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N. 39 - Marzo 2011 (LXX)

SOTTO LE ALI DELL’AQUILA
IL REGNO LOMBARDO-VENETO

di Alberto Conti

 

La fine dell’impero napoleonico schiuse le porte ad un clamoroso programma restauratore che, solo in Italia, disarticolò radicalmente l’assetto politico – istituzionale fissato durante gli anni “francesi”. La Lombardia, in particolare, si trovò riunita al Veneto in un regno destinato a costituire uno dei gioielli dell’Impero austriaco (ritornando quindi da dove la temperie di fine settecento l’aveva allontanata).

 

Pur rappresentando per un verso una delle pagine più regressive che il corso della storia europea moderna abbia conosciuto, la Restaurazione è stata anche l’epoca che ha segnato l’irrimediabile, decisiva sconfitta dei fautori di in ritorno senza condizioni al passato pre-rivoluzionario. Illusione questa che con contagiò i più illuminati statisti e plenipotenziari che governarono i destini dell’Europa post-napoleonica. Nella prassi, infatti, si sviluppò una pragmatico “confronto” con l’eredità dei Lumi, garantendo in molti casi la continuità, seppur in altra forma, di istituti giuridici od economici della tradizione riformista settecentesca e della stessa legislazione napoleonica (si pensi ai codici napoleonici, la cui formale abrogazione da parte dei governi italiani non comportò -con l’eccezione dello stato Sabaudo - la sostanziale obliterazione di molte innovazioni che essi avevano prodotto).

 

Se la rivendicazione del primato dei valori morali dell’assolutismo, poteva favorire la ripresa di un più stretto legame tra Stato e Chiesa – e quindi ridar forza, per esempio, alla influenza in diversi stati di istituzioni religiose come i Gesuiti – certo il pensiero reazionario non possedeva più il vigore ed il prestigio per plasmare, a proprio comodo, quelle società ormai affrancate dai moduli classici della stratificazione sociale d’Antico Regime. Abbiamo utilizzato il plurale, in quanto la realtà storica europea era alquanto composita – e specie nel multiforme impero asburgico – era nettamente ravvisabile il differente livello di sviluppo umano esistente tra i territori che lo componevano. Il Lombardo – Veneto costituiva in tal senso una società decisamente più complessa (sul piano dei rapporti sociali, del funzionamento delle istituzioni statali, e del corpus normativo) rispetto ai territori austro- boemi, ove spesso tiranneggiavano ancora i signori feudali.

 

Le principali questioni che gli austriaci dovettero affrontare nel regno Lombardo-Veneto concernevano quindi: la composizione di un assetto giuridico – istituzionale, idoneo ad assicurare un superamento non traumatico dell’eredità napoleonica; la definizione dei rapporti con le caste nobiliari – pronte a riattivare i tradizionali meccanismi di autoconservazione dei propri privilegi, ora che con l’esaurimento dell’esperienza napoleonica si profilava l’insperata possibilità di ritornare al rimpianto dualismo Stato – ceti dell’epoca teresiana. Dalla capacità di dirimere questi nodi politici sarebbe in buona parte dipesa la stessa qualità dell’amministrazione del Regno, nonché il potenziale sviluppo di un consenso intorno al suo operato. Non è certo questa la sede per affrontare in modo articolato questi temi, per l’approfondimento dei quali si rimanda ai fondamentali testi citati in appendice. Di sicuro si può affermare che mancò agli austriaci la capacità di aggregazione del consenso; e in una società come quella lombarda in particolare, ad aggravare questo compito contribuiva il carattere più moderno e variegato del suo corpo sociale.

 

Viceversa, con il passare degli anni si sarebbero progressivamente ingrossate le fila del dissenso antiaustriaco, ed un ruolo importante lo svolsero proprio quei ceti aristocratici che avevano inizialmente salutato con soddisfazione il ritorno della Lombardia sotto “l’aquila degli Asburgo”. Se per costoro la sfida agli austriaci muoveva da istanze reazionarie, per coloro che rimpiangevano il periodo napoleonico, e per il crescente numero di giovani in possesso di titoli di studio superiori, ad alimentare il risentimento e la ribellione erano soprattutto la frustrazione ed il disagio provocati dalle carenze del mercato del lavoro, specie nel settore della amministrazione pubblica.

 

Motivazioni ideologiche e cause economiche concorrevano così a far crescere un’opposizione che, le avanguardie liberal-nazionali avrebbero cercato di dislocare sul terreno della lotta patriottica: i prodromi della crisi politica del Regno erano già “in nuce” nel corso degli anni venti.

Il lungo e complesso Risorgimento italiano non costituisce ovviamente argomento di questo articolo, che ha ben più limitate e modeste finalità. Le considerazioni che ora vorrei svolgere sono dettate, piuttosto, dall’esigenza di tentare una riflessione su alcuni aspetti di quest’epoca, i quali talora vengono riproposti anche per l’effetto di contingenze politiche, o di sollecitazioni legate alla storia della cultura.

 

Il primo tema riguarda il funzionamento della burocrazia; è un argomento che contribuisce – a seconda delle prospettive – a far apprezzare o meno l’andamento della pubblica amministrazione nel Lombardo-Veneto.

 

Sul piano culturale intanto, possiamo osservare come la non assimilabilità delle province italiane alla struttura sociale ancora rigidamente corporativa di quelle austriache (lo abbiamo già indicato), rendesse inconsistente quell’”ideale burocratico” che – sottolinea Magris – costituiva invece uno degli elementi costitutivi del mondo asburgico. Se l’ingranaggio burocratico ed i suoi protagonisti finivano con l’ispirare e sollecitare la stessa produzione letteraria austriaca (coeva e posteriore), una siffatta tendenza non si ravvisava certo nel Lombardo – Veneto. Il retroterra culturale lombardo manteneva solidi legami con il periodo napoleonico, durante il quale l’impianto delle nuove strutture burocratiche era, in qualche modo, lo sviluppo dei nuovi portati modernizzatori derivanti dalla Rivoluzione Francese; ovvero era teso ad affrancare lo Stato dai vincoli corporativi e di ceto, e quindi a promuovere un diverso sviluppo qualitativo nei rapporti tra poteri pubblici e sudditi. Ne derivava – non solo in linea di principio – una “interlocuzione” senza mediazioni tra burocrazia e singolo individuo. Di una siffatta burocrazia sarebbe restata una forte impressione (e non solo tra gli ex funzionari ministeriali e di prefettura) negli anni successivi la fine dell’età napoleonica.

 

La macchina burocratica messa in piedi dai francesi tendeva quindi ad accordarsi alle nuove dinamiche sociali, e ad incrementarle. La burocrazia austriaca era viceversa più ripiegata sul mantenimento di un esistente considerato tutto sommato rassicurante: un immobilismo consono ad una società in gran parte ancora pre-moderna.

Per ritornare al punto iniziale, la letteratura italiana non ha creato personaggi omologhi a quelli prodotti dalle penne di Grillparzer, Werfel e Musil (alcuni di questi protagonisti letterari sono: Bancbano di Grillparzer, il capodivisione Tuzzi di Musil, il professor Kio ed il burocrate Tittel di Werfel, il consigliere d’ufficio Julius Zihal di Doderer), efficaci paradigmi della figura del burocrate, o comunque del fedele servitore dello Stato, che catturavano bene l’anima conservatrice della società austriaca.

 

Troppo dirompente, d’altra parte, l’irruzione della “rivoluzione”burocratica napoleonica, ed ancora faticoso il processo di modernizzazione delle strutture sociali, perché nella nuova fisionomia dei funzionari statali potesse, similmente, riconoscersi un corrispettivo dell’essenza dell’”umanità” lombardo – veneta, dando vita magari ad una sorta di rovesciamento, in chiave moderna, dell’”ideale burocratico” austriaco (benché sovente l’importanza ed il ruolo dei funzionari di Stato assunsero tratti non semplicemente istituzionali ma di più largo spessore umano e pedagogico).

 

Detto di questa importante differenza (che è insieme politica e culturale) occorre almeno delineare alcuni aspetti della macchina burocratica viennese “adattata” alla realtà lombardo-veneta, a partire dal 1815. Va sottolineato come l’impianto dell’amministrazione nel Regno fosse il risultato di un faticoso compromesso tra la necessità di non fare “tabula rasa” delle innovazioni sorte in età napoleonica, e l’esigenza di adeguarle al centralismo burocratico viennese. La riduzione di tendenze, tra loro contrastanti, a mera contrapposizione tra progresso ed istanze regressive non rappresenta adeguatamente la realtà.

 

Certamente il giudizio complessivo sul funzionamento della pubblica amministrazione nel Lombardo – Veneto non può essere positivo (ed il confronto, talora impietoso, con la “macchina” napoleonica rafforza tale giudizio).

 

Tra i diversi incagli al buon funzionamento della amministrazione lombardo-veneta, forse il più pesante era costituito dalla dipendenza del Regno dal centro imperiale, determinata dall’assenza di una efficace cinghia di trasmissione tra quest’ultimo e l’amministrazione periferica, in grado cioè di assicurare un più spedito corso delle pratiche istruite. Ciò avrebbe presupposto l’attribuzione di più ampie prerogative nei confronti della più alta carica istituzionale del Regno (il vicere), ma anche il riconoscimento di maggior autonomia decisionale e finanziaria agli organi amministrativi provinciali (la delegazione anzitutto).

 

L’interminabile corso delle pratiche amministrative era altresì il risultato di una sofisticata quanto pedante attitudine alla produzione di circolari ed altre disposizioni interne, che si diramavano da Vienna alla periferia dell’Impero, accentuando lo spessore formalista dell’iter burocratico.

 

Non basta: come ha ben messo in rilievo Meriggi, il circuito iper – formalista produceva importanti conseguenze sul livello motivazionale di impiegati e funzionari pubblici – specie tra coloro che avevano vissuto in prima persona “la via politica dell’amministrazione napoleonica” – costretti come erano ad istruire pratiche di cui non avrebbero determinato l’esito, e che spesso si sarebbero “perse” nella marea di procedimenti fermi ai previsti livelli di esame o riesame, di competenza delle varie magistrature amministrative.

 

Eppur si muove, si potrebbe pensare, ove le nostre riflessioni cercassero di cogliere non solo i limiti di un sistema amministrativo ancora troppo “asburgico”, ma anche le dinamiche progressive che in qualche modo esso produceva. Mi riferisco anzitutto all’altro volto del pachidermico impianto burocratico del Regno: l’insistenza sui diversi livelli di competenza e di giudizio che caratterizzavano l’iter degli atti amministrativi (invero rendendo la macchina amministrativa simile ad un apparato giudiziario) portava anche il risultato di contenere le spregiudicatezze, ed al limite gli arbitrii, riconducibili alle decisioni autonome dei singoli funzionari, rassicurando, almeno teoricamente, sul maggior garantismo fornito dal sistema. Almeno teoricamente, in quanto un procedimento che non veniva mai portato a termine finiva ovviamente per non garantire affatto gli istanti o comunque coloro che nutrivano determinate aspettative giuridiche, economiche o di altra natura.

 

D’altra parte i meccanismi di controllo degli atti, insieme al formalismo nell’esecuzione dei procedimenti, costituiscono un tratto peculiare dei moderni sistemi burocratici.

Una riflessione sul tema delle garanzie procedurali e sulla delimitazione di competenze e prerogative dei funzionari pubblici, getta tutto sommato un’ombra sull’eccellenza del sistema napoleonico. Illuminanti sono in tal senso le pagine che Antonielli dedica a questo argomento, dalle quali scaturisce una efficace disamina delle “intemperanze” e del protagonismo di parecchi funzionari napoleonici, che si traducevano sovente in comportamenti irregolari. La capacità del sistema di assorbirne le conseguenze – o se occorreva di adottare le opportune contromisure – non annullava i rischi connessi ad un esercizio delle funzioni prefettizie istituzionalmente molto “manageriale” e – ad un tempo – poco rispettoso di vincoli e controlli.

 

Sotto il profilo della qualità dei risultati, il passo indietro nel periodo austriaco fu netto. Tuttavia il sistema amministrativo lombardo-veneto non può semplicemente essere liquidato come improduttivo ed anacronistico; voglio dire che, fatta la tara dei suoi enormi difetti, in esso vi si colgono pure alcuni caratteri che, nel bene e nel male, avrebbero connotato l’evoluzione della amministrazione pubblica nei tempi successivi.

 

A conferma di ciò vale la pena anche di accennare ai profondi cambiamenti giuridici innestati dagli austriaci rispetto al reclutamento del personale da impiegare negli uffici pubblici. La fissazione di criteri oggettivi (il titolo di studio) in relazione alle predeterminate categorie funzionali (12 stati concretali) stabilì i confini di una nuova realtà normativa, quasi d’obbligo per l’evoluzione dei moderni apparati statuali.

 

Un altro argomento di riflessione che si intende proporre concerne una certa attitudine – di tanto in tanto riaffiorante, come negli ultimi anni – a ripensare con “nostalgia” al tramontato Impero asburgico. Un atteggiamento questo, sollecitato da differenti fattori: l’uno di matrice politico-ideologica, che rivendica all’esperienza della dominazione austriaca nel Lombardo-Veneto un valore storico positivo per lo sviluppo delle due regioni, ostacolato semmai dall’annessione al Piemonte e dalla nascita della Stato unitario (si veda G.Miglio, “Io, Bossi e la lega”, 1994); l’altro invece da ricondurre alla riscoperta o alla valorizzazione dello straordinario patrimonio culturale austriaco, che esprime nelle opere di Grillparzer, Roth, Musil – e naturalmente nella musica di Mozart – la sua essenza più autentica.

 

È possibile che alla diffusione del “mito asburgico” – nella sua variante culturale che abbiamo accennato – abbia contribuito, o contribuisca, il fascino per un’epoca nella quale si avverte – per il tramite letterario – il senso di un armonico dispiegarsi della vita dell’individuo, che si alimenta dei valori della tradizione e del mito della Corona per opporre, alle incombenti minacce del divenire, la propria, umanissima, gioia di vivere. Dense di suggestioni sono, in tale prospettiva, le pagine letterarie che mostrano il volto di una civiltà coesa, di un mondo (quel multiforme caleidoscopio di popoli diversi) caratterizzato da affinità e da comuni attitudini; pensiamo alle memorabili descrizioni di ambienti e luoghi di Roth : “[…] dovevo accorgermi che perfino i paesaggi , i campi, le nazioni, le razze, le capanne e i caffè del genere più diverso e della più diversa origine devono sottostare alla legge del tutto naturale di uno spirito potente che è in grado di accostare ciò che è distante, di rendere affine l’estraneo e di conciliare l’apparentemente divergente. Parlo del frainteso e anche abusato spirito della vecchia monarchia, che in questo caso faceva si che io fossi di casa a Zlotogrod non meno che a Sipolje o a Vienna.[…]” (La cripta dei Cappuccini, pp.49-51). Pur riferite agli anni che precedono ormai il tramonto dell’impero asburgico, esse potrebbero anche essere rivolte al pieno ottocento, senza perdere nulla della loro forza evocativa di un mondo che l’autore sente irrimediabilmente perduto. Storicamente, questa rappresentazione contrasta però, come diremo, con il sorgere dei nazionalismi e delle aspirazioni all’indipendenza sostenute nei vari paesi soggetti alla Corona.

 

A far crescere il mito asburgico hanno concorso – sul piano tuttavia più volubile delle mode – lo straordinario fascino della capitale austriaca, della sua musica, e pure alcune affettate produzioni cinematografiche (ci riferiamo, in particolare, alla serie di film di grande successo commerciale nota come “Sissi, l’imperatrice d’Austria”, con Romy Scheineder).

 

Certo la mitizzazione del passato imperiale austriaco configge notevolmente con la tradizione illuministica occidentale, e rischia di deformare non poco la prospettiva storica con cui si guarda alla stessa storia italiana.

 

Prendiamo un brillantissimo passo tratto da “ Danubio” di Claudio Magris, intitolato: “Grillparzer e Napoleone”. La radicalità dello scontro tra due culture: quella di stampo paternalistico, tradizionalista, espressione dell’Europa pre-rivoluzionaria, e quella illuministica e laica che incarna l’idea della modernità, è riassunta con grande efficacia nella sensibilità e nella cultura così diverse di questi due uomini.

E tuttavia, l’osservazione di Magris sul carattere non solo pre ma anche post-moderno dello spirito del “Vormarz “ austriaco ((il “pre marzo”, l’età che precedette il moto del quarantotto) apre ad una più ampia riflessione su suo significato storico e soprattutto filosofico. In tale prospettiva, la civiltà austriaca non incarna solo la difesa del passato – la reazione contro il progresso – ma irradia, finanche nella temperie attuale, la sua profonda ed umanissima concezione dell’individuo, e la ricerca di un “modello” esistenziale da sottrarre alla frantumazione prodotta dal corso della storia.

 

Questa digressione su un argomento affascinante e ad un tempo complesso – di cui peraltro si inteso naturalmente solo fornire alcuni spunti di riflessione – non deve allontanarci dal tema che interessa maggiormente; è storicamente fondata una rivalutazione della vicenda ottocentesca dell’Impero austriaco – soprattutto con riferimento al regno Lombardo – Veneto – sollecitata com’è da motivazioni di ordine storico – politico e culturale?

 

È impossibile, prima di tutto, considerare storicamente difendibile l’ideale della “grande Patria”, così come era vagheggiata dalla Monarchia asburgica (comprendente tedeschi, sloveni, boemi, moravi, slovacchi, italiani, polacchi e naturalmente austriaci ed ungheresi). In tale senso il giudizio della storia è netto, e la libertà dei popoli incompatibile con un sistema istituzionalmente sopranazionale come era l’Impero austro-ungarico. Una illusione, insomma, quella imperiale di realizzare un crogiolo di popoli e culture differenti (ché se una “unione” – politica ed ideale – si realizzò tra popoli diversi fu semmai nel segno della lotta agli austriaci ), in grado di annullare gli effetti prodotti dall’insorgenza delle “questioni nazionali”, come testimonia in tal senso il processo di convergenza che si realizzò tra le lotte risorgimentali italiane e quelle ungheresi.

 

Quanto all’idea che la Monarchia asburgica si caratterizzasse in definitiva come una dittatura dal volto umano, essa può essere legittima solo in misura inversamente proporzionale alla crescita del dissenso organizzato che minava, o cercava di minare (come nel Lombardo-Veneto) la sua autorità; in altre parole, essa sapeva ben giovarsi di un robusto apparato repressivo (dove la combinazione tra azione di polizia e la durezza di un antiquato codice penale dava luogo a implacabili condanne), di cui la fortezza dello Spielberg avrebbe tristemente testimoniata la crudeltà.

 

Sul piano storiografico la storia del regno Lombardo – Veneto è stata recentemente oggetto, in particolare, di un ampio studio di Marco Meriggi, che offre spunti importanti per una valutazione di taluni aspetti della politica austriaca, oggetto in passato di tesi alimentate anche da pregiudizio e storicamente non sempre fondate. Alludo anzitutto alla tesi del “saccheggio” che il fisco imperiale avrebbe effettuato nei confronti delle province lombardo-venete (sostenuto anche da Sandonà nel suo celebre studio); gli elementi portati da Meriggi negano tale volontà “predatoria”, consegnando dell’amministrazione fiscale austriaca un differente e più equilibrato profilo.

 

In conclusione, è bene sottolineare come la società lombardo-veneta (lombarda soprattutto) non interruppe, durante la lunga dominazione austriaca, il proprio cammino verso la modernità. In parte, come ha sottolineato Giorgio Candeloro, perché l’economia di queste terre “aveva in se stessa delle risorse che le permisero di svilupparsi grandemente nel trentaquattro anni di pace ininterrotta goduta dal Paese dopo il 1814”. Inoltre perché la politica austriaca, pur se avviluppata nella complessa rete degli interessi imperiali – e condizionata altresì dagli effetti negativi prodotti dal suo centralismo burocratico – fornì comunque un contributo al progresso del Regno.

 

Il tratto più incisivo in tal senso fu certamente costituito dallo sviluppo delle infrastrutture viarie, che consentì alla Lombardia di poter vantare per molto tempo il primato della regione con la miglior rete stradale d’Italia (ben più difficile, prevedibilmente, il corso dei progetti volti alla creazione di una rete ferroviaria, che si riuscì infine ad inaugurare nel 1846, assicurando il collegamento tra Milano e Venezia.

 

La trasformazione dell’economia lombarda da una struttura essenzialmente agro-commerciale ad una più variamente caratterizzata – in virtù dell’incremento delle attività industriali – va inquadrata, tuttavia, in una prospettiva di ancora forte inadeguatezza, della borghesia imprenditoriale, a dispiegare un ruolo autonomo, e protagonista, nella società.

 

Testimonianza della persistenza, sul piano dei rapporti sociali, di una marcata egemonia del potere patrizio, il quale pur aggiornando le proprie tradizionali attitudini (per esempio con l’erogazione di finanziamenti al nascente settore industriale) rinnovava la propria centralità nel “sistema”. Benché prendano avvio, infatti, proprio nel pieno scorrere della Restaurazione, (vedi la nascita delle casse di risparmio) processi ed esperienze destinanti a segnare profondamente i caratteri del sistema bancario italiano, l’assenza di un vero sistema creditizio volto a sostenere lo sviluppo industriale, rendeva sostanzialmente insostituibile il ruolo finanziatore del ceto agrario-commerciale, di profilo largamente nobiliare.

 

La faticosa acquisizione di una fisionomia nettamente orientata verso la modernità, trovava un consapevole sostegno da parte della politica asburgica, la quale in effetti “sorresse l’irradiazione dei canali della modernità”, attraverso non solo le opere viarie, come è stato ricordato, ma anche mediante la costruzione di altre infrastrutture quali acquedotti e scuole (sebbene sempre si debba misurarne i risultati concreti, o distinguere gli intenti dalle effettive realizzazioni, come hanno insegnato alcune esperienze relative alle costruzioni ferroviarie.

 

Sfortunatamente per gli austriaci il livello di percezione, nella società lombardo-veneta, delle realizzazioni positive operate era estremamente scarso (anche in conseguenza della profittabilità non immediata degli investimenti effettuati nelle infrastrutture). Con ciò si ripropone il tema, introdotto in apertura di queste riflessioni, del sostanziale deficit di consenso alla politica austriaca (ma forse dovremmo scrivere, alla dominazione austriaca). Sotto questo profilo il “48” rappresentò la prima grande “spallata” al potere dell’”aquila bicipite”. La successiva fase neo-assolutistica (che prese avvio dopo la sconfitta delle rivoluzioni nazionali) si sarebbe ormai esclusivamente basata sull’uso della forza, assicurata da un opprimente regime poliziesco.

 

La storia del Lombardo-Veneto volgeva ormai verso l’epilogo. Anche se, al principio degli anni 50, ciò costituiva ancora una aspirazione per i movimenti patriottici, e l’esito della lotta che si andava riprendendo era sommamente incerto, il distacco con il quale possiamo ripensare oggi a quell’epoca ci consente di individuare proprio in quegli anni l’avvio del suo inesorabile declino. Laddove era maturata la sconfitta militare dei patrioti, si erano ormai gettate le basi per una più robusta formazione della coscienza nazionale, mentre il dissenso antiaustriaco si irradiava sempre più anche verso i ceti popolari.

 

La “seconda Restaurazione” nel Lombardo-Veneto ci appare quindi come un drammatico “colpo di coda” di un regime che pure aveva saputo, in passato, fornire di sé una immagine non priva di una sua dignità, soprattutto nel modo in cui si cercò di misurarsi con i problemi della società italiana, mai trattata, è doveroso riconoscerlo, come una colonia; bensì come una realtà complessa e niente affatto omologabile alle terre della Corona asburgica. Ma proprio qui (lo abbiamo visto) va colta la prima causa dell’inadeguatezza del sistema asburgico, alla quale in verità non si riuscì mai a porre rimedio.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

C. Mozzarelli “Sovrano, società e amministrazione locale nella Lombardia teresiana (1749-1758)”, Bologna, 1982.

A. Sandonà, “Il regno Lombardo-Veneto 1814-1859, Milano, 1912

M. Meriggi, “il regno Lombardo-Veneto, Torino, 1987

M. Meriggi, “Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848)”, Bologna, 1983

G. Candeloro, “Storia dell’Italia Moderna”, VIII° volume, Milano, 1956

F. Della Peruta, “Storia dell’ottocento”, Firenze,1992

G. Procacci, “Storia degli italiani”, Bari, 1968

C. Magris, “Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna”,Torino,1963, poi 1996.

M. Meriggi, , “Funzionari e carriere nella Lombardia della Restaurazione (1816-1848), in “Dagli stati preunitari d’antico regime all’unificazione”, a cura di M.Raponi, Bologna,1981.

L. Antonielli, “I prefetti dell’Italia napoleonica”, Bologna, 1983,

C. Magris, “Danubio”, Garzanti, Milano, 1990.

F. Della Peruta, “Conservatori, liberali e democratici nel Risorgimento (Mazzini, Kossuth e le relazioni tra Italia e Ungheria nel Risorgimento”), Milano, 1989



 

 

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