N. 39 - Marzo 2011
(LXX)
SOTTO LE ALI DELL’AQUILA
IL REGNO LOMBARDO-VENETO
di Alberto Conti
La
fine
dell’impero
napoleonico
schiuse
le
porte
ad
un
clamoroso
programma
restauratore
che,
solo
in
Italia,
disarticolò
radicalmente
l’assetto
politico
–
istituzionale
fissato
durante
gli
anni
“francesi”.
La
Lombardia,
in
particolare,
si
trovò
riunita
al
Veneto
in
un
regno
destinato
a
costituire
uno
dei
gioielli
dell’Impero
austriaco
(ritornando
quindi
da
dove
la
temperie
di
fine
settecento
l’aveva
allontanata).
Pur rappresentando per un verso una delle pagine più regressive
che
il
corso
della
storia
europea
moderna
abbia
conosciuto,
la
Restaurazione
è
stata
anche
l’epoca
che
ha
segnato
l’irrimediabile,
decisiva
sconfitta
dei
fautori
di
in
ritorno
senza
condizioni
al
passato
pre-rivoluzionario.
Illusione
questa
che
con
contagiò
i
più
illuminati
statisti
e
plenipotenziari
che
governarono
i
destini
dell’Europa
post-napoleonica.
Nella
prassi,
infatti,
si
sviluppò
una
pragmatico
“confronto”
con
l’eredità
dei
Lumi,
garantendo
in
molti
casi
la
continuità,
seppur
in
altra
forma,
di
istituti
giuridici
od
economici
della
tradizione
riformista
settecentesca
e
della
stessa
legislazione
napoleonica
(si
pensi
ai
codici
napoleonici,
la
cui
formale
abrogazione
da
parte
dei
governi
italiani
non
comportò
-con
l’eccezione
dello
stato
Sabaudo
- la
sostanziale
obliterazione
di
molte
innovazioni
che
essi
avevano
prodotto).
Se la rivendicazione del primato dei valori morali dell’assolutismo,
poteva
favorire
la
ripresa
di
un
più
stretto
legame
tra
Stato
e
Chiesa
– e
quindi
ridar
forza,
per
esempio,
alla
influenza
in
diversi
stati
di
istituzioni
religiose
come
i
Gesuiti
–
certo
il
pensiero
reazionario
non
possedeva
più
il
vigore
ed
il
prestigio
per
plasmare,
a
proprio
comodo,
quelle
società
ormai
affrancate
dai
moduli
classici
della
stratificazione
sociale
d’Antico
Regime.
Abbiamo
utilizzato
il
plurale,
in
quanto
la
realtà
storica
europea
era
alquanto
composita
– e
specie
nel
multiforme
impero
asburgico
–
era
nettamente
ravvisabile
il
differente
livello
di
sviluppo
umano
esistente
tra
i
territori
che
lo
componevano.
Il
Lombardo
–
Veneto
costituiva
in
tal
senso
una
società
decisamente
più
complessa
(sul
piano
dei
rapporti
sociali,
del
funzionamento
delle
istituzioni
statali,
e
del
corpus
normativo)
rispetto
ai
territori
austro-
boemi,
ove
spesso
tiranneggiavano
ancora
i
signori
feudali.
Le principali questioni che gli austriaci dovettero affrontare
nel
regno
Lombardo-Veneto
concernevano
quindi:
la
composizione
di
un
assetto
giuridico
–
istituzionale,
idoneo
ad
assicurare
un
superamento
non
traumatico
dell’eredità
napoleonica;
la
definizione
dei
rapporti
con
le
caste
nobiliari
–
pronte
a
riattivare
i
tradizionali
meccanismi
di
autoconservazione
dei
propri
privilegi,
ora
che
con
l’esaurimento
dell’esperienza
napoleonica
si
profilava
l’insperata
possibilità
di
ritornare
al
rimpianto
dualismo
Stato
–
ceti
dell’epoca
teresiana.
Dalla
capacità
di
dirimere
questi
nodi
politici
sarebbe
in
buona
parte
dipesa
la
stessa
qualità
dell’amministrazione
del
Regno,
nonché
il
potenziale
sviluppo
di
un
consenso
intorno
al
suo
operato.
Non
è
certo
questa
la
sede
per
affrontare
in
modo
articolato
questi
temi,
per
l’approfondimento
dei
quali
si
rimanda
ai
fondamentali
testi
citati
in
appendice.
Di
sicuro
si
può
affermare
che
mancò
agli
austriaci
la
capacità
di
aggregazione
del
consenso;
e in
una
società
come
quella
lombarda
in
particolare,
ad
aggravare
questo
compito
contribuiva
il
carattere
più
moderno
e
variegato
del
suo
corpo
sociale.
Viceversa, con il passare degli anni si sarebbero progressivamente
ingrossate
le
fila
del
dissenso
antiaustriaco,
ed
un
ruolo
importante
lo
svolsero
proprio
quei
ceti
aristocratici
che
avevano
inizialmente
salutato
con
soddisfazione
il
ritorno
della
Lombardia
sotto
“l’aquila
degli
Asburgo”.
Se
per
costoro
la
sfida
agli
austriaci
muoveva
da
istanze
reazionarie,
per
coloro
che
rimpiangevano
il
periodo
napoleonico,
e
per
il
crescente
numero
di
giovani
in
possesso
di
titoli
di
studio
superiori,
ad
alimentare
il
risentimento
e la
ribellione
erano
soprattutto
la
frustrazione
ed
il
disagio
provocati
dalle
carenze
del
mercato
del
lavoro,
specie
nel
settore
della
amministrazione
pubblica.
Motivazioni ideologiche e cause economiche concorrevano
così
a
far
crescere
un’opposizione
che,
le
avanguardie
liberal-nazionali
avrebbero
cercato
di
dislocare
sul
terreno
della
lotta
patriottica:
i
prodromi
della
crisi
politica
del
Regno
erano
già
“in
nuce”
nel
corso
degli
anni
venti.
Il lungo e complesso Risorgimento italiano non costituisce
ovviamente
argomento
di
questo
articolo,
che
ha
ben
più
limitate
e
modeste
finalità.
Le
considerazioni
che
ora
vorrei
svolgere
sono
dettate,
piuttosto,
dall’esigenza
di
tentare
una
riflessione
su
alcuni
aspetti
di
quest’epoca,
i
quali
talora
vengono
riproposti
anche
per
l’effetto
di
contingenze
politiche,
o di
sollecitazioni
legate
alla
storia
della
cultura.
Il primo tema riguarda il funzionamento della burocrazia; è
un
argomento
che
contribuisce
– a
seconda
delle
prospettive
– a
far
apprezzare
o
meno
l’andamento
della
pubblica
amministrazione
nel
Lombardo-Veneto.
Sul piano culturale intanto, possiamo osservare come la non
assimilabilità
delle
province
italiane
alla
struttura
sociale
ancora
rigidamente
corporativa
di
quelle
austriache
(lo
abbiamo
già
indicato),
rendesse
inconsistente
quell’”ideale
burocratico”
che
–
sottolinea
Magris
–
costituiva
invece
uno
degli
elementi
costitutivi
del
mondo
asburgico.
Se
l’ingranaggio
burocratico
ed i
suoi
protagonisti
finivano
con
l’ispirare
e
sollecitare
la
stessa
produzione
letteraria
austriaca
(coeva
e
posteriore),
una
siffatta
tendenza
non
si
ravvisava
certo
nel
Lombardo
–
Veneto.
Il
retroterra
culturale
lombardo
manteneva
solidi
legami
con
il
periodo
napoleonico,
durante
il
quale
l’impianto
delle
nuove
strutture
burocratiche
era,
in
qualche
modo,
lo
sviluppo
dei
nuovi
portati
modernizzatori
derivanti
dalla
Rivoluzione
Francese;
ovvero
era
teso
ad
affrancare
lo
Stato
dai
vincoli
corporativi
e di
ceto,
e
quindi
a
promuovere
un
diverso
sviluppo
qualitativo
nei
rapporti
tra
poteri
pubblici
e
sudditi.
Ne
derivava
–
non
solo
in
linea
di
principio
–
una
“interlocuzione”
senza
mediazioni
tra
burocrazia
e
singolo
individuo.
Di
una
siffatta
burocrazia
sarebbe
restata
una
forte
impressione
(e
non
solo
tra
gli
ex
funzionari
ministeriali
e di
prefettura)
negli
anni
successivi
la
fine
dell’età
napoleonica.
La macchina burocratica messa in piedi dai francesi tendeva
quindi
ad
accordarsi
alle
nuove
dinamiche
sociali,
e ad
incrementarle.
La
burocrazia
austriaca
era
viceversa
più
ripiegata
sul
mantenimento
di
un
esistente
considerato
tutto
sommato
rassicurante:
un
immobilismo
consono
ad
una
società
in
gran
parte
ancora
pre-moderna.
Per ritornare al punto iniziale, la letteratura italiana
non
ha
creato
personaggi
omologhi
a
quelli
prodotti
dalle
penne
di
Grillparzer,
Werfel
e
Musil
(alcuni
di
questi
protagonisti
letterari
sono:
Bancbano
di
Grillparzer,
il
capodivisione
Tuzzi
di
Musil,
il
professor
Kio
ed
il
burocrate
Tittel
di
Werfel,
il
consigliere
d’ufficio
Julius
Zihal
di
Doderer),
efficaci
paradigmi
della
figura
del
burocrate,
o
comunque
del
fedele
servitore
dello
Stato,
che
catturavano
bene
l’anima
conservatrice
della
società
austriaca.
Troppo dirompente, d’altra parte, l’irruzione della “rivoluzione”burocratica
napoleonica,
ed
ancora
faticoso
il
processo
di
modernizzazione
delle
strutture
sociali,
perché
nella
nuova
fisionomia
dei
funzionari
statali
potesse,
similmente,
riconoscersi
un
corrispettivo
dell’essenza
dell’”umanità”
lombardo
–
veneta,
dando
vita
magari
ad
una
sorta
di
rovesciamento,
in
chiave
moderna,
dell’”ideale
burocratico”
austriaco
(benché
sovente
l’importanza
ed
il
ruolo
dei
funzionari
di
Stato
assunsero
tratti
non
semplicemente
istituzionali
ma
di
più
largo
spessore
umano
e
pedagogico).
Detto di questa importante differenza (che è insieme politica
e
culturale)
occorre
almeno
delineare
alcuni
aspetti
della
macchina
burocratica
viennese
“adattata”
alla
realtà
lombardo-veneta,
a
partire
dal
1815.
Va
sottolineato
come
l’impianto
dell’amministrazione
nel
Regno
fosse
il
risultato
di
un
faticoso
compromesso
tra
la
necessità
di
non
fare
“tabula
rasa”
delle
innovazioni
sorte
in
età
napoleonica,
e
l’esigenza
di
adeguarle
al
centralismo
burocratico
viennese.
La
riduzione
di
tendenze,
tra
loro
contrastanti,
a
mera
contrapposizione
tra
progresso
ed
istanze
regressive
non
rappresenta
adeguatamente
la
realtà.
Certamente il giudizio complessivo sul funzionamento della
pubblica
amministrazione
nel
Lombardo
–
Veneto
non
può
essere
positivo
(ed
il
confronto,
talora
impietoso,
con
la
“macchina”
napoleonica
rafforza
tale
giudizio).
Tra i diversi incagli al buon funzionamento della amministrazione
lombardo-veneta,
forse
il
più
pesante
era
costituito
dalla
dipendenza
del
Regno
dal
centro
imperiale,
determinata
dall’assenza
di
una
efficace
cinghia
di
trasmissione
tra
quest’ultimo
e
l’amministrazione
periferica,
in
grado
cioè
di
assicurare
un
più
spedito
corso
delle
pratiche
istruite.
Ciò
avrebbe
presupposto
l’attribuzione
di
più
ampie
prerogative
nei
confronti
della
più
alta
carica
istituzionale
del
Regno
(il
vicere),
ma
anche
il
riconoscimento
di
maggior
autonomia
decisionale
e
finanziaria
agli
organi
amministrativi
provinciali
(la
delegazione
anzitutto).
L’interminabile corso delle pratiche amministrative era
altresì
il
risultato
di
una
sofisticata
quanto
pedante
attitudine
alla
produzione
di
circolari
ed
altre
disposizioni
interne,
che
si
diramavano
da
Vienna
alla
periferia
dell’Impero,
accentuando
lo
spessore
formalista
dell’iter
burocratico.
Non basta: come ha ben messo in rilievo Meriggi, il circuito
iper
–
formalista
produceva
importanti
conseguenze
sul
livello
motivazionale
di
impiegati
e
funzionari
pubblici
–
specie
tra
coloro
che
avevano
vissuto
in
prima
persona
“la
via
politica
dell’amministrazione
napoleonica”
–
costretti
come
erano
ad
istruire
pratiche
di
cui
non
avrebbero
determinato
l’esito,
e
che
spesso
si
sarebbero
“perse”
nella
marea
di
procedimenti
fermi
ai
previsti
livelli
di
esame
o
riesame,
di
competenza
delle
varie
magistrature
amministrative.
Eppur si muove, si potrebbe pensare, ove le nostre riflessioni
cercassero
di
cogliere
non
solo
i
limiti
di
un
sistema
amministrativo
ancora
troppo
“asburgico”,
ma
anche
le
dinamiche
progressive
che
in
qualche
modo
esso
produceva.
Mi
riferisco
anzitutto
all’altro
volto
del
pachidermico
impianto
burocratico
del
Regno:
l’insistenza
sui
diversi
livelli
di
competenza
e di
giudizio
che
caratterizzavano
l’iter
degli
atti
amministrativi
(invero
rendendo
la
macchina
amministrativa
simile
ad
un
apparato
giudiziario)
portava
anche
il
risultato
di
contenere
le
spregiudicatezze,
ed
al
limite
gli
arbitrii,
riconducibili
alle
decisioni
autonome
dei
singoli
funzionari,
rassicurando,
almeno
teoricamente,
sul
maggior
garantismo
fornito
dal
sistema.
Almeno
teoricamente,
in
quanto
un
procedimento
che
non
veniva
mai
portato
a
termine
finiva
ovviamente
per
non
garantire
affatto
gli
istanti
o
comunque
coloro
che
nutrivano
determinate
aspettative
giuridiche,
economiche
o di
altra
natura.
D’altra parte i meccanismi di controllo degli atti, insieme
al
formalismo
nell’esecuzione
dei
procedimenti,
costituiscono
un
tratto
peculiare
dei
moderni
sistemi
burocratici.
Una riflessione sul tema delle garanzie procedurali e sulla
delimitazione
di
competenze
e
prerogative
dei
funzionari
pubblici,
getta
tutto
sommato
un’ombra
sull’eccellenza
del
sistema
napoleonico.
Illuminanti
sono
in
tal
senso
le
pagine
che
Antonielli
dedica
a
questo
argomento,
dalle
quali
scaturisce
una
efficace
disamina
delle
“intemperanze”
e
del
protagonismo
di
parecchi
funzionari
napoleonici,
che
si
traducevano
sovente
in
comportamenti
irregolari.
La
capacità
del
sistema
di
assorbirne
le
conseguenze
– o
se
occorreva
di
adottare
le
opportune
contromisure
–
non
annullava
i
rischi
connessi
ad
un
esercizio
delle
funzioni
prefettizie
istituzionalmente
molto
“manageriale”
e –
ad
un
tempo
–
poco
rispettoso
di
vincoli
e
controlli.
Sotto il profilo della qualità dei risultati, il passo indietro
nel
periodo
austriaco
fu
netto.
Tuttavia
il
sistema
amministrativo
lombardo-veneto
non
può
semplicemente
essere
liquidato
come
improduttivo
ed
anacronistico;
voglio
dire
che,
fatta
la
tara
dei
suoi
enormi
difetti,
in
esso
vi
si
colgono
pure
alcuni
caratteri
che,
nel
bene
e
nel
male,
avrebbero
connotato
l’evoluzione
della
amministrazione
pubblica
nei
tempi
successivi.
A conferma di ciò vale la pena anche di accennare ai profondi
cambiamenti
giuridici
innestati
dagli
austriaci
rispetto
al
reclutamento
del
personale
da
impiegare
negli
uffici
pubblici.
La
fissazione
di
criteri
oggettivi
(il
titolo
di
studio)
in
relazione
alle
predeterminate
categorie
funzionali
(12
stati
concretali)
stabilì
i
confini
di
una
nuova
realtà
normativa,
quasi
d’obbligo
per
l’evoluzione
dei
moderni
apparati
statuali.
Un altro argomento di riflessione che si intende proporre
concerne
una
certa
attitudine
– di
tanto
in
tanto
riaffiorante,
come
negli
ultimi
anni
– a
ripensare
con
“nostalgia”
al
tramontato
Impero
asburgico.
Un
atteggiamento
questo,
sollecitato
da
differenti
fattori:
l’uno
di
matrice
politico-ideologica,
che
rivendica
all’esperienza
della
dominazione
austriaca
nel
Lombardo-Veneto
un
valore
storico
positivo
per
lo
sviluppo
delle
due
regioni,
ostacolato
semmai
dall’annessione
al
Piemonte
e
dalla
nascita
della
Stato
unitario
(si
veda
G.Miglio,
“Io,
Bossi
e la
lega”,
1994);
l’altro
invece
da
ricondurre
alla
riscoperta
o
alla
valorizzazione
dello
straordinario
patrimonio
culturale
austriaco,
che
esprime
nelle
opere
di
Grillparzer,
Roth,
Musil
– e
naturalmente
nella
musica
di
Mozart
– la
sua
essenza
più
autentica.
È possibile che alla diffusione del “mito asburgico” – nella
sua
variante
culturale
che
abbiamo
accennato
–
abbia
contribuito,
o
contribuisca,
il
fascino
per
un’epoca
nella
quale
si
avverte
–
per
il
tramite
letterario
– il
senso
di
un
armonico
dispiegarsi
della
vita
dell’individuo,
che
si
alimenta
dei
valori
della
tradizione
e
del
mito
della
Corona
per
opporre,
alle
incombenti
minacce
del
divenire,
la
propria,
umanissima,
gioia
di
vivere.
Dense
di
suggestioni
sono,
in
tale
prospettiva,
le
pagine
letterarie
che
mostrano
il
volto
di
una
civiltà
coesa,
di
un
mondo
(quel
multiforme
caleidoscopio
di
popoli
diversi)
caratterizzato
da
affinità
e da
comuni
attitudini;
pensiamo
alle
memorabili
descrizioni
di
ambienti
e
luoghi
di
Roth
:
“[…]
dovevo
accorgermi
che
perfino
i
paesaggi
, i
campi,
le
nazioni,
le
razze,
le
capanne
e i
caffè
del
genere
più
diverso
e
della
più
diversa
origine
devono
sottostare
alla
legge
del
tutto
naturale
di
uno
spirito
potente
che
è in
grado
di
accostare
ciò
che
è
distante,
di
rendere
affine
l’estraneo
e di
conciliare
l’apparentemente
divergente.
Parlo
del
frainteso
e
anche
abusato
spirito
della
vecchia
monarchia,
che
in
questo
caso
faceva
si
che
io
fossi
di
casa
a
Zlotogrod
non
meno
che
a
Sipolje
o a
Vienna.[…]”
(La
cripta
dei
Cappuccini,
pp.49-51).
Pur
riferite
agli
anni
che
precedono
ormai
il
tramonto
dell’impero
asburgico,
esse
potrebbero
anche
essere
rivolte
al
pieno
ottocento,
senza
perdere
nulla
della
loro
forza
evocativa
di
un
mondo
che
l’autore
sente
irrimediabilmente
perduto.
Storicamente,
questa
rappresentazione
contrasta
però,
come
diremo,
con
il
sorgere
dei
nazionalismi
e
delle
aspirazioni
all’indipendenza
sostenute
nei
vari
paesi
soggetti
alla
Corona.
A far crescere il mito asburgico hanno concorso – sul piano
tuttavia
più
volubile
delle
mode
– lo
straordinario
fascino
della
capitale
austriaca,
della
sua
musica,
e
pure
alcune
affettate
produzioni
cinematografiche
(ci
riferiamo,
in
particolare,
alla
serie
di
film
di
grande
successo
commerciale
nota
come
“Sissi,
l’imperatrice
d’Austria”,
con
Romy
Scheineder).
Certo la mitizzazione del passato imperiale austriaco configge
notevolmente
con
la
tradizione
illuministica
occidentale,
e
rischia
di
deformare
non
poco
la
prospettiva
storica
con
cui
si
guarda
alla
stessa
storia
italiana.
Prendiamo un brillantissimo passo tratto da “ Danubio” di
Claudio
Magris,
intitolato:
“Grillparzer
e
Napoleone”.
La
radicalità
dello
scontro
tra
due
culture:
quella
di
stampo
paternalistico,
tradizionalista,
espressione
dell’Europa
pre-rivoluzionaria,
e
quella
illuministica
e
laica
che
incarna
l’idea
della
modernità,
è
riassunta
con
grande
efficacia
nella
sensibilità
e
nella
cultura
così
diverse
di
questi
due
uomini.
E tuttavia, l’osservazione di Magris sul carattere non solo
pre
ma
anche
post-moderno
dello
spirito
del
“Vormarz
“
austriaco
((il
“pre
marzo”,
l’età
che
precedette
il
moto
del
quarantotto)
apre
ad
una
più
ampia
riflessione
su
suo
significato
storico
e
soprattutto
filosofico.
In
tale
prospettiva,
la
civiltà
austriaca
non
incarna
solo
la
difesa
del
passato
– la
reazione
contro
il
progresso
– ma
irradia,
finanche
nella
temperie
attuale,
la
sua
profonda
ed
umanissima
concezione
dell’individuo,
e la
ricerca
di
un
“modello”
esistenziale
da
sottrarre
alla
frantumazione
prodotta
dal
corso
della
storia.
Questa digressione su un argomento affascinante e ad un
tempo
complesso
– di
cui
peraltro
si
inteso
naturalmente
solo
fornire
alcuni
spunti
di
riflessione
–
non
deve
allontanarci
dal
tema
che
interessa
maggiormente;
è
storicamente
fondata
una
rivalutazione
della
vicenda
ottocentesca
dell’Impero
austriaco
–
soprattutto
con
riferimento
al
regno
Lombardo
–
Veneto
–
sollecitata
com’è
da
motivazioni
di
ordine
storico
–
politico
e
culturale?
È impossibile, prima di tutto, considerare storicamente
difendibile
l’ideale
della
“grande
Patria”,
così
come
era
vagheggiata
dalla
Monarchia
asburgica
(comprendente
tedeschi,
sloveni,
boemi,
moravi,
slovacchi,
italiani,
polacchi
e
naturalmente
austriaci
ed
ungheresi).
In
tale
senso
il
giudizio
della
storia
è
netto,
e la
libertà
dei
popoli
incompatibile
con
un
sistema
istituzionalmente
sopranazionale
come
era
l’Impero
austro-ungarico.
Una
illusione,
insomma,
quella
imperiale
di
realizzare
un
crogiolo
di
popoli
e
culture
differenti
(ché
se
una
“unione”
–
politica
ed
ideale
– si
realizzò
tra
popoli
diversi
fu
semmai
nel
segno
della
lotta
agli
austriaci
),
in
grado
di
annullare
gli
effetti
prodotti
dall’insorgenza
delle
“questioni
nazionali”,
come
testimonia
in
tal
senso
il
processo
di
convergenza
che
si
realizzò
tra
le
lotte
risorgimentali
italiane
e
quelle
ungheresi.
Quanto all’idea che la Monarchia asburgica si caratterizzasse
in
definitiva
come
una
dittatura
dal
volto
umano,
essa
può
essere
legittima
solo
in
misura
inversamente
proporzionale
alla
crescita
del
dissenso
organizzato
che
minava,
o
cercava
di
minare
(come
nel
Lombardo-Veneto)
la
sua
autorità;
in
altre
parole,
essa
sapeva
ben
giovarsi
di
un
robusto
apparato
repressivo
(dove
la
combinazione
tra
azione
di
polizia
e la
durezza
di
un
antiquato
codice
penale
dava
luogo
a
implacabili
condanne),
di
cui
la
fortezza
dello
Spielberg
avrebbe
tristemente
testimoniata
la
crudeltà.
Sul piano storiografico la storia del regno Lombardo – Veneto
è
stata
recentemente
oggetto,
in
particolare,
di
un
ampio
studio
di
Marco
Meriggi,
che
offre
spunti
importanti
per
una
valutazione
di
taluni
aspetti
della
politica
austriaca,
oggetto
in
passato
di
tesi
alimentate
anche
da
pregiudizio
e
storicamente
non
sempre
fondate.
Alludo
anzitutto
alla
tesi
del
“saccheggio”
che
il
fisco
imperiale
avrebbe
effettuato
nei
confronti
delle
province
lombardo-venete
(sostenuto
anche
da
Sandonà
nel
suo
celebre
studio);
gli
elementi
portati
da
Meriggi
negano
tale
volontà
“predatoria”,
consegnando
dell’amministrazione
fiscale
austriaca
un
differente
e
più
equilibrato
profilo.
In conclusione, è bene sottolineare come la società lombardo-veneta
(lombarda
soprattutto)
non
interruppe,
durante
la
lunga
dominazione
austriaca,
il
proprio
cammino
verso
la
modernità.
In
parte,
come
ha
sottolineato
Giorgio
Candeloro,
perché
l’economia
di
queste
terre
“aveva
in
se
stessa
delle
risorse
che
le
permisero
di
svilupparsi
grandemente
nel
trentaquattro
anni
di
pace
ininterrotta
goduta
dal
Paese
dopo
il
1814”.
Inoltre
perché
la
politica
austriaca,
pur
se
avviluppata
nella
complessa
rete
degli
interessi
imperiali
– e
condizionata
altresì
dagli
effetti
negativi
prodotti
dal
suo
centralismo
burocratico
–
fornì
comunque
un
contributo
al
progresso
del
Regno.
Il tratto più incisivo in tal senso fu certamente costituito
dallo
sviluppo
delle
infrastrutture
viarie,
che
consentì
alla
Lombardia
di
poter
vantare
per
molto
tempo
il
primato
della
regione
con
la
miglior
rete
stradale
d’Italia
(ben
più
difficile,
prevedibilmente,
il
corso
dei
progetti
volti
alla
creazione
di
una
rete
ferroviaria,
che
si
riuscì
infine
ad
inaugurare
nel
1846,
assicurando
il
collegamento
tra
Milano
e
Venezia.
La faticosa acquisizione di una fisionomia nettamente orientata
verso
la
modernità,
trovava
un
consapevole
sostegno
da
parte
della
politica
asburgica,
la
quale
in
effetti
“sorresse
l’irradiazione
dei
canali
della
modernità”,
attraverso
non
solo
le
opere
viarie,
come
è
stato
ricordato,
ma
anche
mediante
la
costruzione
di
altre
infrastrutture
quali
acquedotti
e
scuole
(sebbene
sempre
si
debba
misurarne
i
risultati
concreti,
o
distinguere
gli
intenti
dalle
effettive
realizzazioni,
come
hanno
insegnato
alcune
esperienze
relative
alle
costruzioni
ferroviarie.
Sfortunatamente per gli austriaci il livello di percezione,
nella
società
lombardo-veneta,
delle
realizzazioni
positive
operate
era
estremamente
scarso
(anche
in
conseguenza
della
profittabilità
non
immediata
degli
investimenti
effettuati
nelle
infrastrutture).
Con
ciò
si
ripropone
il
tema,
introdotto
in
apertura
di
queste
riflessioni,
del
sostanziale
deficit
di
consenso
alla
politica
austriaca
(ma
forse
dovremmo
scrivere,
alla
dominazione
austriaca).
Sotto
questo
profilo
il
“48”
rappresentò
la
prima
grande
“spallata”
al
potere
dell’”aquila
bicipite”.
La
successiva
fase
neo-assolutistica
(che
prese
avvio
dopo
la
sconfitta
delle
rivoluzioni
nazionali)
si
sarebbe
ormai
esclusivamente
basata
sull’uso
della
forza,
assicurata
da
un
opprimente
regime
poliziesco.
La storia del Lombardo-Veneto volgeva ormai verso l’epilogo.
Anche
se,
al
principio
degli
anni
50,
ciò
costituiva
ancora
una
aspirazione
per
i
movimenti
patriottici,
e
l’esito
della
lotta
che
si
andava
riprendendo
era
sommamente
incerto,
il
distacco
con
il
quale
possiamo
ripensare
oggi
a
quell’epoca
ci
consente
di
individuare
proprio
in
quegli
anni
l’avvio
del
suo
inesorabile
declino.
Laddove
era
maturata
la
sconfitta
militare
dei
patrioti,
si
erano
ormai
gettate
le
basi
per
una
più
robusta
formazione
della
coscienza
nazionale,
mentre
il
dissenso
antiaustriaco
si
irradiava
sempre
più
anche
verso
i
ceti
popolari.
La “seconda Restaurazione” nel Lombardo-Veneto ci appare
quindi
come
un
drammatico
“colpo
di
coda”
di
un
regime
che
pure
aveva
saputo,
in
passato,
fornire
di
sé
una
immagine
non
priva
di
una
sua
dignità,
soprattutto
nel
modo
in
cui
si
cercò
di
misurarsi
con
i
problemi
della
società
italiana,
mai
trattata,
è
doveroso
riconoscerlo,
come
una
colonia;
bensì
come
una
realtà
complessa
e
niente
affatto
omologabile
alle
terre
della
Corona
asburgica.
Ma
proprio
qui
(lo
abbiamo
visto)
va
colta
la
prima
causa
dell’inadeguatezza
del
sistema
asburgico,
alla
quale
in
verità
non
si
riuscì
mai
a
porre
rimedio.
Riferimenti
bibliografici:
C.
Magris,
“Il
mito
asburgico
nella
letteratura
austriaca
moderna”,Torino,1963,
poi
1996.
M.
Meriggi,
,
“Funzionari
e
carriere
nella
Lombardia
della
Restaurazione
(1816-1848),
in
“Dagli
stati
preunitari
d’antico
regime
all’unificazione”,
a
cura
di
M.Raponi,
Bologna,1981.
L.
Antonielli,
“I
prefetti
dell’Italia
napoleonica”,
Bologna,
1983,
F.
Della
Peruta,
“Conservatori,
liberali
e
democratici
nel
Risorgimento
(Mazzini,
Kossuth
e le
relazioni
tra
Italia
e
Ungheria
nel
Risorgimento”),
Milano,
1989