N. 43 - Luglio 2011
(LXXIV)
la donna e le sue relazioni sociali nei testi giuridici medievali
la "Carta de Logu" di Eleonora d’Arborea
di Roberto Polleri
Principiat
su
libru
dessas
constitucionis
ed
ordinacionis
sardiscas
fattas
ed
ordinadas
peri
sa
illustrissima
segnora
donna
Elianora
per
sa
gracia
de
Deus
juighissa
de
Arbaree…
[Inizia
il
libro
delle
costituzioni
ed
ordinanze
sarde
fatte
e
disposte
dall’illustrissima
signora
donna
Eleonora
per
grazia
di
Dio
regina
di
Arborea]
Attraverso
questo
scritto,
vorremmo
esplorare,
in
modo
non
certo
esaustivo,
uno
dei
codici
più
antichi
giunti
fino
a
noi
in
maniera
praticamente
intatta.
Cercando
di
fornire
una
sua
collocazione
temporale,
cercheremo
di
scoprire
gli
elementi
di
modernità
che
si
trovano
nella
“Carta
de
Logu”,
ed
in
particolare
per
quanto
concerne
l’immagine
della
donna,
la
rilevanza
della
famiglia
e la
significatività
dei
rapporti
sociali
citati
direttamente
nei
vari
capitoli.
Tale
opera
non
ha
alcuna
pretesa
di
completezza,
ma
il
solo
scopo
di
far
scoprire
un
poco
la
grandezza
e la
lungimiranza
di
colei
che
ha
promulgato
questa
Carta:
la
giudicessa
Eleonora
d’Arborea.
La
Sardegna,
sul
finire
del
Milletrecento,
è
divisa
in
quattro
regni
distinti,
denominati
“giudicati”,
e
precisamente
di
Torres,
di
Gallura,
di
Cagliari
e di
Arborea,
suddivisione
territoriale
risalente
attorno
all’827,
anno
in
cui
termina
la
dominazione
bizantina
sull’isola
che
in
maniera
autonoma
si
organizza
per
resistere
alle
incursioni
saracene.
L’origine
dei
quattro
giudicati
si
perde
nella
notte
dei
tempi,
infatti
non
esistono
fonti
storiche
che
documentino
la
nascita
degli
stessi,
solo
in
epoca
successiva,
appaiono
in
alcuni
scritti
questi
principati,
definiti
come
piccoli
regni,
del
tutto
autonomi
nella
definizione
delle
strutture
amministrative
interne
e
totalmente
liberi
nella
gestione
dei
rapporti
con
l’esterno.
L’ordinamento
dei
giudicati
deriva,
con
tutta
probabilità,
da
una
lenta
evoluzione
delle
antiche
suddivisioni
bizantine,
dove
appare
dai
rari
documenti
dell’epoca,
che
la
reggenza
era
affidata
a
famiglie
locali
strettamente
imparentate
tra
loro.
Il
Giudicato
d’Arborea
sorgeva
nella
pianura
attorno
ad
Oristano,
lungo
la
valle
del
Tirso
e
nelle
zone
costiere
situate
ad
ovest
dell’isola.
Dopo
la
definitiva
sconfitta
dei
pirati
saraceni,
avvenuta
ad
opera
delle
forze
armate
della
repubblica
marinara
di
Pisa
a
seguito
della
vittoria
poc’anzi
citata,
arrivarono
in
Sardegna
avanzando
pretese
dai
singoli
giudicati,
i
quali
accettarono
di
buon
grado
di
interloquire
con
la
potente
forza
mediterranea.
Solo
l’Arborea
non
si
affidò
completamente
alla
repubblica
toscana,
cercando
caute
alleanze
con
la
di
lei
rivale
da
sempre:
Genova.
Seguì
un
periodo
di
lotte
che
portò
alla
fine
di
tre
dei
giudicati,
ovvero
Torres,
Gallura
e
Cagliari
le
cui
terre
passarono
per
la
maggior
parte
sotto
il
dominio
pisano.
Unico
intatto
rimase
il
giudicato
di
Arborea,
governato
dalla
dinastia
dei
De
Serra
visconti
di
Bas,
legati
da
diverso
tempo
al
potente
regno
di
Aragona,
grazie
ad
una
serie
di
vincoli
commerciali
e
matrimoniali.
L’Arborea
occupava
uno
dei
territori
più
fertili
dell’isola,
poteva
contare
su
buoni
porti
e,
grazie
ad
una
attenta
amministrazione
interna,
era
riuscita
a
mantenere
una
discreta
supremazia
sull’isola
ed
una
buona
autonomia
dai
potenti
regni
continentali.
Il
giudicato
era
diviso
in
tredici
curatorie
o
partes,
regioni
distinte
tra
loro
che
riunivano
differenti
villae
o
biddas,
ovvero
comuni
agricoli
di
varie
dimensioni.
Ognuno
di
questi
era
amministrato
da
un
maiori
de
villa,
coadiuvato
da
giurati
scelti
tra
i
probi
uomini
del
villaggio,
abitanti
che
venivano
tenuti
in
considerazione
per
funzioni
pubbliche
grazie
alle
loro
doti
morali.
A
capo
della
curadoria
stava
invece
il
curadori
che
era
un
vero
e
proprio
funzionario,
un
ufficiale
regio
che
avocava
a sé
compiti
di
tipo
amministrativo
e
giudiziario,
che
espletava
anche
attraverso
assemblee
ed i
tribunali
locali,
indicati
con
il
nome
di
coronas.
La
capitale
era
la
fiorente
ed
attiva
città
di
Oristano,
protetta
da
solide
mura
e da
torri
che
ne
garantivano
la
difesa.
Questo
era
il
cuore
pulsante
del
giudicato
che
aveva
stretto
con
Pisa
un
rapporto
di
buona
convivenza:
il
potere
era
suddiviso
sull’isola
senza
attriti,
anzi
mantenendo
scambi
commerciali
e
culturali
che
portarono
alcuni
rampolli
dei
De
Serra
Bas
a
sposare
donne
pisane
intrecciando
le
stirpi
e
gli
interessi
reciproci.
La
figura
di
Eleonora
d’Arborea
è
una
delle
più
famose
dell’isola,
ammantata
da
un’aura
di
leggenda
ma
con
una
lunga
serie
di
dati
oggettivi
che
rendono
la
donna
un
elemento
di
spicco
della
storia
sarda.
Sarà
infatti
lei
l’ultima
della
sua
famiglia
a
riunire
sotto
il
vessillo
del
giudicato
le
popolazioni
isolane
sparse
che,
per
la
prima
volta
si
riconoscevano
come
“nazione
sarda”,
in
contrapposizione
al
potente
regno
aragonese
che
avanzava
pretese
sull’intera
isola.
L’immagine
altamente
femminile
che
traspare
dai
tratti
di
mamma
premurosa,
di
moglie
fedele
e
fervente
cristiana,
si
unisce
agli
elementi
più
forti
di
dotta
legislatrice
e di
illuminata
sovrana
che
guidando
un
drappello
di
patrioti
terrà
testa
all’invasore
arrivato
dal
mare.
Nell’anno
1353,
il
sovrano
Mariano
V
(1347
–
1376),
padre
di
Eleonora,
emana
per
il
suo
stato
un
“Codice
rurale”,
scritto
nella
lingua
ufficiale
e
tradotto
negli
idiomi
locali,
con
lo
scopo
di
sistematizzare
la
normativa
in
merito
all’agricoltura
ed
alla
pastorizia.
Scopo
del
sovrano
era
quello
di
salvaguardare
le
colture
dei
vigneti,
degli
orti
e
dei
campi,
troppo
spesso
devastati
dal
bestiame
brado
e
non
custodito.
Il
codice
era
composto
da
sessantasei
capitoli
divisi
in
due
parti.
Accanto
a
questo,
Mariano
V,
avvalendosi
dell’apporto
di
un
corpo
di
giuristi
locali
e
continentali,
promulgherà
un
Codice
di
leggi
civili
e
criminali
integrando
alle
norme
preesistenti
elementi
di
diritto
romano,
bizantino
e
tratti
dettati
dalla
consuetudine
locale.
Saranno
questi
due
codici
la
base
di
partenza
per
la
stesura
della
“Carta
de
Logu”,
vero
e
proprio
codice
di
leggi
dello
Stato,
dove
il
termine
Carta
o
Charta
ha
il
significato
di
“Documento
dispositivo
che
crea
un
rapporto
giuridico”,
come
citato
da
Paoli
in
“Diplomatica”;
tale
documento
poteva
essere
redatto
in
forma
solenne
come
era
avvenuto
in
passato
per
la
“Magna
Charta”.
Il
secondo
termine
Logu,
nel
periodo
dei
giudicati,
aveva
valore
ben
più
ampio
della
semplice
definizione
territoriale,
il
significato
infatti
del
termine
è
riconducibile
ad
una
comunità
più
ampia
di
persone
in
quanto
lo
Stato
di
tipo
medievale
era
ben
differente
dall’accezione
di
Stato
moderno,
per
cui
il
numero
delle
persone
assoggettate
a
tale
dispositivo
erano
ben
di
più
rispetto
ai
confini
geografici
del
regno
d’Arborea.
La
struttura
della
Carta
è
divisa
in
due
parti
principali:
il
codice
civile
e
penale,
che
consta
di
sei
differenti
sezioni
per
un
totale
di
132
leggi
ed
il
codice
rurale
che
è
composto
da
due
sezioni
distinte
con
66
differenti
articoli.
La
prima
parte
tratta
delle
“Ordinanze
sulle
vigne,
sui
campi
di
cereali
e
sugli
orti”,
mentre
la
seconda
si
occupa
degli
“Ordinamenti
riguardanti
le
accomandite,
le
macellazioni,
i
termini
(di
legge
e le
ingiurie).
Molto
più
articolata
risulta
invece
la
prima
parte
relativa
alla
disciplina
normativa
civile
e
penale:
dopo
il
“Proemio”
che
ricorda
la
data
di
promulgazione
della
“Carta
de
Logu”
nella
Pasqua
del
1392,
i
legislatori
passano
a
trattare
dei
reati
contro
la
persona
(es.
omicidio,
suicidio,
aggressioni
ecc.)
per
poi
passare
alla
seconda
sezione
che
tratta
invece
“Ordinanze
sui
furti
e
sulle
malefatte”.
Il
capitolo
successivo
è
relativo
ad
una
delle
piaghe
che
ogni
estate
colpiva,
e
colpisce
tutt’ora
l’isola,
ovverosia
gli
incendi;
Eleonora
stabilisce
tempi
e
modalità
di
bruciatura
delle
stoppie,
di
creazione
di
fasce
tagliafuoco
al
fine
di
limitare
i
danni
derivanti
dagli
incendi.
La
quarta
sezione
è
dedicata
a
“Ordinanze
sulle
liti
e
sulle
citazioni
in
giudizio”,
la
successiva
tratta
le
“Ordinanze
sulle
cacce
collettive”
ed a
seguire
le
“Ordinanze
sui
cuoi”.
Appare
utile
sottolineare
che
la
disciplina
della
concia
delle
pelli
appare
rilevante
in
quanto
tale
merce
era
da
considerarsi
alla
stregua
di
una
moneta
di
scambio
di
altissimo
valore
per
l’epoca.
In
questo
senso
necessitava
di
una
precisa
e
puntuale
regolamentazione.
Il
codice
civile
e
penale
si
chiude
quindi
con
gli
ultimi
due
capitoli
dedicati
alle
“Ordinanze
per
la
guardia
dei
cereali”
e
“Ordinanze
sui
compensi”,
dove
in
questa
ultima
parte
si
trattano
le
remunerazioni
di
figure
professionali
tra
loro
molto
differenti,
quali
notai,
falegnami
e
carrettieri.
Secondo
alcune
interpretazioni
moderne,
l’opera
di
Eleonora
segna
una
tappa
fondamentale
verso
la
creazione
di
uno
"stato
di
diritto"
cioè
di
uno
stato
in
cui
tutti
siano
tenuti
all'osservanza
ed
al
rispetto
delle
norme
giuridiche
sviluppando
il
concetto
della
conoscibilità
della
norma,
proprio
grazie
alla
carta.
A
tutti
i
sudditi
dell’Arborea
e a
chi
si
trovi
a
transitare
per
il
giudicato,
viene
data
la
possibilità
di
conoscere
con
certezza
di
diritto
le
norme
e le
relative
conseguenze.
La
validità
dell’idea
fondamentale
della
Carta
ha
fatto
si
che
la
stessa
sia
rimasta
in
vigore
in
epoca
spagnola
e
sabauda
fino
all'emanazione
del
Codice
di
Carlo
Felice
dell'aprile
del
1827,
ovverosia
per
oltre
quattrocento
anni.
A
tale
strabiliante
longevità
ha
senz’altro
contribuito
la
particolare
condizione
della
Sardegna,
il
cui
ben
noto
isolamento,
ideale
e di
fatto,
ha
permesso
il
tramandarsi
di
condizioni
e
tradizioni
di
vita
collettiva
poco
o
per
nulla
influenzate
dai
differenti
interventi
esterni
volti
a
portare
l’isola
verso
i
costumi
del
potere
imperante
sulla
terraferma.
Andiamo
adesso
ad
approfondire
la
parte
relativa
ai
principi
inerenti
la
figura
femminile
e le
sue
relazioni,
definite
dalle
norme
della
“Carta
de
Logu”.
Alcuni
passaggi
appaiono
davvero
rilevanti
ed
interessati,
soprattutto
se
confrontati
con
l’epoca
di
promulgazione
della
carta.
Nello
specifico,
la
parte
relativa
alle
“Ordinanze
sui
furti
e
sulle
malefatte”,
al
cap.
XXI
abbiamo
il
titolo
“Di
chi
violentasse
una
donna
sposata”.
Qualora
un
uomo
dovesse
usare
violenza
sessuale
su
una
donna
sposata,
promessa
sposa
o
vergine
e di
questo
venga
ritenuto
colpevole,
è
condannato
a
pagare
un’ammenda
di
cinquecento
lire
e,
qualora
lo
stesso
non
dovesse
pagare
entro
quindici
giorni,
gli
sarà
amputato
un
piede.
Se
la
donna
in
oggetto
è
nubile
l’ammenda
scende
a
duecento
lire
ma
l’uomo
è
tenuto
a
sposarla.
Tale
condizione
è
tuttavia
subordinata
al
fatto
che
la
donna
accondiscenda
al
matrimonio.
Nel
caso
in
cui
la
stessa
rifiuti
la
proposta,
il
reo
è
tenuto
a
farla
accasare
munendola
di
dote
secondo
la
condizione
sociale
della
donna
stessa
e
del
suo
futuro
sposo.
Come
nel
caso
precedente,
se
il
colpevole
non
è in
grado
di
onorare
l’impegno,
la
pena
è
l’amputazione
del
piede.
Per
la
donna
vergine
sussistono
le
stesse
condizioni,
senza
però
obbligo
di
accasamento,
ma
solo
ammenda
ed
eventuale
pena.
In
questo
articolo
troviamo
due
principi
di
straordinaria
modernità,
considerata
l’epoca
in
cui
tali
norme
erano
vigenti.
Il
primo
sancisce
che
un
matrimonio
“riparatore”
risulta
valido
solo
e
soltanto
se
lo
stesso
è di
gradimento
della
donna.
In
caso
contrario
non
sussiste
per
lei
alcun
obbligo
ed
il
reo
va
incontro
alla
condanna.
Questi
dovrà
comunque
pagare
allo
Stato
una
cifra
molto
elevata
per
l’epoca
considerando
che
un
cavallo
da
battaglia,
strumento
fondamentale
per
un
regno,
aveva
un
valore
indicativo
di
circa
dieci
lire.
Da
sottolineare
che
qualora
la
donna
non
gradisca
come
marito
il
suo
violentatore,
l’uomo
ha
l’obbligo
di
provvedere
per
il
suo
futuro
fornendole
una
dote
e
trovandole
un
marito
a
lei
confacente.
Tale
operazione,
non
esime
tuttavia
lo
stupratore
dal
pagamento
dell’ammenda.
Interessante
il
fatto
che
un
documento
così
antico
ed
in
forma
ufficiale
sia
rispettoso
della
volontà
della
donna,
figura
non
certo
tenuta
in
alta
considerazione
in
epoca
medioevale.
Altro
aspetto
del
tutto
rilevante
è la
poca
importanza
tributata
alla
verginità
femminile:
come
si
evince
dalla
norma,
il
reo
di
violenza
sessuale
su
di
una
vergine
subisce
la
stessa
identica
punizione
di
colui
che
si
trovi
a
perpetrare
il
reato
su
di
una
donna
nubile,
fidanzata
o
comunque
non
sposata.
Differente
ammenda
viene
invece
comminata
allo
stupratore
di
donna
sposata,
dove
la
multa
è
più
che
doppia
ed
ha
valore
inestimabile
per
l’economia
dell’epoca,
quasi
come
se
lo
spregio
della
violenza
a
chi
si
trovi
ad
essere
maritata
e
quindi
nel
caso
madre
di
famiglia,
assuma
nell’immaginario
del
legislatore
proporzioni
macroscopiche.
Possiamo
facilmente
immaginare
che
in
tale
periodo
la
famiglia
ed i
figli
fossero,
non
solo
sull’Isola
ma
in
tutto
il
continente
europeo
e
non
solo,
un
valore
assoluto
e di
primaria
importanza.
È
quindi
comprensibile
che
le
pene
contro
tale
istituzione
dovessero
avere
un
tratto
afflittivo
del
tutto
marcato.
Anche
in
questo
caso,
la
pena
inflitta
agli
stupratori
insolventi
era
identica
in
tutti
i
casi:
l’amputazione
di
un
piede.
Una
simile
pena
si
rivela
nella
società
di
allora
una
punizione
del
tutto
crudele,
in
quanto
l’amputato
si
sarebbe
trovato
disabile
e
quindi
non
più
in
grado
di
provvedere
a se
stesso,
basti
pensare
alle
difficoltà
nel
lavorare
manualmente
e
nel
combattere
e
quindi
relegandolo
alla
condizione
di
mendicante,
del
tutto
dipendente
dalla
carità
altrui.
Il
capitolo
successivo,
numero
XXII
tratta
sempre
delle
relazioni
personali
e,
nello
specifico,
“Di
chi
s’introduce
a
forza
in
casa
di
una
donna
sposata”.
L’articolo
si
apre
con
le
stesse
parole
del
titolo
a
cui
si
aggiunge
la
flagranza
di
reato
e se
l’imputato
viene
ritenuto
colpevole
di
tale
reato,
anche
se
non
abbia
violentato
la
donna
è
tenuto
a
pagare
un’ammenda
di
cento
lire.
Se
entro
il
termine
già
citato
nel
precedente
articolo,
di
quindici
giorni
il
colpevole
non
paga,
gli
verrà
tagliato
un
orecchio
per
intero.
Qualora
gli
amanti
siano
scoperti
a
letto
insieme
nella
casa
di
lei,
ed
ella
sia
consenziente,
la
donna
verrà
bastonata
e
frustata
ma
oltre
a
questo
sarà
privata
di
tutti
i
suoi
beni
che
andranno
al
marito.
Eleonora
sottolinea
che
i
beni
confiscati
non
possono
essere
ceduti
ai
figli
di
lei
né
ad
altro
parente,
a
meno
che
non
sia
lo
stesso
marito
ad
indicare
in
maniera
esplicita
la
destinazione
degli
stessi.
Pena
del
tutto
differente
spetta
al
suo
amante,
che
non
è
soggetto
ad
alcuna
pena
corporale
ma
al
pagamento
di
ammenda
di
cento
lire,
in
caso
di
impossibilità
dello
stesso
a
far
fronte
alla
multa,
la
pena
è di
nuovo
il
taglio
netto
dell’orecchio.
Tali
pene
vengono
modificate
in
senso
significativo
qualora
sia
la
donna
a
recarsi
a
casa
dell’uomo
o
l’incontro
amoroso
avvenga
in
altra
casa.
In
questo
caso
la
pena
pecuniaria
per
il
maschio
è
ridotta
a
venticinque
lire
mentre
la
donna
deve
essere
frustata
come
indicato
precedentemente.
Anche
in
questo
caso
appare
rilevante
il
fatto
che
“profanare”
la
dimora
della
donna
abbia
una
rilevanza
penale
maggiore
rispetto
all’azione
di
lei
che
si
rechi
a
casa
dell’amante.
Quasi
a
voler
sottolineare
la
sacralità
della
famiglia
e
dei
luoghi
dove
essa
si
raduna,
i
legislatori
hanno
calcato
decisamente
la
mano
sulle
pene
comminate
ai
colpevoli
di
tale
reato.
Del
tutto
simili
appaiono
le
pene
relative
al
concubinaggio.
L’articolo
XXII
tratta
infatti
“Di
chi
dimorasse
con
una
donna
sposata
e la
trattenesse
presso
di
sé
contro
la
volontà
dell’altro
coniuge”;
anche
qui
troviamo
l’uomo
che
tiene
a sé
la
donna
senza
la
rinuncia
esplicita
da
parte
del
marito
che,
al
contrario
reclama
a
casa
la
moglie.
In
tale
caso
la
pena
pecuniaria
e le
pene
corporali
per
i
conviventi
appaiono
le
stesse
applicate
nel
capitolo
precedente.
Sebbene
la
donna
abbia
la
possibilità
di
scegliere,
qualora
vittima
di
reato
sessuale,
rimane
comunque
inalterata
per
il
marito
la
possibilità
di
infliggere
lei
punizioni
corporali:
nel
lungo
capitolo
IX
relativo
a
ferite
e
percosse,
pur
enumerando
le
differenti
situazioni
sanzionabili
e le
relative
pene,
il
codice
prevede
che
se
tali
atti
offensivi
vengano
svolti
e,
possano
essere
legittimamente
provati,
a
scopo
difensivo,
all’imputato
non
debba
essere
comminata
alcuna
pena.
Stessa
opportunità
e
quindi
conseguente
impunità
per
il
padre
di
famiglia
che,
senza
tuttavia
senza
far
“…loro
uscire
sangue
dalla
bocca,
o
dal
naso,
o se
li
abbia
graffiati
in
faccia,
o in
qualche
altra
parte
del
corpo
senza
arrecar
loro
danni
permanenti:”,
utilizzi
le
percosse
a
scopo
educativo
verso
i
congiunti
quali
la
moglie,
i
figli
nipoti,
nonché
parenti
ed
apprendisti
che
si
trovino
a
vivere
presso
la
sua
dimora.
Identica
opportunità
è
riservata
ai
curatori
ed
ai
tutori
che
abbiano
in
affidamento
minorenni,
in
seguito
a
provvedimento
dell’autorità
locale,
scelti
tra
i
parenti
prossimi
ed
anche
tra
estranei
non
famigliari
purché
di
chiara
fama.
In
questo
senso
appare
di
assoluta
rilevanza
la
potestà
genitoriale
svolta
all’interno
delle
mura
domestiche
dal
capofamiglia;
sia
esso
il
padre
od
il
tutore
oppure
il
curatore,
lo
stesso
ha
la
possibilità
di
utilizzare
metodi,
per
così
dire
pedagogicamente
correttivi,
anche
se
improntati
alla
violenza,
purché
questa
non
sia
mai
eccessiva
verso
l’educando.
Ogni
parente
stretto,
a
partire
dalla
moglie
fino
ad
arrivare
ai
lavoranti
frequentanti
la
casa,
saranno
quindi
sottoposti
al
volere
del
capofamiglia
e
sottomessi
alla
sua
volontà,
reputata
indiscutibile
e
quindi
sempre,
almeno
formalmente,
corretta.
I
figli,
tuttavia
trovano
alcuni
articoli
a
loro
tutela
ed
in
particolare
nel
capitolo
XCVII
e
seguenti:
il
primo
di
tali
capitoli
tratta
dell’impossibilità
di
diseredare
figli
e
nipoti,
a
meno
che
il
padre
non
lasci
adeguate
motivazioni
scritte
in
merito.
La
semplice
redazione
di
un
testamento
non
è
sufficiente
a
garantire
il
godimento
dell’eredità,
il
beneficiario
dovrà
provare
legittimamente
tale
ragione
entro
un
mese
dal
decesso
del
firmatario
del
testamento.
Il
capitolo
successivo
tratta
della
dote
delle
figlie
femmine
e
stabilisce
che
è
dovere
del
padre
fornire
una
dote,
tuttavia
a
queste
null’altro
sarà
dovuto
se
non
la
parte
spettante
legittimamente
compresa
la
dote.
Del
resto
dei
suoi
averi,
il
padre
potrà
disporre
come
meglio
crede.
Qualora
il
padre
muoia
senza
testamento,
si
succederanno
nel
godimento
dei
beni
prima
la
figlia
sposata
(scontata
la
dote
già
fornita)
insieme
con
i
fratelli
di
lei
e
gli
eventuali
ziii
paterni.
Un
simile
sistema
appare
tutelante
per
le
giovani
che,
in
ogni
caso
si
ritrovano
in
possesso
di
una
certa
somma
di
denaro
anche
in
caso
di
condizioni
avverse.
Dal
capitolo
CI
in
poi
abbiamo
alcuni
articoli
dedicati
agli
orfani
ed
alla
loro
presa
in
carico
collettiva;
nel
caso
in
cui
i
genitori
periscano
lasciando
i
figli
orfani,
è
compito
dei
curadoris
ovvero
i
funzionari
di
nomina
regia,
redigere
un
inventario
dei
beni
del
defunto
che
sarà
compilato
sotto
la
vigilanza
dei
bonos
homine,
ovvero
i
probi
uomini
di
indubbia
moralità.
Una
copia
di
tale
documento
viene
poi
depositato
a
Corte,
quasi
a
testimoniarne
la
validità.
Il
funzionario
provvede
quindi
ad
affidare
il
minore
ad
un
parente,
purché
in
grado
di
provvedere
alle
esigenze
del
minore,
che
dovrà
giurare
di
fronte
a
lui
di
perseguire
il
bene
dell’affidato
e di
seguire
lealmente
i
suoi
interessi.
Tale
proposta
deve
essere
obbligatoriamente
accettata
dagli
affidatari,
pena
una
sanzione.
Analizzando
le
differenti
pene
previste
dal
codice
arborense,
appare
rilevante
sottolineare
che,
mentre
la
pena
di
morte
(prevista
tuttavia
in
casi
rari)
era
applicata
immediatamente
in
caso
di
omicidio,
anche
di
un
suddito
qualunque,
ove
fosse
verificata
la
penale
responsabilità
dell’imputato,
al
contrario
le
pene
corporali
dalle
maggiormente
afflittive
alle
minori,
venivano
comminate
solo
e
soltanto
nel
caso
un
cui
il
reo
non
fosse
in
grado
di
pagare
la
multa
elevatagli.
In
questo
senso,
il
codice
di
Eleonora
si
affranca
dal
principio
altomedioevale
“del
taglione”
che
vedeva
la
giustizia
in
chiave
vendicativa
nei
confronti
del
colpevole.
In
tal
senso,
appariva
molto
più
funzionale
alla
corona
avere
continui
introiti
monetari
da
parte
dei
condannati,
in
modo
da
poter
rimpinguare
le
casse
statali
costantemente
prosciugate
dalle
continue
guerre.
Questo
principio
permette
di
comprendere
l’elevato
costo
delle
ammende
elencate
negli
articoli
affrontati
poc’anzi,
il
cui
non
pagamento
presentava
al
colpevole
la
triste
prospettiva
di
un’amputazione
permanente
che
avrebbe
di
gran
lunga
modificato
in
negativo
tutta
la
sua
esistenza.
Un
sistema
simile,
tuttavia,
come
fanno
notare
gli
storici,
garantiva
ai
più
abbienti
la
possibilità
di
infrangere
le
norme
con
la
possibilità
di
scontare
solo
una
pena
pecuniaria.
I
sudditi
più
ricchi
si
garantivano
così
una
sorta
di
impunità
verso
i
reati.
Per
ovviare
a
tale
limite,
Eleonora,
come
per
altro
già
alcuni
suoi
predecessori,
si
trovarono
a
definire
la
pena
di
morte
come
inevitabile
in
caso
di
omicidio,
ed
in
nessun
caso
sostituibile
con
una
pena
pecuniaria.
Un
simile
principio
andava
così
a
rinnegare
l’antica
regola
barbarica
che
recitava
“il
sangue
può
essere
asciugato
dall’oro”,
come
se
una
vita
potesse
essere
ripagata
ai
superstiti
con
il
prezioso
metallo.
Davanti
alla
gravità
della
colpa,
recita
infatti
il
codice
“E
pro
dinari
alcunu
nun
campit”,
ovverosia
nessuno
pagando
con
il
denaro
possa
scampare
alla
pena
come
citato
nei
capitoli
III
e V.
Secondo
tale
articolo,
sia
il
popolano
che
il
nobile
si
ritrovavano
ad
essere
uguali,
almeno
davanti
alla
legge,
almeno
per
un
reato
così
grave
che
causi
una
morte.
Altro
dato
significativo
appare
essere
che
nel
sistema
giuridico
del
giudicato
di
Arborea,
la
reclusione
non
era
considerata
un
sistema
punitivo:
esisteva
solo
una
detenzione
preventiva
dell’imputato
in
attesa
di
giudizio.
In
questo
senso
la
carcerazione
non
aveva,
ovviamente,
alcun
intento
riabilitativo
ma
semplicemente
contenitivo
e di
tutela
dei
cittadini.
Un
testo
antico,
intriso
della
cultura
medioevale
e
chiuso
nel
microcosmo
dell’isola,
eppure
con
slanci
inaspettati
verso
la
modernità:
sono
queste
le
caratteristiche
che
fanno
della
“Carta
de
Logu”
uno
strumento
per
osservare
la
società
sarda
all’inizio
del
Millequattrocento.
Di
sicuro
un
libro
complesso
ma
carico
di
fascino
e di
mistero
come
la
terra
e
come
la
donna
da
cui
è
nato.
Riferimenti
bibliografici:
C.
Paoli
(a
cura
di
G.
C.
Bescapè),
Diplomatica,
Sansoni,
Firenze
1969.
F.C.
Casula,
La
Carta
de
Logu
del
Regno
di
Arborea,
Carlo
Delfino
Editore,
Sassari
1995.
B.
Pitzorno
Bianca,
Vita
di
Eleonora
d’Arborea,
Mondadori,
Milano
2010.