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N. 133 - Gennaio 2019 (CLXIV)

suI GOVERNI DEL REGNO D’ITALIA

 parte III - L’ETÀ GIOLITTIANA

di Raffaele Pisani

 

L’Ottocento politico-sociale italiano si era concluso in modo tragico e l’inizio del nuovo secolo sembrava non promettere nulla di buono. È il caso di richiamare brevemente i gravi fatti del Novantotto, culminati con l’eccidio di Milano, quando le truppe comandate dal generale Bava Beccaris spararono ed anche cannoneggiarono la folla.

Il governo Pelloux, succeduto a Rudinì, cercò di imprimere una svolta ancor più reazionaria che colpì in primo luogo i lavoratori, perlopiù gravitanti intorno al partito socialista, ma intervenne pure per limitare le libertà di associazione e di espressione, care alla tradizione liberale. Sappiamo che nel braccio di ferro tra governo e parlamento, che paventava il pericolo di essere esautorato dalle sue funzioni, fu quest’ultimo ad avere alla fine partita vinta.

Con il governo Saracco, quando la crisi si poteva dire oramai superata, avvenne il regicidio: Umberto I fu ucciso a Monza nel luglio del 1900; si temeva una recrudescenza dei contrasti appena superati, invece le cose andarono diversamente e si aprì un periodo di relativa tranquillità sociale, accompagnato da un notevole sviluppo economico ed anche civile.

Quella che comunemente viene definita Età giolittiana non coincide in toto con il tempo della permanenza di Giolitti alla presidenza del consiglio, egli infatti anche da altre posizioni influì fortemente sulla vita politica italiana dall’inizio del Novecento alle soglie del primo conflitto mondiale. D’altra parte i governi da lui presieduti nel 1892-1893 e nel 1920-1921, non fanno chiaramente parte del periodo che stiamo trattando.

In nuovo re, Vittorio Emanuele III, ebbe un atteggiamento di apertura nei confronti delle forze progressiste che si espresse nella scelta di Giuseppe Zanardelli, leader della sinistra liberale, come capo del governo, nel quale Giovanni Giolitti guidò il ministero degli Interni. Anche se sarà solo dal 1903 che guiderà direttamente l’esecutivo del Regno, la sua influenza era già chiaramente determinata.

Nel decennio o poco più del suo governo, interrotto nel 1905-1906 (Tittoni, Fortis e Sonnino) e nel 1909-1911 (Sonnino, Luzzati), operò con indubbia perizia e, pur non avendo una solida base elettorale, poté attuare il suo disegno di ampio raggio. I mezzi che usò sono stati talvolta duramente criticati, ministro della malavita secondo Gaetano Salvemini, che in seguito attenuò il suo giudizio; è indubbio comunque che tale periodo vide dei grandi passi in avanti per la società italiana.

Favorire lo sviluppo del capitalismo industriale, nel quale l’iniziativa privata doveva essere accompagnata da un deciso intervento statale, e inserire il movimento operaio nel sistema politico sono in linea di massima le coordinate del suo programma, che troverà applicazione in tutta quella serie d’iniziative che lo vedranno protagonista.

La situazione mondiale vedeva una ripresa economica dal 1896 al 1907 a cui seguiva un breve periodo di crisi per poi proseguire nella crescita, sia pure in tono minore, fino al 1913.

Il periodo giolittiano coincise quindi con questa favorevole congiuntura internazionale, che lo statista piemontese seppe ben utilizzare per un ammodernamento dell’Italia. Per poter attuare il suo disegno dovette appoggiarsi a forze eterogenee temporaneamente interessate a fornire il loro appoggio, sia all’interno del parlamento che fuori. Gli si rimprovera di aver usato abusi e violenze al fine di orientare il voto nel Mezzogiorno, non facendosi scrupolo di utilizzare allo scopo gli apparati dello Stato e financo elementi della malavita.

I problemi sociali e in particolare quelli del lavoro (orario e tutele varie) caratterizzarono l’attività legislativa dei primi tre anni del Novecento, con il governo comunemente definito: Zanardelli-Giolitti. A seguire, in continuità di programma con Giolitti capo del governo, si procedette alla nazionalizzazione delle ferrovie e alla gestione statale della rete telefonica. Furono inoltre disposti degli interventi speciali in favore di alcuni territori del Mezzogiorno e vennero intraprese importanti opere pubbliche, dal traforo del Sempione all’acquedotto pugliese.

La fiducia nella solidità dello sviluppo della nazione portò Giolitti a ridurre, dal 5% al 3,75%, il tasso d’interesse sulla rendita nazionale, fu una mossa vincente che da un lato portò immediati benefici al bilancio dello Stato e d’altro canto non provocò la temuta richiesta massiva delle somme sottoscritte da parte dei risparmiatori. Era il momento in cui la lira godeva della fiducia dei mercati interni e internazionali e veniva preferita all’oro, faceva come si dice: aggio su l’oro.

Gli anni 1907-8 furono invece caratterizzati da una serie di fattori negativi: una congiuntura internazionale di crisi, aggravata per quanto riguarda l’Italia da una terribile carestia e dal terremoto di Messina. Dal 1909 al 1911 si susseguirono nei due brevi governi Sonnino e Luzzati, che cercarono di gestire la criticità del momento.

Il ritorno di Giolitti segnò la seconda fase delle grandi riforme: l’avocazione delle scuole elementari allo Stato (1911) e il monopolio statale delle assicurazioni (1912). Ancor più rilevante, sempre nel 1912 fu l’approvazione della legge elettorale che prevedeva il suffragio universale maschile e faceva passare il numero degli aventi diritto al voto da tre milioni e mezzo a otto milioni.

In politica estera l’azione di Giolitti portò ad una avvicinamento a Francia e Inghilterra, senza rinnegare i legami con la Triplice Alleanza che vedevano ancora l’Italia legata alla Germania e all’Impero asburgico. La ripresa di una politica coloniale dopo la disfatta di Adua (1896), questa volta l’obiettivo era la Libia, vedeva concordi i grandi gruppi finanziari, i nazionalisti che inneggiavano ad un’Italia potente degna erede dell’Impero Romano, ma anche certi cattolici che vedevano nell’espansione in Africa una sorta di nuova crociata in difesa del cristianesimo.

Nel campo socialista, accanto ai turatiani, decisamente contrari ad una guerra coloniale, ci furono alcuni illustri esponenti come Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi e Arturo Labriola, che vedevano nella conquista libica uno sbocco per l’emigrazione dei lavoratori.

Giova ricordare che il flusso migratorio verso il Nord-Europa e verso le Americhe, già iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento, vide nei primi 13 anni del nuovo secolo un notevole incremento che farà parlare di Grande migrazione, tutto ciò, nonostante il notevole sviluppo industriale ed anche agricolo che si stava verificando. La disomogeneità che lo caratterizzava ebbe infatti come risultato un surplus di manodopera in vaste zone del Sud e pure del Nord-est, la conquista coloniale parve ad alcuni la soluzione di questo imbarazzante problema.

Per poter invadere i territori della Tripolitania e della Cirenaica era necessario l’assenso delle maggiori potenze europee, che già controllavano direttamente o comunque influenzavano vasti territori del Nord-Africa, in fondo un territorio italiano che separasse i domini inglesi da quelli francesi poteva essere funzionale ad un equilibrio nella zona.

Creato un pretesto per iniziare le ostilità, le truppe italiane sbarcarono sulla costa libica e occuparono abbastanza facilmente la zona litoranea (1911); la penetrazione all’interno si rivelò invece molto difficile, oltre che per l’impraticabilità del territorio, anche per la decisa ostilità delle popolazioni.

Allo scopo di accelerare la conquista, l’Italia mosse guerra all’Impero turco portando la flotta fino allo stretto dei Dardanelli e attaccando Rodi. La pace di Losanna (1912) riconobbe all’Italia la sovranità sulla Libia e consentì il controllo di Rodi e delle isole del Dodecaneso fino alla completa pacificazione delle terre riconosciute dal trattato.

La stagione giolittiana si avviava al suo epilogo. Le elezioni del 1913, le prime a suffragio universale maschile, si svolsero con il doppio turno di ballottaggio. La maggioranza ottenne un risultato molto rassicurante con l’elezione di 300 deputati, tale successo era in parte dovuto ad un accordo fra cattolici e liberali, nel senso che molti deputati nelle liste liberali si erano impegnati con gli elettori cattolici di portare avanti le loro istanze, una volta eletti con l’apporto determinante dei loro voti.

È quello che va sotto il nome di Patto Gentiloni, dal nome del presidente dell’Unione elettorale cattolica: il conte Ottorino Gentiloni. L’ala radicale che era rimasta all’oscuro di questo accodo, quando venne a saperlo, proprio da Gentiloni che poco prudentemente si espresse in proposito, gridò subito allo scandalo e la situazione divenne presto ingovernabile.

Giolitti nel maggio del 1914 rassegnò le proprie dimissioni, convinto forse di poter ritornare una volta che la situazione si fosse calmata, gli succedette Salandra; un mese dopo, l’attentato di Sarajevo farà piombare l’Europa e l’Italia stessa in una dimensione totalmente diversa.

Era finita l’Età giolittiana ed era finita pure la Belle époque.


Riferimenti bibliografici:

Candeloro G. La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Feltrinelli, Milano 1974.
D’Autilia G. L’età giolittiana, 1900 1915 Editori Riuniti 1998.
Salomone W. L’età giolittiana, La Nuova Italia, Firenze 1988.



 

 

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