N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
relazioni di potere
peculiarità del caso africano
di Gianluca Seramondi
L’obiettivo
di
questo
lavoro
è
individuare
un
modello
tipico
di
relazioni
di
potere
che
concerne
il
rapporto
tra
le
élite
e il
resto
della
popolazione
in
Africa.
Preciso
subito
che
l’Africa
indagata
è
quella
subsahariana
e
che
il
periodo
di
riferimento
è
quello
che
va
dall’indipendenza
ai
giorni
nostri.
Nella
prospettiva
indicata
e
all’interno
delle
coordinate
fissate,
lo
scopo
di
questo
intervento
è
mostrare
che
al
di
sotto
o
nelle
pieghe
delle
relazioni
tra
governanti
e
governati
continua
a
vigere,
informandole,
un
modello
socio-culturale
che
deriva
direttamente
al
continente
africano
dall’Occidente
colonialista/imperialista
e
che
gli
africani
stanno
ancora
oggi
riproponendo
soggiacendo,
verrebbe
da
dire,
ad
una
esiziale
coazione
a
ripetere.
La
violenza
come
normalità
delle
relazioni
sociali
verticali
in
Africa
Philippe
Leymarie
nel
seminario
L’Africa
oggi
tra
sfide
e
prospettive,
tenutosi
a
Bologna
il
20,21
e 22
maggio
2010,
ha
rammentato
che
la
storia
dei
rapporti
tra
occidente
e
Africa
fu e
fu
vissuta
dalle
popolazione
africane
come
una
esperienza
estremamente
violenta.
L’inizio
di
questa
storia
è da
ricercarsi
ovviamente
nella
tratta
degli
schiavi
che,
come
ha
ricordato
Leymarie,
seppure
pratica
già
in
uso
tra
gli
arabi,
raggiunse
con
l’arrivo
degli
europei
picchi
spaventosi.
Se
furono
4
milioni
gli
schiavi
africani
neri
che
presero
la
via
del
Mar
Rosso
verso
il
Medio
Oriente,
4 o
5
milioni
quelli
che
attraversarono
il
Sahara
per
servire
i
berberi,
e se
altrettanti
neri
si
imbarcarono
sulle
navi
che
solcavano
l’Oceano
Indiano,
gli
africani
neri
oggetto
del
commercio
triangolare
con
le
Americhe
furono
tra
gli
11 e
i 20
milioni.
Un
numero
impressionante
che
spinse
gli
arabi,
nel
cui
immaginario
insiste
tutt’oggi
la
sinonimia
tra
“nero”
e
“schiavo”,
a
coalizzarsi
con
i
disprezzati
neri
in
funzione
antioccidentale.
Dismesse
le
vesti
dello
schiavismo,
l’Europa
coloniale
non
ne
accantonò
la
violenza.
Anche
senza
voler
ricordare
la
ferocia
con
cui
l’Italia
fascista
procedette
nell’occupazione
di
Libia
e
Etiopia
o il
carattere
predatorio
e
stragista
della
colonizzazione
belga
del
Congo,
o
altri
esempi
poco
edificanti
della
presenza
europea
in
Africa,
la
violenza
era
ben
visibile
già
nella
suddivisione
a
tavolino
del
territorio
africano
irriguardosa
nei
confronti
di
statualità
e
culture
preesistenti.
Un
esempio
per
tutti.
La
compartimentazione
in
governatorati
del
Corno
d’Africa
nell’Africa
Orientale
Italiana,
creazione
fascista,
fu
effettuata
su
base
etnica
ed
ebbe
come
effetto
la
scorporazione
dal
territorio
dell’Etiopia
di
sue
intere
regioni
più
o
meno
etnicamente
omogenee:
la
regione
sudorientale
dell’Ogaden
a
maggioranza
somala
fu
unita
al
governatorato
somalo,
la
regione
del
Tigrai
accorpata
all’Eritrea
(già
colonia
italiana).
Il
fascismo
intervenne
pesantemente
anche
sulle
tradizionali
gerarchie
sociali,
reprimendo
violentemente
gli
Ahmara,
il
vertice
della
gerarchia,
e
favorendo
gli
Oromo,
l’etnia
che
occupava
i
gradini
più
bassi
della
scala
sociale
e
che
fornì
la
più
estesa
collaborazione
agli
occupanti
fascisti.
La
violenza
permeò
inoltre
istituzioni
come
la
scuola
coloniale
la
quale
imponeva:
una
lingua
straniera
e
nemica,
una
storia
europocentrica
e la
sistematica
svalutazione
e
denigrazione
di
culture
autoctone.
Così,
per
esempio,
nelle
colonie
lusofone
(Angola,
Mozambico,
Guinea
Bissau
ecc.)
la
concessione
della
cittadinanza
portoghese
era
subordinata
alla
adozione
della
lingua
portoghese
e
della
religione
cattolica.
Queste
però
erano
condizioni
sì
necessarie
ma
niente
affatto
sufficienti
giacché
il
regime
di
Salazar
concesse
il
diritto
alla
cittadinanza
a
ben
pochi
africani.
Del
resto
gli
amministratori
belgi
del
Congo
al
fine
di
gestire
un
territorio
immenso
rispetto
alle
estensioni
della
metropoli,
introdussero
rigidi
controlli
sulle
attività
e
sui
movimenti
delle
persone,
scolarizzarono
a
livello
elementare
i
congolesi,
affidandoli
perlopiù
a
scuole
cattoliche,
ma
ne
impedirono
l’accesso
all’istruzione
superiore
tant’è
che
negli
anni
50
solo
un
centinaio
di
congolesi
aveva
la
laurea:
il
Belgio
ottenne
il
controllo
della
popolazione
congolese
facendo
leva
sull’ignoranza,
cioè
mantenendola
nell’ignoranza,
come
sottolinea
Stefano
Bellucci
nella
Storia
delle
guerre
africane.
Dalla
fine
del
colonialismo
al
neoliberalismo
globale.
Questa
presenza
diffusa
e
capillare
della
violenza
ha
creato
nella
popolazione
africana
una
struttura
mentale
improntata
all’insicurezza,
alla
precarietà,
alla
paura
della
sopraffazione,
all’inferiorità
chiosa
Leymarie.
Difficile
non
fare
un
parallelo
tra
questa
descrizione
psicologica
e la
comune
esperienza
d’assoggettamento
vissuta
dalle
popolazioni
africane,
la
quale
si è
tradotta
in
un
vincolante
sentimento
di
solidarietà
tra
gli
africani
che
ha
avuto
ragione
delle
differenze
etniche
o
culturali
e
che,
secondo
Stefano
Bellucci,
è
uno
dei
fattori
che
ha
impedito
l’insorgere
di
conflitti
e
guerre
di
secessione
negli
stati
africani
nonostante
che
il
progetto
di
nation
building
non
riuscisse
nel
suo
intento
di
superare
le
mille
culture
che
tutt’oggi
affollano
ciascun
stato
africano.
Urge
però
sottolineare
che
questo
modello
violento
di
relazioni
verticali
non
è
venuto
meno
con
il
raggiungimento
dell’indipendenza,
come
se
lo
sfruttamento
e il
dominio
esercitato
dagli
europei
avessero
radicato
nelle
popolazioni
africane
il
convincimento
che
esso
fosse
l’unico
e
normale
modello
di
relazione
tra
élite
e
masse,
tra
governanti
e
governati,
tra
etnie
dominanti
ed
etnie
subalterne.
Si
lascino
pure
da
parte
i
regimi
razzisti
e
segregazionisti
che
vigevano
nella
Rhodesia
di
Ian
Smith
o
nel
Sudafrica
dell’apartheid
che,
lo
si
ricordi
en
passant,
non
si
limita
ad
una
distribuzione/separazione
territoriale
tra
bianchi
e
neri
ma è
innanzitutto
una
classificazione
gerarchica
dei
cittadini
e
una
loro
collocazione
socioeconomica
effettuate
sulla
base
del
solo
criterio
razziale
(Bellucci).
Il
fatto
è
che
tutta
la
storia
delle
guerre
civili
africane
durante
il
cosiddetto
postcolonialismo,
cioè
il
periodo
degli
stati
nazionali
africani,
mostra
quasi
con
monotonia
uno
stesso
schema:
con
l’indipendenza,
il
gruppo
africano
che
durante
il
colonialismo
aveva
rappresentato
l’élite
si
pose
alla
guida
dello
stato
africano
indipendente
nel
assoluto
dispregio
dei
gruppi
(siano
essi
etnie,
classi,
caste
ecc)
subalterni
e
delle
loro
rivendicazioni
e
posizioni
politiche.
In
altri
termini
le
élite
africane
che
afferrarono
il
potere
dei
neoformatisi
stati
nazionali
non
si
posero
neppure
il
problema
di
introdurre
una
dialettica
politica
con
i
gruppi
sociali
e le
loro
rappresentanze
politiche
ora
all’opposizione.
Di
fatto
riprodussero
modelli
di
relazione
importati
e
trapiantati
sul
suolo
africano
dagli
europei
nel
loro
rapportarsi
alle
popolazioni
africane
assoggettate.
Per
evitare
possibili
fraintendimenti,
va
subito
precisato
che
la
violenza
non
è
affaire
di
singoli
ma
riguarda
ovviamente
le
relazioni
verticali
tra
gruppi
sociali
e
solo
per
“cooptazione”
i
singoli.
Di
conseguenza
anche
quando
si
tratteranno
singole
figure
è
bene
ricordare
che
esse
sono
nodi
in
cui
convergono
più
forze,
rappresentanti
di
gruppi
di
potere,
concrezioni
individuali
di
modelli
di
gestione
sociale,
front
men
di
gruppi
sociali
dominanti.
È
del
resto
il
genocidio
dei
tutsi
nel
Ruanda
del
1994
a
testimoniare
questa
banale
verità
essendo
stato
solo
l’episodio
terminale
e
più
lacerante
e
doloroso
di
una
lunga
storia
di
prevaricazioni
tra
hutu
e
tutsi.
Non
voglio
entrare
nella
discussione
circa
la
presunta
motivazione
etnica
di
questo
sterminio
di
massa:
a
tal
proposito
basti
ricordare
anzitutto
che
la
morte
violenta
fu
inflitta
anche
a
hutu
moderati,
e in
secondo
luogo
che
hutu
e
tutsi
indicavano
all’origine
due
caste
sociali
e
non
due
etnie.
Quello
che
qui
preme
sottolineare
è
che
la
violenza
contro
i
tutsi
affonda
le
sue
radici
negli
anni
60
quando
gli
hutu,
con
il
benestare
di
Belgio
prima
e
Francia
poi,
divennero
gruppo
sociale
dominante
per
la
loro
posizione
filocapitalista
e
anticomunista.
Proseguì
negli
anni
70
con
uccisioni
sporadiche
ma
continue
di
tutsi
giustificate
da
radio
e
giornali
che
fomentavano
l’odio
supposto
etnico
(cui
non
mancò
di
dare
il
suo
apporto
la
chiesa
cattolica
locale)
e
continuò
negli
anni
a
seguire
fino
a
che
l’incidente
aereo
occorso
al
presidente
ruandese
di
etnia
hutu
Juvenal
Habyariamana,
che
peraltro
stava
aprendo
ai
tutsi,
non
scatenò
l’inferno.
Spostando
lo
sguardo
in
Sudan,
già
protettorato
inglese,
l’etnia
dominante
durante
il
colonialismo
era
quella
arabo
mussulmana
che
controllava
il
nord
del
paese
mentre
il
gruppo
sociale
subalterno
costituito
da
cristiani
e
animisti
aveva
radici
nel
sud
del
paese.
Con
l’indipendenza
ottenuta
a
partire
dal
1956,
gli
arabi
mussulmani
presero
le
redini
dello
stato
e
subito
iniziarono
le
schermaglie
con
i
cristiani
e
gli
animisti
poiché
gli
arabi
mussulmani
misero
propri
uomini
in
tutti
i
posti
chiave
dell’amministrazione,
non
aderirono
al
Commonwealth
a
cui
preferirono
la
Lega
araba.
Le
schermaglie
si
mutarono
presto
in
aperta
ribellione
dei
cristiani
del
sud
e
dunque
in
guerra
civile
che
lacerò
il
paese
dal
1963
al
1972
per
poi
riprendere
dal
1983
al
2004.
Uno
stesso
meccanismo
ma a
parti
invertite
fu
all’opera
nel
Ciad
indipendente.
Nella
colonia
francese
l’élite
africana
dominante
durante
il
colonialismo
era
quella
cristiana
del
sud,
che
non
appena
raggiunto
il
potere
impedì
all’opposizione
mussulmana
del
nord
ogni
partecipazione
all’amministrazione
del
paese,
anzi
la
represse
violentemente
e
impose
il
monopartitismo.
Nella
corsa
e
rincorsa
al
potere
le
élite
emarginate
del
nord
del
paese
si
organizzarono
nel
Fronte
di
liberazione
nazionale
del
Ciad
che
dopo
15
anni
di
lotta
portò
nel
1983
il
nordista
Hissene
Habré
al
potere.
E,
naturalmente,
il
ciclo
ricominciò:
autoritarismo
militare,
fiera
repressione
di
ogni
opposizione
ecc.
ecc.,
fino
a
che
Legione
islamica
di
Deby,
con
il
prezioso
aiuto
libico
e
sudanese,
non
riuscì
nel
1990
a
fare
cadere
Habré.
Figure
di
potere
Orientando
secondo
un’altra
angolatura
l’analisi
della
storia
africana
degli
ultimi
50
anni
si
scorgeranno
profilarsi
figure
di
potere
che
radicano
la
storia
violenta
sopra
tratteggiata
nel
rovescio
oscuro
della
storia
europea.
Si
torni,
per
esempio,
al
Ciad.
Il
Fronte
di
liberazione
nazionale
del
Ciad
era
armato
dalla
Libia
di
Gheddafi.
Tuttavia
il
colpo
di
stato
del
suo
esponente
di
rilievo
Hissene
Habrè
fu
appoggiato
da
Francia
e
Usa
per
le
sue
posizioni
filoccidentali,
anticomuniste
e in
chiara
funzione
antilibica.
Per
ritorsione
la
Libia
insieme
al
Sudan
appoggiarono
colui
che
poi
destituì
Habré:
Hidren
Deby.
Il
quale,
alla
fine
della
guerra
fredda,
aprì
alla
Francia
che
si
stava
allontanando
dagli
Usa,
nonostante
le
sue
posizioni
ancora
filolibiche
e
filosudanesi.
Un
altro
protagonista
di
questa
storia
di
violenza
è
ovviamente
Joseph-Desirè
Mobutu.
Protagonista
di
un
primo
colpo
di
stato
nel
1960,
Mobutu,
che
proveniva
dal
movimento
di
Patrice
Lumumba,
represse
nel
sangue,
aiutato
da
mercenari
bianchi
europei,
sudafricani
e
americani,
una
insurrezione
contadina
scatenata
dall’assassinio
di
Patrice
Lumumba,
organizzato
dalle
intelligence
belga
e
statunitense
e
eseguito
dai
separatisti
del
Katanga,
ricca
regione
mineraria
nel
sud
del
Congo.
Nel
1965
un
secondo
colpo
di
stato
consegnò
nuovamente
il
Congo
a
Mobutu
il
quale,
brandendo
la
bandiera
dell’autenticità
africana,
rinominerà
il
proprio
paese
Zaire
mentre
per
sé
adotterà
il
nome
di
Mobutu
Sese
Seko.
Mobutu
governò
all’insegna
della
cleptocrazia,
della
corruzione,
della
violenza,
della
cooptazione
quando
non
eliminazione
dei
rivali
politici,
e
nonostante
ciò
fu
sostenuto
da
Francia
e
Usa
come
strumento
di
contenimento
della
minaccia
comunista
fino
al
1997,
quando
fu
destituito
da
Laurent-Desiré
Kabila.
Dal
canto
suo,
Laurent
Desiré
Kabila
non
teme
affatto
di
comparire
in
questa
serie
fotografica.
Partecipò
alla
sollevazione
contadina
appoggiata
da
Cuba,
Cina
e
altri
paesi
non-allineati
che
nel
1961
portò
alla
fine
del
primo
governo
Mobutu.
Nel
1996
guidò
l’Alleanza
delle
forze
democratiche
per
la
liberazione
del
Congo,
che
nella
sua
cosiddetta
lunga
marcia
per
destituire
Mobutu
non
mancò
di
compiere
massacri
di
hutu
e
congolesi.
Al
momento
di
questa
lotta
per
l’indipendenza
Kabila
non
era
più
terzomondista
o
anche
solo
vetero
marxista
come
ai
tempi
di
Lumumba
ma
aveva
sposato
appieno
il
capitalismo
e il
liberismo
nella
forma
di
un’alleanza
con
gli
Usa
e
con
i
paesi
africani
agli
Usa
legati.
Kabila
riuscì
nell’intento
di
deporre
Mobutu
e di
salire
al
governo.
Non
appena
preso
il
potere
però
iniziò
l’accentramento
autoritario
che
di
fatto
innescò
la
cosiddetta
“Grande
Guerra”
dell’Africa
contemporanea:
una
guerra
civile
tra
le
forze
governative
di
Kabila
e i
gruppi
di
opposizione
al
suo
regime,
l’uno
e
gli
altri
appoggiati
dai
paesi
africani
confinanti
che
intervennero
militarmente
nella
contesa
con
proprie
truppe.
Ci
si
soffermi
sulle
scelte
opportunistiche
di
Kabila.
Il
detonatore
della
conflagrazione
fu
l’epurazione
di
ruandesi
e
ugandesi
dal
governo
e
dall’esercito
della
Repubblica
Democratica
del
Congo
(come
Kabila
rinominò
lo
Zaire,
a
segnare
lo
stacco
netto
da
Mobutu),
quando
Ruanda
e
Uganda
avevano
supportato
Kabila
durante
la
sua
lunga
marcia
contro
Mobutu.
Quando
si
accorse
di
stare
perdendo
la
presa
sulla
popolazione,
Kabila
cercò
di
riavvicinare
gli
ex
dignitari
della
corte
di
Mobutu
allontanando
dal
governo
i
tutsi
congolesi,
già
discriminati
dall’ex
dittatore.
Insomma
un
continuo
cambiamento
di
fronte
il
cui
unico
obiettivo
era,
per
il
presidente
Kabila,
di
mantenere
ben
saldo
il
potere.
Spostando
lo
sguardo
sul
Corno
d’Africa
si
rivedono
all’opera
gli
stessi
meccanismi,
nonostante
che
questa
regione
dell’Africa
orientale
rappresenti
un’eccezione
nel
panorama
africano.
Secondo
Stefano
Bellucci,
infatti,
il
Corno
d’Africa
ha
vissuto
guerre
sul
proprio
territorio
che
sono
anomale
rispetto
al
panorama
africano:
-
una
lunga
e
vittoriosa
guerra
di
liberazione
condotta
dall’Eritrea
non
contro
una
metropoli
occidentale
ma
contro
l’Etiopia;
-
una
guerra
di
secessione
tra
Somalia
e
Etiopia,
che
peraltro
afferivano
allo
stesso
campo
socialista,
per
il
possesso
dalla
etiopica
regione
dell’Ogaden
a
maggioranza
somala.
Il
Corno
d’Africa
ha
rappresentato
un’eccezione
anche
perché
l’Etiopia
rimase
fuori
dell’interesse
delle
potenze
occidentali
fino
all’occupazione
fascista
del
1936,
la
quale
però
si
concluse
nel
1941.
Dopo
il
1941,
come
è
noto,
l’Eritrea
fu
federata
all’Etiopia
che
nel
1962
la
annesse
unilateralmente
-innanzitutto
per
avere
uno
sbocco
sul
mare-
dando
vita
alla
lotta
armata
eritrea
e
dunque
alla
lunga
guerra
di
liberazione
che
si è
conclusa
solo
nel
1991
(Etiopia
e
Onu
hanno
riconosciuto
l’Eritrea
nel
1993).
Quello
che
qui
interessa
è il
comportamento
dell’reinsediato
imperatore
etiopico
Haile
Selassie.
L’imperatore
riprese
una
politica
estera
orientata
al
dominio
e
all’assoggettamento
al
fine
di
restaurare
l’Etiopia
quale
potenza
egemone
nel
Corno.
Nell’interno
accentrò
il
potere
e
ripristinò
i
precoloniali
istituti
feudali
e
ridiede
potere
alle
classi
abissine
che
occupavano
il
centro
del
paese
e
che
tornarono
a
sfruttare
le
popolazioni
di
religione
mussulmana
risiedenti
nelle
periferie
dell’Etiopia.
Quando
nel
1975
i
militari
abbatterono
il
regime
di
Selassie
e
instaurarono
un
regime
di
stampo
marxista-leninista
(a
questo
proposito
consiglio
la
lettura
del
romanzo
Lo
sguardo
del
leone
di
Maaza
Mengiste,
Neri
Pozza),
il
loro
programma
prevedeva:
abolizione
degli
istituti
feudali,
il
diritto
di
autodeterminazione
dei
popoli
e il
principio
di
uguaglianza
tra
i
cittadini.
Punti
di
un
programma
progressista
che
si
rivelarono
ben
presto
slogan
accantonabili
non
appena
raggiunto
il
potere.
Difatti
il
governo
militare
(DERG)
guidato
da
Menghitsu,
che
ovviamente
non
concesse
l’indipendenza
all’Eritrea,
nazionalizzò
l’economia
in
obbedienza
al
marxismo-leninismo,
non
diede
alcuno
spazio
all’opposizione
politica,
non
concesse
spazi
di
consultazione
all’interno
del
partito
o
degli
istituti
corporativi
creati
con
la
collettivizzazione
dell’economia,
epurò
le
frange
critiche
seppure
di
osservanza
marxista,
non
si
pose
nemmeno
il
problema
del
rapporto
tra
le
diverse
culture
e
etnie
che
si
affaccendavano
sul
territorio
dell’Etiopia
anzi
lo
aggravò
ridando
potere
all’aristocratica
etnia
Ahmara
già
dominante
durante
l’impero
etiopico
precoloniale.
Anche
il
Sudafrica,
la
prima
potenza
economica
del
continente,
è,
quanto
a
opportunismo,
una
sorta
di
Giano
bifronte.
Indicato
come
la
culla
del
rinascimento
africano,
dalla
fine
dell’apartheid
il
Sudafrica
è il
centro
di
un
fascio
di
relazioni
che
lo
connettono
a
tutto
l’Occidente,
anche
se
il
suo
partner
economico
privilegiato
è la
Cina.
Ha
importanti
investimenti
minerari
su
tutto
il
territorio
africano
e i
suoi
punti
di
forza
interni
sono
le
miniere,
l’industria
energetica,
nucleare
e
militare.
Il
Pil
sudafricano
nel
2008
ha
raggiunto
i
300
miliardi
di
dollari
pari
al
Pil
di
tutto
il
resto
dell’Africa.
Tutto
ciò
però
non
ha
risolto
la
povertà
in
cui
versa
la
stragrande
maggioranza
dei
neri.
Il
motivo
risiede
nel
fatto
che
l’economia,
come
rimproverò
Winnie
Mandela
al
marito
Nelson,
è
rimasta
interamente
in
mano
alla
minoranza
bianca
e la
borghesia
nera
che
si è
formata
e
arricchita
solo
grazie
alla
politica
e
all’amministrazione,
è
composta
da
una
percentuale
molto
piccola
della
popolazione
nera
e
risulta
così
essere
il
frutto
di
una
emancipazione
solo
di
facciata
(traggo
i
dati
dalle
lezioni
di
P.
Leymarie).
Risulta
interessante
istituire
qui
un
parallelo
con
la
vicenda
dello
Zimbabwe,
dove
i
movimenti
degli
africani
neri
che
si
ribellarono
e
infine
rovesciarono
il
regime
razzista
di
Ian
Smith
nell’allora
Rhodesia
del
Nord,
si
riservarono
il
potere
istituzionale
ma
lasciarono
nelle
mani
della
minoranza
bianca
il
controllo
della
terra
e
dei
capitali,
dunque
dell’economia,
e di
fatto
mantennero
immutati
i
forti
gap
di
ricchezza
tra
minoranza
bianca
e
maggioranza
nera.
Solo
dopo
che
l’attuale
leader
nero
Robert
Mugabe
decise
di
intervenire
nella
“grande
guerra”
della
Repubblica
democratica
del
Congo
(1998-2002),
si è
iniziato
a
parlare
di
redistribuzione
della
terra
per
compensare
i
sacrifici
fatti
dai
veterani
di
guerra.
Ad
oggi,
però,
la
questione
della
terra
è
tutt’altro
che
conclusa.
Anche
qui
una
condotta
affatto
particolare
da
parte
dei
neri
che
parrebbero
preferire
il
potere
formale
delle
istituzioni
al
potere
sostanziale
dell’economia.
Tornando
al
Sudafrica,
dal
punto
di
vista
politico
l’African
National
Congress
è
praticamente
un
partito
unico
confuso
con
lo
stato.
L’attuale
presidente,
Jacob
Zume,
ha
fatto
carriera
nell’ANC
di
cui
è
diventato
leader
nel
2007.
È
stato
Ministro
della
difesa
e
durante
il
suo
ministero
fu
indagato
per
tangenti
e fu
addirittura
accusato
di
stupro.
Con
il
populista
Zume
l’ANC
ha
ripreso
a
brandire
la
retorica
della
violenza
rivoluzionaria
contro
i
traditori
che,
come
spesso
accade,
sono
giornalisti,
capi
religiosi
ecc.
ecc.
L’effetto
di
questa
svolta
è
stato
l’allontanarsi
dall’ANC
dei
settori
più
progressisti
della
popolazione
bianca,
una
accentuata
emigrazione
di
bianchi
verso
la
Nuova
Zelanda,
l’Australia
e
gli
Usa
e,
infine,
un
rafforzamento
delle
minoranze
ricche.
La
serie
di
ritratti
or
ora
percorsa
di
leader
e/o
élite,
restituisce
la
misura
del
loro
opportunismo
camaleontico
oltreché
violento,
del
loro
appropriarsi
dello
stato,
e
vira
il
loro
personalissimo
progetto
di
state
building
secondo
le
forme
molto
meno
nobili
di
un
disegno,
per
così
dire,
di
power
keeping.
In
questo
quadro
ideologia,
etnia,
cultura,
religione,
non
furono
e
non
sono
affatto
i
motivi
di
fondo
dei
conflitti
e
delle
guerre
africani,
bensì
gli
strumenti
utili
a
mobilitare
le
masse,
a
intercettare
la
disperazione
e la
rabbia
delle
classi
subalterne,
a
esaltare
le
fantasie
di
ossequiosa
pantomima
di
giovani
africani
inattivi
formatisi
ai
modelli
consumistici
dell’Occidente,
al
fine
di
tenere
ben
salde
le
redini
del
potere
istituzionale.
Non
sono
forse
figure
già
viste
quelle
che
hanno
lacerato
il
tessuto
sociale
africano?
Bellucci
più
volte
ricorda
che
in
Africa
il
controllo
del
potere
statale
- il
controllo
del
governo,
dell’amministrazione
statale
centrale
e
periferica,
delle
istituzioni
dello
stato
-
significa
ricchezza.
A
sostegno
di
questa
tesi
vi è
il
fatto
che
uno
dei
motivi
che
hanno
frenato
le
spinte
secessioniste
delle
élite
regionali
in
molti
paesi
africani
è
stato
proprio
di
aver
occupato
i
posti
chiave
delle
amministrazioni
periferiche
dello
stato.
Questa
situazione
ha
garantito
alle
élite
regionali
un
controllo
del
territorio
e
delle
sue
risorse
più
efficace
e
soprattutto
più
sicuro,
cosa
che
la
rivendicazione
unilaterale
di
indipendenza
non
avrebbe
potuto
assicurare.
Questa
compenetrazione
fitta
tra
potere
ed
economia
è, a
mio
parere,
il
retaggio
più
profondo
del
colonialismo,
il
modello
europeo
che
più
si è
stampato
nella
carne
delle
società
africane
e
che
affonda
le
sue
radici
nella
genesi
stessa
dell’imperialismo.
Nel
suo
Le
origini
del
totalitarismo
Hannah
Arendt
ha
ricostruito
l’insorgere
dell’imperialismo
a
partire
dalla
necessità
economica
dell’espansione
capitalista
la
quale
è
innanzitutto
aumento
della
produzione
di
beni
da
usare
e
consumare.
Questa
necessità
si
scontrò
con
i
limiti
degli
stati
nazionali
ottocenteschi
ciascuno
con
un
proprio
sistema
politico
diverso
dagli
altri
che
rendeva
difficile
la
libera
circolazione
dei
beni
e
dei
capitali.
Per
questo
motivo
la
borghesia,
significativamente
la
prima
classe
sociale
comparsa
nella
storia
a
non
dedicarsi
fin
da
subito
alla
politica
ma
riservandosi
solo
il
gioco
economico,
entrò
nell’agone
della
politica
imponendo
ai
governi
l’espansione
come
obiettivo
della
politica
estera.
L’obiettivo
dell’espansione
all’inizio
sembrava
dover
trovare
il
suo
limite
nell’espansione
di
un'altra
economia
nazionale
sicché
il
pericolo
di
un
monopolio
infine
mondiale
da
parte
di
un’economia
nazionale
sulle
altre
sembrava
potersi
scongiurare
grazie
alla
libera
concorrenza.
Tuttavia
questa
ingenua
fede
nei
meccanismi
stabilizzatori
della
concorrenza
dimenticava
il
fatto
che
l’equilibrio
tra
le
forze
economiche
non
dipendeva
da
leggi
interne
all’economia
ma
dalle
«istituzioni
politiche,
giuridiche
e
poliziesche,
che
precludevano
ai
concorrenti
l’uso
della
pistola»
(H.
Arendt,
Le
origini
del
totalitarismo,
p.
176).
Nella
seconda
metà
dell’Ottocento,
la
spinta
all’espansione
fu
frenata
anche
– ma
a
ben
vedere
anche
questo
è
epifenomeno
del
regime
capitalistico
- da
una
sovrapproduzione
che
rese
i
capitali
accumulati
superflui,
cioè
inutilizzabili
perché
non
vi
era
più
disponibilità
di
investimenti
produttivi
effettivamente
percorribili.
Ora
che
il
capitale
non
possa
più
essere
“working
capital”,
solo
nel
senso
di
capitale
che
produce
capitale,
è
ciò
che
propriamente
non
può
accadere
in
un
regime
capitalistico.
La
strada
che
rimaneva
a
questi
capitali
che
fremevano
per
produrre
ulteriore
profitto
era
la
speculazione.
La
Arendt
ricorda
infatti
che
poco
prima
degli
Anni
70 e
80
del
XIX
secolo
l’Europa
finanziaria
fu
scossa
da
truffe,
speculazioni
ardite
e
sommamente
rischiose.
In
questo
quadro
la
via
dei
paesi
extraeuropei
si
presentava
estremamente
appetibile.
Era,
tuttavia,
anch’essa
una
soluzione
molto
rischiosa
e
che
avrebbe
potuto
provocare
crolli
finanziari
dalle
conseguenze
devastanti
per
la
tenuta
sociale
degli
stati
europei.
I
quali
così
dovettero
mettersi
al
seguito
del
capitale
per
proteggerlo
dai
rischi
che
avrebbe
potuto
correre
nelle
terre
dell’Asia
o
dell’Africa.
Tuttavia
lo
stato
non
si
mise
al
servizio
del
capitale
con
tutto
il
proprio
apparato
politico
e
giuridico,
che
avrebbe
regolamentato
il
gioco
stesso
del
profitto,
ma
gli
mise
a
disposizione
le
sole
forze
militari
e di
polizia.
Si
creò
così
un
circuito
diabolico
tra
capitale
e
forza
statale,
per
cui
il
capitale
poteva
continuare
a
riprodursi
e
ulteriormente
incrementarsi
senza
dover
passare
attraverso
il
cammino
accidentato
dell’investimento
produttivo
ma
facendo
leva
solo
sulla
forza.
In
Africa
si
realizzò
così
il
sogno
di
ogni
buon
capitalista:
denaro
che
genera
da
sé
denaro.
Naturalmente
a
questo
punto
diventava
essenziale
avere
il
controllo
della
forza.
Di
conseguenza
diventava
essenziale
accumulare
potere.
E
ciò
rendeva
superflui
non
più
i
capitali
ma i
corpi
politici:
le
rappresentanze
politiche,
i
luoghi
del
loro
confronto,
le
istituzioni
in
cui
addivenire
ad
una
composizione
degli
interessi
sociali,
gli
apparati
giuridici
di
regolamentazione
della
società
civile,
i
centri
di
controllo
e
vigilanza
degli
apparati
militari
e di
polizia.
Non
è
forse
quanto
è
accaduto
in
Africa
e
quanto
forse
accade
tutt’oggi?
Non
è
stata
forse
l’Africa
il
laboratorio
a
cielo
aperto
in
cui
il
processo
di
accumulazione
capitalistica
ha
sperimentato
le
sue
forme
operative
più
spregiudicate?
Non
si
comprende
ora
perché
le
élite
africane
hanno
accettato
di
sedersi
sulla
conquista
delle
istituzioni
lasciando
che
i
gangli
del
potere
economico
fossero
occupati
ancora
dalle
minoranze
bianche,
per
esempio?
Il
fatto
è
che
il
modello
capitalista
declinato
nella
forma
imperialista
mantiene
intatta
la
sua
performatività
sulla
società
africana
come
unico
modello
efficiente
ed
efficace.
Ma
oggi,
nell’Africa
che,
stando
alla
mappatura
cronologica
fatta
da
Bellucci,
sta
vivendo
il
suo
momento
neoliberale,
le
cose
stanno
ancora
così?
Per
comprenderlo
è
bene
allargare
l’orizzonte
e
muovere
dalle
relazioni
che
il
continente
africano
stabilisce
con
l’Occidente
dopo
il
dissolvimento
del
campo
socialista.
Uno
sguardo
articolato
sul
continente
africano.
Philippe
Leymarie
ha
rilevato
che
il
dissolvimento
del
campo
socialista
e il
ritrarsi
delle
potenze
occidentali
dai
territori
africani
cui
erano
legati
attraverso
la
vicenda
coloniale
e
postcoloniale,
hanno
determinato
lo
sgretolamento
di
rapporti
univoci,
per
cui,
per
esempio,
gli
stati
dell’Africa
occidentale
che
aderirono
alla
comunità
francofona
creata
dopo
l’indipendenza
mantenevano
rapporti
pressoché
esclusivi
con
la
metropoli
francese.
La
situazione
odierna
è
molto
più
fluida
ed è
legata
a
doppio
filo
alla
ricchezza
di
risorse
minerarie,
anzitutto,
che
il
continente
africano
possiede
e di
cui
l’Occidente
e,
ora,
le
nuove
potenze
economiche
come
la
Cina,
hanno
un
bisogno
urgente.
La
coscienza
della
propria
ricchezza
geologica
e la
fine
del
mondo
a
due
blocchi,
hanno
portato
molti
stati
dell’Africa
in
una
posizione
di
relativa
forza
rispetto
agli
stati
occidentali
consentendo
loro
di
moltiplicare
e
diversificare
le
partnership
internazionali,
di
rinegoziare
contratti
in
essere
o di
scegliere
partner
non
tradizionali.
Tutto
ciò
inoltre
ha
avuto
conseguenze
sulla
geopolitica
dell’Africa
portando
al
sorgere
di
nuove
potenze
regionali.
Per
esempio
le
risorse
petrolifere
in
specie
off
shore
hanno
fatto
dell’Angola
il
primo
produttore
africano
di
petrolio.
Grazie
ad
esso
l’Angola
ha
stretto
accordi
commerciali
con
Cina
e
Israele
ma,
nello
stesso
tempo,
ha
individuato
nelle
compagnie
petrolifere
Esseco
(Usa)
e
Total
(Francia)
i
propri
principali
partner
economici.
Anche
dal
lato
dell’Occidente,
sotto
il
profilo
del
suo
rapporto
con
l’Africa,
molte
cose
sono
cambiate.
Le
ex
metropoli
non
sono
più
i
principali
interlocutori
dell’Africa.
Ad
esse
si
sono
affiancate,
oltre
agli
Stati
Uniti,
le
potenze
asiatiche.
La
Cina
è
fortemente
presente
in
Africa:
il
90%
dei
prodotti
venduti
sui
mercati
africani
è
cinese;
nella
sola
Africa
settentrionale
si
contano
900
imprese
cinesi;
dal
2000
imprenditori
cinesi
stanno
vincendo
tutti
gli
appalti
pubblici
e
nella
Repubblica
Democratica
del
Congo
gruppi
cinesi
hanno
ottenuto
permessi
di
estrazione
mineraria
in
cambio
della
costruzione
di
opere
pubbliche.
Il
Giappone
registra
un
volume
di
scambi
commerciali
con
i
paesi
africani
pari
ad
1/3
di
quello
tra
Cina
e
Africa.
L’India,
facendo
leva
su
importanti
comunità
indiane
in
Africa
occidentale
e
australe,
ha
propri
manager
nei
consigli
di
amministrazione
di
molte
banche
africane
e,
in
campo
industriale,
opera
principalmente
nei
settori
della
trasformazione
delle
materie
prime
e
dei
trasporti.
Spostandoci
sul
continente
sudamericano,
il
Brasile
è
ben
rappresentato
da
un
volume
di
scambi
il
cui
valore
è di
19
miliardi
di
dollari.
Insomma,
l’Africa
uscita
dal
colonialismo
e
dal
postcolonialismo
non
ha
perso
il
suo
ruolo
strategico
sulla
scena
internazionale.
Dal
quadro
ricostruito
da
Leymarie
è
evidente
che
le
relazioni
che
oggi
il
continente
africano
intrattiene
con
il
resto
del
mondo
sono
di
tipo
economico
e
hanno
come
proprio
corrispettivo
non
già
gli
stati
occidentali
o
asiatici
ma
le
aziende
che
in
essi
hanno
i
propri
headquarters.
Questa
situazione,
insieme
ad
altri
fattori
-
tra
cui
un
sensibile
aumento
dell’aspettativa
di
vita
che
è
passata
dai
40
anni
degli
anni
50
ai
circa
56
di
oggi;
la
creazione
di
forze
di
interposizione
interamente
africane,
per
cui
l’Africa
sta
diventando
la
poliziotta
di
se
stessa;
e
una
popolazione
molto
giovane
- è
segno
di
una
vitalità
che
parrebbe
far
ben
sperare
per
il
futuro.
Tuttavia
i
principali
problemi
che
lacerano
l’Africa
non
sono
stati
ancora
risolti.
La
povertà
è
molto
forte:
circa
il
50%
della
popolazione
vive
con
meno
di 1
dollaro
al
giorno.
L’acqua
e
l’energia
non
sono
uniformemente
diffuse.
Colera,
tubercolosi,
malaria
e
aids
continuano
a
falcidiare
la
popolazione
africana.
Il
capitale
ecologico
è in
una
fase
di
inarrestabile
sgretolamento:
nel
solo
bacino
del
Congo
si
perdono
ogni
anno
3
miliardi
di
ettari
di
foresta.
Il
militarismo
dei
regimi
postcoloniali
ha
lasciato
il
posto
ad
una
condizione
sociale
militarizzata
(su
questi
temi
si
veda
Bellucci).
Sono
molto
diffuse
le
armi
leggere
tra
la
popolazione.
Il
numero
molto
alto
di
armi
in
circolazione,
calate
in
una
realtà
contraddistinta
dal
degrado
e
dalla
miseria,
ha
favorito
il
formarsi
di
gruppi
armati
di
rivendicazione
che
hanno
cooptato
i
propri
membri
perlopiù
su
base
etnica.
Inoltre
il
boom
economico
che
l’Africa
subsahariana
ha
registrato
negli
anni
90 e
che
ha
fatto
segnare
una
crescita
del
Pil
a
due
cifre
percentuale
l’anno
non
ha
indotto
ad
una
distribuzione
equa
della
ricchezza.
Così
è
per
l’Angola:
il
fatto
di
essere
diventato
il
primo
produttore
di
petrolio
non
ha
creato
un
benessere
diffuso
ma
ha
arricchito
pressoché
esclusivamente
le
élite
al
potere.
Anche
l’accoglimento
forzato
del
modello
neoliberale
risulta
essere
una
conquista
meramente
formale.
Imposto
da
Fondo
Monetario
Internazionale,
Banca
Mondiale
e
potenze
ricche
occidentali
(il
cosiddetto
blocco
occidentale)
quale
condizione
(le
condizionalità)
per
l’erogazione
di
aiuti
tesi
a
rinsaldare
bilanci
statali
gravati
da
ingenti
debiti
pubblici,
il
modello
neoliberale
ha
di
fatto
aggravato
una
condizione
di
miseria
e
degrado.
Imponendo
il
contenimento
della
spesa
statale
ha
indotto
il
taglio
dei
servizi
sociali
che,
tradotto,
ha
significato,
per
esempio,
meno
sanità
pubblica.
Il
contenimento
delle
spese
statali
ha
colpito
anche
gli
eserciti
nazionali
i
cui
militari
allontanati
e
senza
una
prospettiva,
nei
casi
migliori
hanno
fornito
risorse
umane
alle
compagnie
militari
private
e
alle
compagnie
di
sicurezza
private,
versioni
neoliberali
del
mercenarismo.
Nei
casi
peggiori
hanno
rimpinguato
le
milizie
che
contendono
ai
governi
centrali
il
controllo
di
zone
del
territorio
statale.
Costringendo
a
liberalizzazioni,
privatizzazioni,
libere
fluttuazioni
dei
valori
delle
valute,
le
riforme
che
l’Occidente
ha
voluto
per
l’Africa
hanno
favorito
solo
chi
già
deteneva
capitali
o
chi
poteva
in
modi
più
o
meno
leciti
entrarne
in
possesso
o
chi,
ancora,
poteva
avere
strumenti
per
controllare
il
mercato.
Le
riforme
economiche
introdotte
in
Africa
sono
state
emendate
dal
principio
liberale
delle
pari
opportunità
di
partenza.
L’introduzione
dei
criteri
di
good
governance
-
pluralismo
politico,
competizione
elettorale,
rispetto
dei
diritti
civili,
separazione
dei
poteri,
insomma
democrazia
– è
tralignato
in
formale
democratizzazione,
cioè
nell’assunzione
dei
riti
elettorali
delle
democrazie
occidentali,
facilmente
controllabili
laddove
la
miseria
è
sovrana,
e
del
principio
di
maggioranza
inteso
nella
maniera
più
rigida
come
dittatura
della
maggioranza
(pericolo
che
già
Tocqueville
paventava
nel
suo
fondamentale
saggio
sulla
democrazia
americana).
Chiosa
giustamente
Bellucci
che
il
modello
neoliberale
è
una
fusione
di
liberalismo
(dottrina
politica)
e di
liberismo
(dottrina
economica),
che
prende,
dal
primo,
la
rappresentanza
parlamentare
democratica
e la
separazione
tra
i
poteri
dello
stato;
dal
secondo,
il
principio
che
il
sistema
economico
sia
fondato
sulla
libera
iniziativa
individuale
e
che
il
suo
motore
primo
sia
il
vantaggio
personale.
In
questa
miscela,
però,
si
perdono
il
lato
sociale
del
liberalismo,
esemplificato
dalla
tassazione
progressiva
e
dalle
pari
opportunità
di
partenza,
e
l’avversione
di
monopoli
e
oligopoli
propria
del
liberismo
classico.
Il
modello
neoliberale,
quindi,
afferma
senz’altro
il
primato
dell’economia
(la
sfera
dell’iniziativa
individuale),
la
quale
si
dilata
fino
a
presentarsi
come
un
dato
di
natura,
sulla
politica
(il
luogo
della
regolamentazione
del
gioco
economico
e
dunque
sociale),
che
invece
si
rimpicciolisce
nella
formalità
dei
propri
riti
democratici,
e
impone
di
conseguenza
un
significativo
arretramento
dello
Stato
dal
territorio
della
società
che
diviene
così,
nel
suo
limite,
il
campo
in
cui
si
scontrano
competitors
economici
che
non
hanno
altro
principio
cui
attenersi
al
di
fuori
del
proprio
particolare
vantaggio.
All’interno
di
questo
modello
è
perfettamente
comprensibile
(ed
è
oltretutto
augurabile)
che
gli
apparentamenti
ideologici
o
retaggio
di
trascorsi
coloniali
o
comunque
interstatali
si
siano
viepiù
rarefatti
o
perlomeno
si
siano
ritratti
sulla
linea
dell’orizzonte
della
regolamentazione,
lasciando
il
primo
piano
alle
relazioni
commerciali
i
cui
attori,
dal
lato
dell’Occidente,
sono
gruppi
finanziari,
imprenditoriali,
industriali
o in
ogni
caso
soggetti
privati.
In
questa
prospettiva
la
situazione
ancipite
in
cui
versa
l’Africa,
segnata
da
disparità
profondissime
nella
distribuzione
della
ricchezza,
se
da
un
lato
potrebbe
rientrare
nella
casistica
degli
sviluppi
assimetrici,
dall’altro
sembrerebbe
preludere
ad
una
evoluzione
futura
non
dico
“normale”
–
cioè
alla
occidentale-,
ma
meno
angosciosa
e
con
sperequazioni
più
attenuate.
Ma
a
latere
di
relazioni
economiche
comprensibili,
cioè
inquadrabili
in
modelli
di
trattative
economiche
regolamentate,
il
continente
africano
è
vergato
da
relazioni
affatto
illegali,
causa
di
scenari
disperanti
ma,
soprattutto,
perfettamente
compatibili
con
il
modello
neoliberale
su
cui
mi
sono
or
ora
soffermato.
Come
argomenta
lucidamente
Bellucci
molti
conflitti
africani
odierni
seppure
abbiano
cause
e
responsabilità
interamente
africane
–
cioè
non
imputabili
all’azione
di
attori
stranieri-,
sono
spesso
determinati
nella
loro
intensità
e
nella
loro
durata
dal
ruolo
che
le
multinazionali
occidentali
svolgono
in
Africa
per
soddisfare,
per
esempio,
il
proprio
cogente
bisogno
di
risorse
minerarie.
Specificamente
è
diventata
una
fin
troppo
tollerata
consuetudine
che
le
compagnie
petrolifere,
piuttosto
che
le
compagnie
diamantifere
o
altre,
stipulino
accordi
commerciali
detti
booty
futures
con
gruppi
di
ribelli
che,
nella
loro
lotta
di
opposizione
al
governo
di
un
certo
stato
africano,
controllano
un
territorio
ricco
di
una
certa
risorsa.
Questi
contratti
declinati
al
futuro
prevedono
che,
una
volta
conquistato
il
potere,
i
ribelli
cederanno
alle
compagnie
contraenti
il
diritto
di
sfruttamento
delle
risorse
oggetto
dell’accordo.
In
cambio
ottengono,
nel
presente,
aiuti
al
loro
sforzo
di
rovesciare
un
determinato
regime.
Va
da
sé
che
i
booty
futures
sono
contratti
illegali.
Innanzitutto
violano
il
diritto
internazionale
per
il
quale
la
sovranità
di
un
governo
sul
suo
territorio
si
estende
anche
alle
sue
risorse.
In
secondo
luogo
i
ribelli
che
li
stipulano,
evidentemente,
non
hanno
personalità
giuridica
alcuna
e
quindi
non
possono
essere
soggetti
di
accordi
vincolanti.
Nonostante
la
palese
illiceità,
questi
accordi
sono
stati
sottoscritti
per
esempio
da
compagnie
minerarie
statunitensi
e
sudafricane
nello
Zaire
di
Mobutu
con
il
suo
principale
oppositore
e
futuro
presidente
della
Repubblica
Democratica
del
Congo
Laurent-Désiré
Kabila.
Ma
accordi
dello
stesso
tenore
sono
stati
siglati
anche
in
Angola,
Ciad,
Liberia,
e
altri
stati
africani.
La
proliferazione
dei
booty
futures
dipende
dal
fatto
che
non
vengono
in
alcun
modo
sanzionati
né
dagli
stati
cui
le
compagnie
appartengono,
giacché
ad
essi
portano
indubbi
vantaggi,
né
dall’Onu
cui
nessuno
si
rivolge
per
interrompere
una
prassi
estremamente
lucrosa
per
tutte
le
parti
in
causa
ma
affatto
criminale
e
foriera
di
forti
conflittualità.
Difatti
i
booty
futures
portano
risorse
finanziare
ai
gruppi
ribelli
e
contribuiscono
così
ad
alimentare
conflitti
e
guerre
civili.
Quello
che
qui
interessa
rilevare
è
che
dalla
situazione
appena
descritta
emerge
con
chiarezza
che
i
soggetti
collettivi
privati
occidentali-
industrie,
multinazionali,
gruppi
economico-finanziari
-
che
operano
in
Africa
di
fatto
interferiscono
tuttora
pesantemente
negli
affari
interni
degli
stati
africani.
Emerge
inoltre
con
altrettanta
limpidezza
che
le
potenze
occidentale,
per
quanto
in
posizione
defilata,
hanno
ancora
oggi
responsabilità
precise
nella
situazione
africana.
Magari
più
sfumate
e
meno
sanzionabili
giuridicamente,
ma
non
per
questo
meno
colpevoli
sotto
il
profilo
politico
e
morale
– se
non
altro
per
via
di
ciò
che
hanno
voluto
che
l’Africa
facesse.
Va
infine
rilevato
che
il
modello
individuato
dalla
Arendt
alle
origini
dell’imperialismo
è
affatto
valido,
perché
se
esso
costatava
che
la
politica
si
era
messa
al
seguito
dell’economica,
il
modello
neoliberale
impiantato
in
Africa
senza
i
correttivi
che
ancora
in
parte
esistono
in
Occidente
lo
spinge
fino
all’affermazione,
come
osserva
Bellucci,
che
la
guerra
è la
competizione
economica
condotta
con
altri
mezzi.
Così
i
signori
della
guerra
che
si
contendono
e
straziano
la
Somalia
dalla
fine
del
regime
di
Siyad
Barre
non
sono
capi
di
clan
in
lotta
tra
loro
per
questioni
etniche.
Hanno
ciascuno
una
loro
specializzazione
economica,
controllano
ciascuno
una
porzione
di
territorio
e i
traffici
che
l’attraversano
e
ciascuno
di
essi
lotta
contro
gli
altri
per
difendere
la
ricchezza
che
quei
traffici
gli
procura.
Vorrei
chiudere
ritornando
alla
Arendt
il
cui
modello
di
relazione
di
potere
che
concreta
l’ideologia
imperialistica
illumina
le
figure
di
potere
che
straziano
ancora
oggi
l’Africa.
Secondo
la
filosofa
di
origini
ebraiche,
accanto
al
capitale
superfluo
il
processo
di
accumulazione
capitalistica
genera
fin
dal
suo
sorgere
anche
un’altra
superfluità:
quella
degli
uomini
non
assorbibili
dal
processo
stesso
in
uno
qualunque
dei
momenti
in
cui
si
articola.
Ciò
è
avvenuto
per
il
suo
stesso
vizio
d’origine,
che
fu
una
sottrazione
– si
ricordino
le
enclosures
inglesi
–
che
come
tale
esclude.
Ma
questa
produzione
di
resti
avviene
in
ogni
fase
e ad
ogni
livello
del
processo
capitalistico.
L’insieme
di
questi
resti,
la
Arendt
lo
definisce:
plebe.
La
quale
non
ha
una
caratterizzazione
di
classe,
perché
il
fenomeno
della
esclusione
riguarda
tutte
le
classi
sociali
e
tuttavia
raccoglie
i
tratti
dell’uomo
borghese
–
iniziativa
individuale,
investimento,
obiettivo
del
profitto,
relazioni
sociali
organizzate
secondo
il
processo
produttivo
ecc.
ecc.-
ripulito
da
tutte
le
pastoie
giuridiche
e
ideologiche
che
ne
limitano
la
naturale
sfrenatezza,
l’innocente
vocazione
hobbesiana
alla
volontà
di
potenza
(La
Arendt
fa
notare
che
l’antropologia
hobbesiana
non
concerne
l’uomo
nella
sua
generalità
ma
è
solo
un’antropologia
della
borghesia).
Fu
la
plebe
a
fornire
il
materiale
che
nell’Africa
preda
coloniale
si
concretò
nella
figura
del
funzionario
coloniale
in
cui
si
fuse
la
vocazione
capitalistica
al
“denaro
che
genera
denaro”
e la
finalità
statale
della
tutela
esclusivamente
poliziesca
e
militare.
Il
funzionario
coloniale
così
si
trovò
per
le
mani
un
potere
senza
pari
e
istituì
un
modello
in
cui
il
potere
statale
è
ipso
facto
potere
economico.
Un
modello
cui
si
conformano
le
relazioni
di
potere
e le
figure
di
potere
che
ancora
oggi
decidono
dei
destini
dell’Africa.
Riferimenti
bibliografici:
Philippe
Leymarie
L’Africa
oggi
tra
sfide
e
prospettive
(ciclo
di
lezioni
tenuto
all’Università
di
Bologna
nell’ambito
dell’iniziativa
I
seminari
di
Le
monde
Diplomatique)
Stefano
Bellucci,
Storia
delle
guerre
africane.
Dalla
fine
del
colonialismo
al
neoliberalismo
globale,
Roma,
Carocci,
2006
Hannah
Arendt
The
Origins
of
Totalitarianism,
tra.
It.
Di
Amerigo
Guadagnin,
Le
origini
del
totalitarismo,
Torino,
Einaudi,
2004.