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N. 36 - Dicembre 2010 (LXVII)

relazioni di potere
peculiarità del caso africano

di Gianluca Seramondi

 

L’obiettivo di questo lavoro è individuare un modello tipico di relazioni di potere che concerne il rapporto tra le élite e il resto della popolazione in Africa. Preciso subito che l’Africa indagata è quella subsahariana e che il periodo di riferimento è quello che va dall’indipendenza ai giorni nostri. Nella prospettiva indicata e all’interno delle coordinate fissate, lo scopo di questo intervento è mostrare che al di sotto o nelle pieghe delle relazioni tra governanti e governati continua a vigere, informandole, un modello socio-culturale che deriva direttamente al continente africano dall’Occidente colonialista/imperialista e che gli africani stanno ancora oggi riproponendo soggiacendo, verrebbe da dire, ad una esiziale coazione a ripetere.

 

La violenza come normalità delle relazioni sociali verticali in Africa

 

Philippe Leymarie nel seminario L’Africa oggi tra sfide e prospettive, tenutosi a Bologna il 20,21 e 22 maggio 2010, ha rammentato che la storia dei rapporti tra occidente e Africa fu e fu vissuta dalle popolazione africane come una esperienza estremamente violenta. L’inizio di questa storia è da ricercarsi ovviamente nella tratta degli schiavi che, come ha ricordato Leymarie, seppure pratica già in uso tra gli arabi, raggiunse con l’arrivo degli europei picchi spaventosi. Se furono 4 milioni gli schiavi africani neri che presero la via del Mar Rosso verso il Medio Oriente, 4 o 5 milioni quelli che attraversarono il Sahara per servire i berberi, e se altrettanti neri si imbarcarono sulle navi che solcavano l’Oceano Indiano, gli africani neri oggetto del commercio triangolare con le Americhe furono tra gli 11 e i 20 milioni. Un numero impressionante che spinse gli arabi, nel cui immaginario insiste tutt’oggi la sinonimia tra “nero” e “schiavo”, a coalizzarsi con i disprezzati neri in funzione antioccidentale.

 

Dismesse le vesti dello schiavismo, l’Europa coloniale non ne accantonò la violenza. Anche senza voler ricordare la ferocia con cui l’Italia fascista procedette nell’occupazione di Libia e Etiopia o il carattere predatorio e stragista della colonizzazione belga del Congo, o altri esempi poco edificanti della presenza europea in Africa, la violenza era ben visibile già nella suddivisione a tavolino del territorio africano irriguardosa nei confronti di statualità e culture preesistenti. Un esempio per tutti.

 

La compartimentazione in governatorati del Corno d’Africa nell’Africa Orientale Italiana, creazione fascista, fu effettuata su base etnica ed ebbe come effetto la scorporazione dal territorio dell’Etiopia di sue intere regioni più o meno etnicamente omogenee: la regione sudorientale dell’Ogaden a maggioranza somala fu unita al governatorato somalo, la regione del Tigrai accorpata all’Eritrea (già colonia italiana). Il fascismo intervenne pesantemente anche sulle tradizionali gerarchie sociali, reprimendo violentemente gli Ahmara, il vertice della gerarchia, e favorendo gli Oromo, l’etnia che occupava i gradini più bassi della scala sociale e che fornì la più estesa collaborazione agli occupanti fascisti.

 

La violenza permeò inoltre istituzioni come la scuola coloniale la quale imponeva: una lingua straniera e nemica, una storia europocentrica e la sistematica svalutazione e denigrazione di culture autoctone. Così, per esempio, nelle colonie lusofone (Angola, Mozambico, Guinea Bissau ecc.) la concessione della cittadinanza portoghese era subordinata alla adozione della lingua portoghese e della religione cattolica. Queste però erano condizioni sì necessarie ma niente affatto sufficienti giacché il regime di Salazar concesse il diritto alla cittadinanza a ben pochi africani.

 

Del resto gli amministratori belgi del Congo al fine di gestire un territorio immenso rispetto alle estensioni della metropoli, introdussero rigidi controlli sulle attività e sui movimenti delle persone, scolarizzarono a livello elementare i congolesi, affidandoli perlopiù a scuole cattoliche, ma ne impedirono l’accesso all’istruzione superiore tant’è che negli anni 50 solo un centinaio di congolesi aveva la laurea: il Belgio ottenne il controllo della popolazione congolese facendo leva sull’ignoranza, cioè mantenendola nell’ignoranza, come sottolinea Stefano Bellucci nella Storia delle guerre africane. Dalla fine del colonialismo al neoliberalismo globale.

 

Questa presenza diffusa e capillare della violenza ha creato nella popolazione africana una struttura mentale improntata all’insicurezza, alla precarietà, alla paura della sopraffazione, all’inferiorità chiosa Leymarie. Difficile non fare un parallelo tra questa descrizione psicologica e la comune esperienza d’assoggettamento vissuta dalle popolazioni africane, la quale si è tradotta in un vincolante sentimento di solidarietà tra gli africani che ha avuto ragione delle differenze etniche o culturali e che, secondo Stefano Bellucci, è uno dei fattori che ha impedito l’insorgere di conflitti e guerre di secessione negli stati africani nonostante che il progetto di nation building non riuscisse nel suo intento di superare le mille culture che tutt’oggi affollano ciascun stato africano.

 

Urge però sottolineare che questo modello violento di relazioni verticali non è venuto meno con il raggiungimento dell’indipendenza, come se lo sfruttamento e il dominio esercitato dagli europei avessero radicato nelle popolazioni africane il convincimento che esso fosse l’unico e normale modello di relazione tra élite e masse, tra governanti e governati, tra etnie dominanti ed etnie subalterne.

 

Si lascino pure da parte i regimi razzisti e segregazionisti che vigevano nella Rhodesia di Ian Smith o nel Sudafrica dell’apartheid che, lo si ricordi en passant, non si limita ad una distribuzione/separazione territoriale tra bianchi e neri ma è innanzitutto una classificazione gerarchica dei cittadini e una loro collocazione socioeconomica effettuate sulla base del solo criterio razziale (Bellucci).

 

Il fatto è che tutta la storia delle guerre civili africane durante il cosiddetto postcolonialismo, cioè il periodo degli stati nazionali africani, mostra quasi con monotonia uno stesso schema: con l’indipendenza, il gruppo africano che durante il colonialismo aveva rappresentato l’élite si pose alla guida dello stato africano indipendente nel assoluto dispregio dei gruppi (siano essi etnie, classi, caste ecc) subalterni e delle loro rivendicazioni e posizioni politiche.

 

In altri termini le élite africane che afferrarono il potere dei neoformatisi stati nazionali non si posero neppure il problema di introdurre una dialettica politica con i gruppi sociali e le loro rappresentanze politiche ora all’opposizione. Di fatto riprodussero modelli di relazione importati e trapiantati sul suolo africano dagli europei nel loro rapportarsi alle popolazioni africane assoggettate.

 

Per evitare possibili fraintendimenti, va subito precisato che la violenza non è affaire di singoli ma riguarda ovviamente le relazioni verticali tra gruppi sociali e solo per “cooptazione” i singoli. Di conseguenza anche quando si tratteranno singole figure è bene ricordare che esse sono nodi in cui convergono più forze, rappresentanti di gruppi di potere, concrezioni individuali di modelli di gestione sociale, front men di gruppi sociali dominanti.

 

È del resto il genocidio dei tutsi nel Ruanda del 1994 a testimoniare questa banale verità essendo stato solo l’episodio terminale e più lacerante e doloroso di una lunga storia di prevaricazioni tra hutu e tutsi. Non voglio entrare nella discussione circa la presunta motivazione etnica di questo sterminio di massa: a tal proposito basti ricordare anzitutto che la morte violenta fu inflitta anche a hutu moderati, e in secondo luogo che hutu e tutsi indicavano all’origine due caste sociali e non due etnie. Quello che qui preme sottolineare è che la violenza contro i tutsi affonda le sue radici negli anni 60 quando gli hutu, con il benestare di Belgio prima e Francia poi, divennero gruppo sociale dominante per la loro posizione filocapitalista e anticomunista. Proseguì negli anni 70 con uccisioni sporadiche ma continue di tutsi giustificate da radio e giornali che fomentavano l’odio supposto etnico (cui non mancò di dare il suo apporto la chiesa cattolica locale) e continuò negli anni a seguire fino a che l’incidente aereo occorso al presidente ruandese di etnia hutu Juvenal Habyariamana, che peraltro stava aprendo ai tutsi, non scatenò l’inferno.

 

Spostando lo sguardo in Sudan, già protettorato inglese, l’etnia dominante durante il colonialismo era quella arabo mussulmana che controllava il nord del paese mentre il gruppo sociale subalterno costituito da cristiani e animisti aveva radici nel sud del paese. Con l’indipendenza ottenuta a partire dal 1956, gli arabi mussulmani presero le redini dello stato e subito iniziarono le schermaglie con i cristiani e gli animisti poiché gli arabi mussulmani misero propri uomini in tutti i posti chiave dell’amministrazione, non aderirono al Commonwealth a cui preferirono la Lega araba. Le schermaglie si mutarono presto in aperta ribellione dei cristiani del sud e dunque in guerra civile che lacerò il paese dal 1963 al 1972 per poi riprendere dal 1983 al 2004.

 

Uno stesso meccanismo ma a parti invertite fu all’opera nel Ciad indipendente. Nella colonia francese l’élite africana dominante durante il colonialismo era quella cristiana del sud, che non appena raggiunto il potere impedì all’opposizione mussulmana del nord ogni partecipazione all’amministrazione del paese, anzi la represse violentemente e impose il monopartitismo. Nella corsa e rincorsa al potere le élite emarginate del nord del paese si organizzarono nel Fronte di liberazione nazionale del Ciad che dopo 15 anni di lotta portò nel 1983 il nordista Hissene Habré al potere. E, naturalmente, il ciclo ricominciò: autoritarismo militare, fiera repressione di ogni opposizione ecc. ecc., fino a che Legione islamica di Deby, con il prezioso aiuto libico e sudanese, non riuscì nel 1990 a fare cadere Habré.

 

Figure di potere

 

Orientando secondo un’altra angolatura l’analisi della storia africana degli ultimi 50 anni si scorgeranno profilarsi figure di potere che radicano la storia violenta sopra tratteggiata nel rovescio oscuro della storia europea. Si torni, per esempio, al Ciad. Il Fronte di liberazione nazionale del Ciad era armato dalla Libia di Gheddafi. Tuttavia il colpo di stato del suo esponente di rilievo Hissene Habrè fu appoggiato da Francia e Usa per le sue posizioni filoccidentali, anticomuniste e in chiara funzione antilibica. Per ritorsione la Libia insieme al Sudan appoggiarono colui che poi destituì Habré: Hidren Deby. Il quale, alla fine della guerra fredda, aprì alla Francia che si stava allontanando dagli Usa, nonostante le sue posizioni ancora filolibiche e filosudanesi.

 

Un altro protagonista di questa storia di violenza è ovviamente Joseph-Desirè Mobutu. Protagonista di un primo colpo di stato nel 1960, Mobutu, che proveniva dal movimento di Patrice Lumumba, represse nel sangue, aiutato da mercenari bianchi europei, sudafricani e americani, una insurrezione contadina scatenata dall’assassinio di Patrice Lumumba, organizzato dalle intelligence belga e statunitense e eseguito dai separatisti del Katanga, ricca regione mineraria nel sud del Congo. Nel 1965 un secondo colpo di stato consegnò nuovamente il Congo a Mobutu il quale, brandendo la bandiera dell’autenticità africana, rinominerà il proprio paese Zaire mentre per sé adotterà il nome di Mobutu Sese Seko. Mobutu governò  all’insegna della cleptocrazia, della corruzione, della violenza, della cooptazione quando non eliminazione dei rivali politici, e nonostante ciò fu sostenuto da Francia e Usa come strumento di contenimento della minaccia comunista fino al 1997, quando fu destituito da Laurent-Desiré Kabila.

 

Dal canto suo, Laurent Desiré Kabila non teme affatto di comparire in questa serie fotografica. Partecipò alla sollevazione contadina appoggiata da Cuba, Cina e altri paesi non-allineati che nel 1961 portò alla fine del primo governo Mobutu. Nel 1996 guidò l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo, che nella sua cosiddetta lunga marcia per destituire Mobutu non mancò di compiere massacri di hutu e congolesi. Al momento di questa lotta per l’indipendenza Kabila non era più terzomondista o anche solo vetero marxista come ai tempi di Lumumba ma aveva sposato appieno il capitalismo e il liberismo nella forma di un’alleanza con gli Usa e con i paesi africani agli Usa legati. Kabila riuscì nell’intento di deporre Mobutu e di salire al governo. Non appena preso il potere però iniziò l’accentramento autoritario che di fatto innescò la cosiddetta “Grande Guerra” dell’Africa contemporanea: una guerra civile tra le forze governative di Kabila e i gruppi di opposizione al suo regime, l’uno e gli altri appoggiati dai paesi africani confinanti che intervennero militarmente nella contesa con proprie truppe.

 

Ci si soffermi sulle scelte opportunistiche di Kabila. Il detonatore della conflagrazione fu l’epurazione di ruandesi e ugandesi dal governo e dall’esercito della Repubblica Democratica del Congo (come Kabila rinominò lo Zaire, a segnare lo stacco netto da Mobutu), quando Ruanda e Uganda avevano supportato Kabila durante la sua lunga marcia contro Mobutu. Quando si accorse di stare perdendo la presa sulla popolazione, Kabila cercò di riavvicinare gli ex dignitari della corte di Mobutu allontanando dal governo i tutsi congolesi, già discriminati dall’ex dittatore. Insomma un continuo cambiamento di fronte il cui unico obiettivo era, per il presidente Kabila, di mantenere ben saldo il potere.

 

Spostando lo sguardo sul Corno d’Africa si rivedono all’opera gli stessi meccanismi, nonostante che questa regione dell’Africa orientale rappresenti un’eccezione nel panorama africano.

 

Secondo Stefano Bellucci, infatti, il Corno d’Africa ha vissuto guerre sul proprio territorio che sono anomale rispetto al panorama africano:

 

- una lunga e vittoriosa guerra di liberazione condotta dall’Eritrea non contro una metropoli occidentale ma contro l’Etiopia;

 

- una guerra di secessione tra Somalia e Etiopia, che peraltro afferivano allo stesso campo socialista, per il possesso dalla etiopica regione dell’Ogaden a maggioranza somala.

 

Il Corno d’Africa ha rappresentato un’eccezione anche perché l’Etiopia rimase fuori dell’interesse delle potenze occidentali fino all’occupazione fascista del 1936, la quale però si concluse nel 1941. Dopo il 1941, come è noto, l’Eritrea fu federata all’Etiopia che nel 1962 la annesse unilateralmente -innanzitutto per avere uno sbocco sul mare- dando vita alla lotta armata eritrea e dunque alla lunga guerra di liberazione che si è conclusa solo nel 1991 (Etiopia e Onu hanno riconosciuto l’Eritrea nel 1993). Quello che qui interessa è il comportamento dell’reinsediato imperatore etiopico Haile Selassie. L’imperatore riprese una politica estera orientata al dominio e all’assoggettamento al fine di restaurare l’Etiopia quale potenza egemone nel Corno. Nell’interno accentrò il potere e ripristinò i precoloniali istituti feudali e ridiede potere alle classi abissine che occupavano il centro del paese e che tornarono a sfruttare le popolazioni di religione mussulmana risiedenti nelle periferie dell’Etiopia.

 

Quando nel 1975 i militari abbatterono il regime di Selassie e instaurarono un regime di stampo marxista-leninista (a questo proposito consiglio la lettura del romanzo Lo sguardo del leone di Maaza Mengiste, Neri Pozza), il loro programma prevedeva: abolizione degli istituti feudali, il diritto di autodeterminazione dei popoli e il principio di uguaglianza tra i cittadini. Punti di un programma progressista che si rivelarono ben presto slogan accantonabili non appena raggiunto il potere. Difatti il governo militare (DERG) guidato da Menghitsu, che ovviamente non concesse l’indipendenza all’Eritrea, nazionalizzò l’economia in obbedienza al marxismo-leninismo, non diede alcuno spazio all’opposizione politica, non concesse spazi di consultazione all’interno del partito o degli istituti corporativi creati con la collettivizzazione dell’economia, epurò le frange critiche seppure di osservanza marxista, non si pose nemmeno il problema del rapporto tra le diverse culture e etnie che si affaccendavano sul territorio dell’Etiopia anzi lo aggravò ridando potere all’aristocratica etnia Ahmara già dominante durante l’impero etiopico precoloniale.

 

Anche il Sudafrica, la prima potenza economica del continente, è, quanto a opportunismo, una sorta di Giano bifronte. Indicato come la culla del rinascimento africano, dalla fine dell’apartheid il Sudafrica è il centro di un fascio di relazioni che lo connettono a tutto l’Occidente, anche se il suo partner economico privilegiato è la Cina. Ha importanti investimenti minerari su tutto il territorio africano e i suoi punti di forza interni sono le miniere, l’industria energetica, nucleare e militare. Il Pil sudafricano nel 2008 ha raggiunto i 300 miliardi di dollari pari al Pil di tutto il resto dell’Africa. Tutto ciò però non ha risolto la povertà in cui versa la stragrande maggioranza dei neri. Il motivo risiede nel fatto che l’economia, come rimproverò Winnie Mandela al marito Nelson, è rimasta interamente in mano alla minoranza bianca e la borghesia nera che si è formata e arricchita solo grazie alla politica e all’amministrazione, è composta da una percentuale molto piccola della popolazione nera e risulta così essere il frutto di una emancipazione solo di facciata (traggo i dati dalle lezioni di P. Leymarie).

 

Risulta interessante istituire qui un parallelo con la vicenda dello Zimbabwe, dove i movimenti degli africani neri che si ribellarono e infine rovesciarono il regime razzista di Ian Smith nell’allora Rhodesia del Nord, si riservarono il potere istituzionale ma lasciarono nelle mani della minoranza bianca il controllo della terra e dei capitali, dunque dell’economia, e di fatto mantennero immutati i forti gap di ricchezza tra minoranza bianca e  maggioranza nera. Solo dopo che l’attuale leader nero Robert Mugabe decise di intervenire nella “grande guerra” della Repubblica democratica del Congo (1998-2002), si è iniziato a parlare di redistribuzione della terra per compensare i sacrifici fatti dai veterani di guerra. Ad oggi, però, la questione della terra è tutt’altro che conclusa. Anche qui una condotta affatto particolare da parte dei neri che parrebbero preferire il potere formale delle istituzioni al potere sostanziale dell’economia.

 

Tornando al Sudafrica, dal punto di vista politico l’African National Congress è praticamente un partito unico confuso con lo stato. L’attuale presidente, Jacob Zume, ha fatto carriera nell’ANC di cui è diventato leader nel 2007. È stato Ministro della difesa e durante il suo ministero fu indagato per tangenti e fu addirittura accusato di stupro. Con il populista Zume l’ANC ha ripreso a brandire la retorica della violenza rivoluzionaria contro i traditori che, come spesso accade, sono giornalisti, capi religiosi ecc. ecc. L’effetto di questa svolta è stato l’allontanarsi dall’ANC dei settori più progressisti della popolazione bianca, una accentuata emigrazione di bianchi verso la Nuova Zelanda, l’Australia e gli Usa e, infine, un rafforzamento delle minoranze ricche.

La serie di ritratti or ora percorsa di leader e/o élite, restituisce la misura del loro opportunismo camaleontico oltreché violento, del loro appropriarsi dello stato, e vira il loro personalissimo progetto di state building secondo le forme molto meno nobili di un disegno, per così dire, di power keeping. In questo quadro ideologia, etnia, cultura, religione, non furono e non sono affatto i motivi di fondo dei conflitti e delle guerre africani, bensì gli strumenti utili a mobilitare le masse, a intercettare la disperazione e la rabbia delle classi subalterne, a esaltare le fantasie di ossequiosa pantomima di giovani africani inattivi formatisi ai modelli consumistici dell’Occidente, al fine di tenere ben salde le redini del potere istituzionale.

 

Non sono forse figure già viste quelle che hanno lacerato il tessuto sociale africano? Bellucci più volte ricorda che in Africa il controllo del potere statale - il controllo del governo, dell’amministrazione statale centrale e periferica, delle istituzioni dello stato - significa ricchezza. A sostegno di questa tesi vi è il fatto che uno dei motivi che hanno frenato le spinte secessioniste delle élite regionali in molti paesi africani è stato proprio di aver occupato i posti chiave delle amministrazioni periferiche dello stato. Questa situazione ha garantito alle élite regionali un controllo del territorio e delle sue risorse più efficace e soprattutto più sicuro, cosa che la rivendicazione unilaterale di indipendenza non avrebbe potuto assicurare. Questa compenetrazione fitta tra potere ed economia è, a mio parere, il retaggio più profondo del colonialismo, il modello europeo che più si è stampato nella carne delle società africane e che affonda le sue radici nella genesi stessa dell’imperialismo.

 

Nel suo Le origini del totalitarismo Hannah Arendt ha ricostruito l’insorgere dell’imperialismo a partire dalla necessità economica dell’espansione capitalista la quale è innanzitutto aumento della produzione di beni da usare e consumare. Questa necessità si scontrò con i limiti degli stati nazionali ottocenteschi ciascuno con un proprio sistema politico diverso dagli altri che rendeva difficile la libera circolazione dei beni e dei capitali. Per questo motivo la borghesia, significativamente la prima classe sociale comparsa nella storia a non dedicarsi fin da subito alla politica ma riservandosi solo il gioco economico, entrò nell’agone della politica imponendo ai governi l’espansione come obiettivo della politica estera. L’obiettivo dell’espansione all’inizio sembrava dover trovare il suo limite nell’espansione di un'altra economia nazionale sicché il pericolo di un monopolio infine mondiale da parte di un’economia nazionale sulle altre sembrava potersi scongiurare grazie alla libera concorrenza. Tuttavia questa ingenua fede nei meccanismi stabilizzatori della concorrenza dimenticava il fatto che l’equilibrio tra le forze economiche non dipendeva da leggi interne all’economia ma dalle «istituzioni politiche, giuridiche e poliziesche, che precludevano ai concorrenti l’uso della pistola» (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, p. 176).

 

Nella seconda metà dell’Ottocento, la spinta all’espansione fu frenata anche – ma a ben vedere anche questo è epifenomeno del regime capitalistico - da una sovrapproduzione che rese i capitali accumulati superflui, cioè inutilizzabili perché non vi era più disponibilità di investimenti produttivi effettivamente percorribili. Ora che il capitale non possa più essere “working capital”, solo nel senso di capitale che produce capitale, è ciò che propriamente non può accadere in un regime capitalistico. La strada che rimaneva a questi capitali che fremevano per produrre ulteriore profitto era la speculazione. La Arendt ricorda infatti che poco prima degli Anni 70 e 80 del XIX secolo l’Europa finanziaria fu scossa da truffe, speculazioni ardite e sommamente rischiose.

 

In questo quadro la via dei paesi extraeuropei si presentava estremamente appetibile. Era, tuttavia, anch’essa una soluzione molto rischiosa e che avrebbe potuto provocare crolli finanziari dalle conseguenze devastanti per  la tenuta sociale degli stati europei. I quali così dovettero mettersi al seguito del capitale per proteggerlo dai rischi che avrebbe potuto correre nelle terre dell’Asia o dell’Africa. Tuttavia lo stato non si mise al servizio del capitale con tutto il proprio apparato politico e giuridico, che avrebbe regolamentato il gioco stesso del profitto, ma gli mise a disposizione le sole forze militari e di polizia. Si creò così un circuito diabolico tra capitale e forza statale, per cui il capitale poteva continuare a riprodursi e ulteriormente incrementarsi senza dover passare attraverso il cammino accidentato dell’investimento produttivo ma facendo leva solo sulla forza. In Africa si realizzò così il sogno di ogni buon capitalista: denaro che genera da sé denaro.

 

Naturalmente a questo punto diventava essenziale avere il controllo della forza. Di conseguenza diventava essenziale accumulare potere. E ciò rendeva superflui non più i capitali ma i corpi politici: le rappresentanze politiche, i luoghi del loro confronto, le istituzioni in cui addivenire ad una composizione degli interessi sociali, gli apparati giuridici di regolamentazione della società civile, i centri di controllo e vigilanza degli apparati militari e di polizia.

 

Non è forse quanto è accaduto in Africa e quanto forse accade tutt’oggi? Non è stata forse l’Africa il laboratorio a cielo aperto in cui il processo di accumulazione capitalistica ha sperimentato le sue forme operative più spregiudicate? Non si comprende ora perché le élite africane hanno accettato di sedersi sulla conquista delle istituzioni lasciando che i gangli del potere economico fossero occupati ancora dalle minoranze bianche, per esempio? Il fatto è che il modello capitalista declinato nella forma imperialista mantiene intatta la sua performatività sulla società africana come unico modello efficiente ed efficace. Ma oggi, nell’Africa che, stando alla mappatura cronologica fatta da Bellucci, sta vivendo il suo momento neoliberale, le cose stanno ancora così? Per comprenderlo è bene allargare l’orizzonte e muovere dalle relazioni che il continente africano stabilisce con l’Occidente dopo il dissolvimento del campo socialista.

 

Uno sguardo articolato sul continente africano.

 

Philippe Leymarie ha rilevato che il dissolvimento del campo socialista e il ritrarsi delle potenze occidentali dai territori africani cui erano legati attraverso la vicenda coloniale e postcoloniale, hanno determinato lo sgretolamento di rapporti univoci, per cui, per esempio, gli stati dell’Africa occidentale che aderirono alla comunità francofona creata dopo l’indipendenza mantenevano rapporti pressoché esclusivi con la  metropoli francese.

 

La situazione odierna è molto più fluida ed è legata a doppio filo alla ricchezza di risorse minerarie, anzitutto, che il continente africano possiede e di cui l’Occidente e, ora, le nuove potenze economiche come la Cina, hanno un bisogno urgente. La coscienza della propria ricchezza geologica e la fine del mondo a due blocchi, hanno portato molti stati dell’Africa in una posizione di relativa forza rispetto agli stati occidentali consentendo loro di moltiplicare e diversificare le partnership internazionali, di rinegoziare contratti in essere o di scegliere partner non tradizionali. Tutto ciò inoltre ha avuto conseguenze sulla geopolitica dell’Africa portando al sorgere di nuove potenze regionali. Per esempio le risorse petrolifere in specie off shore hanno fatto dell’Angola il primo produttore africano di petrolio. Grazie ad esso l’Angola ha stretto accordi commerciali con Cina e Israele ma, nello stesso tempo, ha individuato nelle compagnie petrolifere Esseco (Usa) e Total (Francia) i propri principali partner economici.

 

Anche dal lato dell’Occidente, sotto il profilo del suo rapporto con l’Africa, molte cose sono cambiate. Le ex metropoli non sono più i principali interlocutori dell’Africa. Ad esse si sono affiancate, oltre agli Stati Uniti, le potenze asiatiche. La Cina è fortemente presente in Africa: il 90% dei prodotti venduti sui mercati africani è cinese; nella sola Africa settentrionale si contano 900 imprese cinesi; dal 2000 imprenditori cinesi stanno vincendo tutti gli appalti pubblici e nella Repubblica Democratica del Congo gruppi cinesi hanno ottenuto permessi di estrazione mineraria in cambio della costruzione di opere pubbliche. Il Giappone registra un volume di scambi commerciali con i paesi africani pari ad 1/3 di quello tra Cina e Africa. L’India, facendo leva su importanti comunità indiane in Africa occidentale e australe, ha propri manager nei consigli di amministrazione di molte banche africane e, in campo industriale, opera principalmente nei settori della trasformazione delle materie prime e dei trasporti. Spostandoci sul continente sudamericano, il Brasile è ben rappresentato da un volume di scambi il cui valore è di 19 miliardi di dollari.

 

Insomma, l’Africa uscita dal colonialismo e dal postcolonialismo non ha perso il suo ruolo strategico sulla scena internazionale. Dal quadro ricostruito da Leymarie è evidente che le relazioni che oggi il continente africano intrattiene con il resto del mondo sono di tipo economico e hanno come proprio corrispettivo non già gli stati occidentali o asiatici ma le aziende che in essi hanno i propri headquarters. Questa situazione, insieme ad altri fattori - tra cui un sensibile aumento dell’aspettativa di vita che è passata dai 40 anni degli anni 50 ai circa 56 di oggi; la creazione di forze di interposizione interamente africane, per cui l’Africa sta diventando la poliziotta di se stessa; e una popolazione molto giovane - è segno di una vitalità che parrebbe far ben sperare per il futuro.

 

Tuttavia i principali problemi che lacerano l’Africa non sono stati ancora risolti. La povertà è molto forte: circa il 50% della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno. L’acqua e l’energia non sono uniformemente diffuse. Colera, tubercolosi, malaria e aids continuano a falcidiare la popolazione africana. Il capitale ecologico è in una fase di inarrestabile sgretolamento: nel solo bacino del Congo si perdono ogni anno 3 miliardi di ettari di foresta. Il militarismo dei regimi postcoloniali ha lasciato il posto ad una condizione sociale militarizzata (su questi temi si veda Bellucci). Sono molto diffuse le armi leggere tra la popolazione. Il numero molto alto di armi in circolazione, calate in una realtà contraddistinta dal degrado e dalla miseria, ha favorito il formarsi di gruppi armati di rivendicazione che hanno cooptato i propri membri perlopiù su base etnica.

 

 

Inoltre il boom economico che l’Africa subsahariana ha registrato negli anni 90 e che ha fatto segnare una crescita del Pil a due cifre percentuale l’anno non ha indotto ad una distribuzione equa della ricchezza. Così è per l’Angola: il fatto di essere diventato il primo produttore di petrolio non ha creato un benessere diffuso ma ha arricchito pressoché esclusivamente le élite al potere. Anche l’accoglimento forzato del modello neoliberale risulta essere una conquista meramente formale. Imposto da Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e potenze ricche occidentali (il cosiddetto blocco occidentale) quale condizione (le condizionalità) per l’erogazione di aiuti tesi a rinsaldare bilanci statali gravati da ingenti debiti pubblici, il modello neoliberale ha di fatto aggravato una condizione di  miseria e degrado. Imponendo il contenimento della spesa statale ha indotto il taglio dei servizi sociali che, tradotto, ha significato, per esempio, meno sanità pubblica.

 

Il contenimento delle spese statali ha colpito anche gli eserciti nazionali i cui militari allontanati e senza una prospettiva, nei casi migliori hanno fornito risorse umane alle compagnie militari private e alle compagnie di sicurezza private, versioni neoliberali del mercenarismo. Nei casi peggiori hanno rimpinguato le milizie che contendono ai governi centrali il controllo di zone del territorio statale.

 

Costringendo a liberalizzazioni, privatizzazioni, libere fluttuazioni dei valori delle valute, le riforme che l’Occidente ha voluto per l’Africa hanno favorito solo chi già deteneva capitali o chi poteva in modi più o meno leciti entrarne in possesso o chi, ancora, poteva avere strumenti per controllare il mercato. Le riforme economiche introdotte in Africa sono state emendate dal principio liberale delle pari opportunità di partenza. L’introduzione dei criteri di good governance - pluralismo politico, competizione elettorale, rispetto dei diritti civili, separazione dei poteri, insomma democrazia – è tralignato in formale democratizzazione, cioè nell’assunzione  dei riti elettorali delle democrazie occidentali, facilmente controllabili laddove la miseria è sovrana, e del principio di maggioranza inteso nella maniera più rigida come dittatura della maggioranza (pericolo che già Tocqueville paventava nel suo fondamentale saggio sulla democrazia americana).

 

Chiosa giustamente Bellucci che il modello neoliberale è una fusione di liberalismo (dottrina politica) e di liberismo (dottrina economica), che prende, dal primo, la rappresentanza parlamentare democratica e la separazione tra i poteri dello stato; dal secondo, il principio che il sistema economico sia fondato sulla libera iniziativa individuale e che il suo motore primo sia il vantaggio personale. In questa miscela, però, si perdono il lato sociale del liberalismo, esemplificato dalla tassazione progressiva e dalle pari opportunità di partenza, e l’avversione di monopoli e oligopoli propria del liberismo classico. Il modello neoliberale, quindi, afferma senz’altro il primato dell’economia (la sfera dell’iniziativa individuale), la quale si dilata fino a presentarsi come un dato di natura, sulla politica (il luogo della regolamentazione del gioco economico e dunque sociale), che invece si rimpicciolisce nella formalità dei propri riti democratici, e impone di conseguenza un significativo arretramento dello Stato dal territorio della società che diviene così, nel suo limite, il campo in cui si scontrano competitors economici che non hanno altro principio cui attenersi al di fuori del proprio particolare vantaggio.

 

All’interno di questo modello è perfettamente comprensibile (ed è oltretutto augurabile) che gli apparentamenti ideologici o retaggio di trascorsi coloniali o comunque interstatali si siano viepiù rarefatti o perlomeno si siano ritratti sulla linea dell’orizzonte della regolamentazione, lasciando il primo piano alle relazioni commerciali i cui attori, dal lato dell’Occidente, sono gruppi finanziari, imprenditoriali, industriali o in ogni caso soggetti privati. In questa prospettiva la situazione ancipite in cui versa l’Africa, segnata da disparità profondissime nella distribuzione della ricchezza, se da un lato potrebbe rientrare nella casistica degli sviluppi assimetrici, dall’altro sembrerebbe preludere ad una evoluzione futura non dico “normale” – cioè alla occidentale-, ma meno angosciosa e con sperequazioni più attenuate. Ma a latere di relazioni economiche comprensibili, cioè inquadrabili in modelli di trattative economiche regolamentate, il continente africano è vergato da relazioni affatto illegali, causa di scenari disperanti ma, soprattutto, perfettamente compatibili con il modello neoliberale su cui mi sono or ora soffermato.

 

Come argomenta lucidamente Bellucci molti conflitti africani odierni seppure abbiano cause e responsabilità interamente africane – cioè non imputabili all’azione di attori stranieri-, sono spesso determinati nella loro intensità e nella loro durata dal ruolo che le multinazionali occidentali svolgono in Africa per soddisfare, per esempio, il proprio cogente bisogno di risorse minerarie. Specificamente è diventata una fin troppo tollerata consuetudine che le compagnie petrolifere, piuttosto che le compagnie diamantifere o altre, stipulino accordi commerciali detti booty futures con gruppi di ribelli che, nella loro lotta di opposizione al governo di un certo stato africano, controllano un territorio ricco di una certa risorsa. Questi contratti declinati al futuro prevedono che, una volta conquistato il potere, i ribelli cederanno alle compagnie contraenti il diritto di sfruttamento delle risorse oggetto dell’accordo.

In cambio ottengono, nel presente, aiuti al loro sforzo di rovesciare un determinato regime.

 

Va da sé che i booty futures sono contratti illegali. Innanzitutto violano il diritto internazionale per il quale la sovranità di un governo sul suo territorio si estende anche alle sue risorse. In secondo luogo i ribelli che li stipulano, evidentemente, non hanno personalità giuridica alcuna e quindi non possono essere soggetti di accordi vincolanti. Nonostante la palese illiceità, questi accordi sono stati sottoscritti per esempio da compagnie minerarie statunitensi e sudafricane nello Zaire di Mobutu con il suo principale oppositore e futuro presidente della Repubblica Democratica del Congo Laurent-Désiré Kabila. Ma accordi dello stesso tenore sono stati siglati anche in Angola, Ciad, Liberia, e altri stati africani. La proliferazione dei booty futures dipende dal fatto che non vengono in alcun modo sanzionati né dagli stati cui le compagnie appartengono, giacché ad essi portano indubbi vantaggi, né dall’Onu cui nessuno si rivolge per interrompere una prassi estremamente lucrosa per tutte le parti in causa ma affatto criminale e foriera di forti conflittualità. Difatti i booty futures portano risorse finanziare ai gruppi ribelli e contribuiscono così ad alimentare conflitti e guerre civili.

 

Quello che qui interessa rilevare è che dalla situazione appena descritta emerge con chiarezza che i soggetti collettivi privati occidentali- industrie, multinazionali, gruppi economico-finanziari - che operano in Africa di fatto interferiscono tuttora pesantemente negli affari interni degli stati africani. Emerge inoltre con altrettanta limpidezza che le potenze occidentale, per quanto in posizione defilata, hanno ancora oggi responsabilità precise nella situazione africana. Magari più sfumate e meno sanzionabili giuridicamente, ma non per questo meno colpevoli sotto il profilo politico e morale – se non altro per via di ciò che hanno voluto che l’Africa facesse.

 

Va infine rilevato che il modello individuato dalla Arendt alle origini dell’imperialismo è affatto valido, perché se esso costatava che la politica si era messa al seguito dell’economica, il modello neoliberale impiantato in Africa senza i correttivi che ancora in parte esistono in Occidente lo spinge fino all’affermazione, come osserva Bellucci, che la guerra è la competizione economica condotta con altri mezzi. Così i signori della guerra che si contendono e straziano la Somalia dalla fine del regime di Siyad Barre non sono capi di clan in lotta tra loro per questioni etniche. Hanno ciascuno una loro specializzazione economica, controllano ciascuno una porzione di territorio e i traffici che l’attraversano e ciascuno di essi lotta contro gli altri per difendere la ricchezza che quei traffici gli procura.

 

Vorrei chiudere ritornando alla Arendt il cui modello di relazione di potere che concreta l’ideologia imperialistica illumina le figure di potere che straziano ancora oggi l’Africa. Secondo la filosofa di origini ebraiche, accanto al capitale superfluo il processo di accumulazione capitalistica genera fin dal suo sorgere anche un’altra superfluità: quella degli uomini non assorbibili dal processo stesso in uno qualunque dei momenti in cui si articola. Ciò è avvenuto per il suo stesso vizio d’origine, che fu una sottrazione – si ricordino le enclosures inglesi – che come tale esclude.

 

Ma questa produzione di resti avviene in ogni fase e ad ogni livello del processo capitalistico. L’insieme di questi resti, la Arendt lo definisce: plebe. La quale non ha una caratterizzazione di classe, perché il fenomeno della esclusione riguarda tutte le classi sociali e tuttavia raccoglie i tratti dell’uomo borghese – iniziativa individuale, investimento, obiettivo del profitto, relazioni sociali organizzate secondo il processo produttivo ecc. ecc.- ripulito da tutte le pastoie giuridiche e ideologiche che ne limitano la naturale sfrenatezza, l’innocente vocazione hobbesiana alla volontà di potenza (La Arendt fa notare che l’antropologia hobbesiana non concerne l’uomo nella sua generalità ma è solo un’antropologia della borghesia).

 

Fu la plebe a fornire il materiale che nell’Africa preda coloniale si concretò nella figura del funzionario coloniale in cui si fuse la vocazione capitalistica al “denaro che genera denaro” e la finalità statale della tutela esclusivamente poliziesca e militare. Il funzionario coloniale così si trovò per le mani un potere senza pari e istituì un modello in cui il potere statale è ipso facto potere economico.

 

Un modello cui si conformano le relazioni di potere e le figure di potere che ancora oggi decidono dei destini dell’Africa.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Philippe Leymarie L’Africa oggi tra sfide e prospettive (ciclo di lezioni tenuto all’Università di Bologna nell’ambito dell’iniziativa I seminari di Le monde Diplomatique)

Stefano Bellucci, Storia delle guerre africane. Dalla fine del colonialismo al neoliberalismo globale, Roma, Carocci, 2006

Hannah Arendt The Origins of Totalitarianism, tra. It. Di Amerigo Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 2004.


 

 

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