dedicata a “Ordinanze sulle liti e sulle citazioni in giudizio”, la successiva tratta le “Ordinanze sulle cacce collettive” ed a seguire le “Ordinanze sui cuoi”. Appare utile sottolineare che la disciplina della concia delle pelli appare rilevante in quanto tale merce era da considerarsi alla stregua di una moneta di scambio di altissimo valore per l’epoca. In questo senso necessitava di una precisa e puntuale regolamentazione.

 

Il codice civile e penale si chiude quindi con gli ultimi due capitoli dedicati alle “Ordinanze per la guardia dei cereali” e “Ordinanze sui compensi”, dove in questa ultima parte si trattano le remunerazioni di figure professionali tra loro molto differenti, quali notai, falegnami e carrettieri.

 

Secondo alcune interpretazioni moderne, l’opera di Eleonora segna una tappa fondamentale verso la creazione di uno "stato di diritto" cioè di uno stato in cui tutti siano tenuti all'osservanza ed al rispetto delle norme giuridiche sviluppando il concetto della conoscibilità della norma, proprio grazie alla carta. A tutti i sudditi dell’Arborea e a chi si trovi a transitare per il giudicato, viene data la possibilità di conoscere con certezza di diritto le norme e le relative conseguenze.

 

La validità dell’idea fondamentale della Carta ha fatto si che la stessa sia rimasta in vigore in epoca spagnola e sabauda fino all'emanazione del Codice di Carlo Felice dell'aprile del 1827, ovverosia per oltre quattrocento anni.

 

A tale strabiliante longevità ha senz’altro contribuito la particolare condizione della Sardegna, il cui ben noto isolamento, ideale e di fatto, ha permesso il tramandarsi di condizioni e tradizioni di vita collettiva poco o per nulla influenzate dai differenti interventi esterni volti a portare l’isola verso i costumi del potere imperante sulla terraferma.

 

Andiamo adesso ad approfondire la parte relativa ai principi inerenti la figura femminile e le sue relazioni, definite dalle norme della “Carta de Logu”. Alcuni passaggi appaiono davvero rilevanti ed interessati, soprattutto se confrontati con l’epoca di promulgazione della carta.

 

Nello specifico, la parte relativa alle “Ordinanze sui furti e sulle malefatte”, al cap. XXI abbiamo il titolo “Di chi violentasse una donna sposata”.

 

Qualora un uomo dovesse usare violenza sessuale su una donna sposata, promessa sposa o vergine e di questo venga ritenuto colpevole, è condannato a pagare un’ammenda di cinquecento lire e, qualora lo stesso non dovesse pagare entro quindici giorni, gli sarà amputato un piede. Se la donna in oggetto è nubile l’ammenda scende a duecento lire ma l’uomo è tenuto a sposarla. Tale condizione è tuttavia subordinata al fatto che la donna accondiscenda al matrimonio. Nel caso in cui la stessa rifiuti la proposta, il reo è tenuto a farla accasare munendola di dote secondo la condizione sociale della donna stessa e del suo futuro sposo. Come nel caso precedente, se il colpevole non è in grado di onorare l’impegno, la pena è l’amputazione del piede. Per la donna vergine sussistono le stesse condizioni, senza però obbligo di accasamento, ma solo ammenda ed eventuale pena.

 

In questo articolo troviamo due principi di straordinaria modernità, considerata l’epoca in cui tali norme erano vigenti. Il primo sancisce che un matrimonio “riparatore” risulta valido solo e soltanto se lo stesso è di gradimento della donna. In caso contrario non sussiste per lei alcun obbligo ed il reo va incontro alla condanna. Questi dovrà comunque pagare allo Stato una cifra molto elevata per l’epoca considerando che un cavallo da battaglia, strumento fondamentale per un regno, aveva un valore indicativo di circa dieci lire.

 

Da sottolineare che qualora la donna non gradisca come marito il suo violentatore, l’uomo ha l’obbligo di provvedere per il suo futuro fornendole una dote e trovandole un marito a lei confacente. Tale operazione, non esime tuttavia lo stupratore dal pagamento dell’ammenda.

 

Interessante il fatto che un documento così antico ed in forma ufficiale sia rispettoso della volontà della donna, figura non certo tenuta in alta considerazione in epoca medioevale.

 

Altro aspetto del tutto rilevante è la poca importanza tributata alla verginità femminile: come si evince dalla norma, il reo di violenza sessuale su di una vergine subisce la stessa identica punizione di colui che si trovi a perpetrare il reato su di una donna nubile, fidanzata o comunque non sposata.

 

Differente ammenda viene invece comminata allo stupratore di donna sposata, dove la multa è più che doppia ed ha valore inestimabile per l’economia dell’epoca, quasi come se lo spregio della violenza a chi si trovi ad essere maritata e quindi nel caso madre di famiglia, assuma nell’immaginario del legislatore proporzioni macroscopiche. Possiamo facilmente immaginare che in tale periodo la famiglia ed i figli fossero, non solo sull’Isola ma in tutto il continente europeo e non solo, un valore assoluto e di primaria importanza.

 

È quindi comprensibile che le pene contro tale istituzione dovessero avere un tratto afflittivo del tutto marcato. Anche in questo caso, la pena inflitta agli stupratori insolventi era identica in tutti i casi: l’amputazione di un piede. Una simile pena si rivela nella società di allora una punizione del tutto crudele, in quanto l’amputato si sarebbe trovato disabile e quindi non più in grado di provvedere a se stesso, basti pensare alle difficoltà nel lavorare manualmente e nel combattere e quindi relegandolo alla condizione di mendicante, del tutto dipendente dalla carità altrui.

 

Il capitolo successivo, numero XXII tratta sempre delle relazioni personali e, nello specifico, “Di chi s’introduce a forza in casa di una donna sposata”.

 

L’articolo si apre con le stesse parole del titolo a cui si aggiunge la flagranza di reato e se l’imputato viene ritenuto colpevole di tale reato, anche se non abbia violentato la donna è tenuto a pagare un’ammenda di cento lire. Se entro il termine già citato nel precedente articolo, di quindici giorni il colpevole non paga, gli verrà tagliato un orecchio per intero. Qualora gli amanti siano scoperti a letto insieme nella casa di lei, ed ella sia consenziente, la donna verrà bastonata e frustata ma oltre a questo sarà privata di tutti i suoi beni che andranno al marito.

 

Eleonora sottolinea che i beni confiscati non possono essere ceduti ai figli di lei né ad altro parente, a meno che non sia lo stesso marito ad indicare in maniera esplicita la destinazione degli stessi. Pena del tutto differente spetta al suo amante, che non è soggetto ad alcuna pena corporale ma al pagamento di ammenda di cento lire, in caso di impossibilità dello stesso a far fronte alla multa, la pena è di nuovo il taglio netto dell’orecchio.

 

Tali pene vengono modificate in senso significativo qualora sia la donna a recarsi a casa dell’uomo o l’incontro amoroso avvenga in altra casa. In questo caso la pena pecuniaria per il maschio è ridotta a venticinque lire mentre la donna deve essere frustata come indicato precedentemente.

 

Anche in questo caso appare rilevante il fatto che “profanare” la dimora della donna abbia una rilevanza penale maggiore rispetto all’azione di lei che si rechi a casa dell’amante. Quasi a voler sottolineare la sacralità della famiglia e dei luoghi dove essa si raduna, i legislatori hanno calcato decisamente la mano sulle pene comminate ai colpevoli di tale reato.

 

Del tutto simili appaiono le pene relative al concubinaggio. L’articolo XXII tratta infatti “Di chi dimorasse con una donna sposata e la trattenesse presso di sé contro la volontà dell’altro coniuge”; anche qui troviamo l’uomo che tiene a sé la donna senza la rinuncia esplicita da parte del marito che, al contrario reclama a casa la moglie. In tale caso la pena pecuniaria e le pene corporali per i conviventi appaiono le stesse applicate nel capitolo precedente.

 

Sebbene la donna abbia la possibilità di scegliere, qualora vittima di reato sessuale, rimane comunque inalterata per il marito la possibilità di infliggere lei punizioni corporali: nel lungo capitolo IX relativo a ferite e percosse, pur enumerando le differenti situazioni sanzionabili e le relative pene, il codice prevede che se tali atti offensivi vengano svolti e, possano essere legittimamente provati, a scopo difensivo, all’imputato non debba essere comminata alcuna pena.

 

Stessa opportunità e quindi conseguente impunità per il padre di famiglia che, senza tuttavia senza far “…loro uscire sangue dalla bocca, o dal naso, o se li abbia graffiati in faccia, o in qualche altra parte del corpo senza arrecar loro danni permanenti:”, utilizzi le percosse a scopo educativo verso i congiunti quali la moglie, i figli nipoti, nonché parenti ed apprendisti che si trovino a vivere presso la sua dimora.

 

Identica opportunità è riservata ai curatori ed ai tutori che abbiano in affidamento minorenni, in seguito a provvedimento dell’autorità locale, scelti tra i parenti prossimi ed anche tra estranei non famigliari purché di chiara fama.

 

In questo senso appare di assoluta rilevanza la potestà genitoriale svolta all’interno delle mura domestiche dal capofamiglia; sia esso il padre od il tutore oppure il curatore, lo stesso ha la possibilità di utilizzare metodi, per così dire pedagogicamente correttivi, anche se improntati alla violenza, purché questa non sia mai eccessiva verso l’educando. Ogni parente stretto, a partire dalla moglie fino ad arrivare ai lavoranti frequentanti la casa, saranno quindi sottoposti al volere del capofamiglia e sottomessi alla sua volontà, reputata indiscutibile e quindi sempre, almeno formalmente, corretta.

 

I figli, tuttavia trovano alcuni articoli a loro tutela ed in particolare nel capitolo XCVII e seguenti: il primo di tali capitoli tratta dell’impossibilità di diseredare figli e nipoti, a meno che il padre non lasci adeguate motivazioni scritte in merito.

 

La semplice redazione di un testamento non è sufficiente a garantire il godimento dell’eredità, il beneficiario dovrà provare legittimamente tale ragione entro un mese dal decesso del firmatario del testamento.

 

Il capitolo successivo tratta della dote delle figlie femmine e stabilisce che è dovere del padre fornire una dote, tuttavia a queste null’altro sarà dovuto se non la parte spettante legittimamente compresa la dote. Del resto dei suoi averi, il padre potrà disporre come meglio crede.

 

Qualora il padre muoia senza testamento, si succederanno nel godimento dei beni prima la figlia sposata (scontata la dote già fornita) insieme con i fratelli di lei e gli eventuali ziii paterni. Un simile sistema appare tutelante per le giovani che, in ogni caso si ritrovano in possesso di una certa somma di denaro anche in caso di condizioni avverse.

 

Dal capitolo CI in poi abbiamo alcuni articoli dedicati agli orfani ed alla loro presa in carico collettiva; nel caso in cui i genitori periscano lasciando i figli orfani, è compito dei curadoris ovvero i funzionari di nomina regia, redigere un inventario dei beni del defunto che sarà compilato sotto la vigilanza dei bonos homine, ovvero i probi uomini di indubbia moralità. Una copia di tale documento viene poi depositato a Corte, quasi a testimoniarne la validità.

 

Il funzionario provvede quindi ad affidare il minore ad un parente, purché in grado di provvedere alle esigenze del minore, che dovrà giurare di fronte a lui di perseguire il bene dell’affidato e di seguire lealmente i suoi interessi. Tale proposta deve essere obbligatoriamente accettata dagli affidatari, pena una sanzione.

 

Analizzando le differenti pene previste dal codice arborense, appare rilevante sottolineare che, mentre la pena di morte (prevista tuttavia in casi rari) era applicata immediatamente in caso di omicidio, anche di un suddito qualunque, ove fosse verificata la penale responsabilità dell’imputato, al contrario le pene corporali dalle maggiormente afflittive alle minori, venivano comminate solo e soltanto nel caso un cui il reo non fosse in grado di pagare la multa elevatagli.

 

In questo senso, il codice di Eleonora si affranca dal principio altomedioevale “del taglione” che vedeva la giustizia in chiave vendicativa nei confronti del colpevole. In tal senso, appariva molto più funzionale alla corona avere continui introiti monetari da parte dei condannati, in modo da poter rimpinguare le casse statali costantemente prosciugate dalle continue guerre.

 

Questo principio permette di comprendere l’elevato costo delle ammende elencate negli articoli affrontati poc’anzi, il cui non pagamento presentava al colpevole la triste prospettiva di un’amputazione permanente che avrebbe di gran lunga modificato in negativo tutta la sua esistenza.

 

Un sistema simile, tuttavia, come fanno notare gli storici, garantiva ai più abbienti la possibilità di infrangere le norme con la possibilità di scontare solo una pena pecuniaria.

I sudditi più ricchi si garantivano così una sorta di impunità verso i reati.

 

Per ovviare a tale limite, Eleonora, come per altro già alcuni suoi predecessori, si trovarono a definire la pena di morte come inevitabile in caso di omicidio, ed in nessun caso sostituibile con una pena pecuniaria.

 

Un simile principio andava così a rinnegare l’antica regola barbarica che recitava “il sangue può essere asciugato dall’oro”, come se una vita potesse essere ripagata ai superstiti con il prezioso metallo.

 

Davanti alla gravità della colpa, recita infatti il codice “E pro dinari alcunu nun campit”, ovverosia nessuno pagando con il denaro possa scampare alla pena come citato nei capitoli III e V.

 

Secondo tale articolo, sia il popolano che il nobile si ritrovavano ad essere uguali, almeno davanti alla legge, almeno per un reato così grave che causi una morte. Altro dato significativo appare essere che nel sistema giuridico del giudicato di Arborea, la reclusione non era considerata un sistema punitivo: esisteva solo una detenzione preventiva dell’imputato in attesa di giudizio.

 

In questo senso la carcerazione non aveva, ovviamente, alcun intento riabilitativo ma semplicemente contenitivo e di tutela dei cittadini.

 

Un testo antico, intriso della cultura medioevale e chiuso nel microcosmo dell’isola, eppure con slanci inaspettati verso la modernità: sono queste le caratteristiche che fanno della “Carta de Logu” uno strumento per osservare la società sarda all’inizio del Millequattrocento.

 

Di sicuro un libro complesso ma carico di fascino e di mistero come la terra e come la donna da cui è nato.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

C. Paoli (a cura di G. C. Bescapè), Diplomatica, Sansoni, Firenze 1969.

F.C. Casula, La Carta de Logu del Regno di Arborea, Carlo Delfino Editore, Sassari 1995.

B. Pitzorno Bianca, Vita di Eleonora d’Arborea, Mondadori, Milano 2010.



 

 

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