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N. 130 - Ottobre 2018 (CLXI)

suI GOVERNI DEL REGNO D’ITALIA

Parte I - LA DESTRA STORICA

di Raffaele Pisani

 

L’unificazione della penisola, peraltro incompleta, e la proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo del 1861, posero nuovi pressanti problemi ai governi del tempo; la morte prematura di Cavour, appena tre mesi più tardi, lasciò per così dire orfani governo e parlamento in un momento di difficile equilibrio tra la componente piemontese e quella dei nuovi territori da poco annessi.

 

Lo Statuto Albertino conferiva alla corona poteri molto ampi e l’espressione “Governi di Corte” stava a indicare questo stato di subordinazione del governo alla corona; d’altra parte, sappiamo che abbastanza presto verrà ad instaurarsi una prassi che renderà il parlamento sempre più protagonista della vita politica. Il primo ministro, che secondo le norme statutarie doveva rispondere al re, si mise sempre di più in sintonia con il parlamento. Questo, del resto, era già iniziato negli anni Cinquanta dell’Ottocento nel Regno di Sardegna, con d’Azeglio e soprattutto con Cavour, ma prenderà un andamento più deciso dopo il 1861.

 

La compagine degli uomini che diressero il paese nei primi quindici anni è stata definita Destra Storica, per distinguerla da quella reazionaria che non accettava il nuovo Stato; l’onestà e il rigore che hanno caratteriozzato questo periodo, sono riconosciuti e additati come esempio di buona amministrazione.

 

Il nuovo Regno si trovò a dover affrontare molti problemi per gestire un territorio disomogeneo dal punto di vista economico, sociale e culturale; le parlate regionali erano talmente diverse tra di loro che era impossibile capirsi, lo stesso sovrano non usava abitualmente l’italiano. Nei pochi mesi in cui Cavour era stato primo ministro del Regno d’Italia, venne discussa la questione del decentramento amministrativo proposta da Minghetti, ma il timore che le tendenze particolaristiche potessero minare l’unità dello Stato portò invece verso la soluzione centralista.

 

L’unificazione monetaria, l’estensione della legge elettorale, a suffragio molto ristretto, e del sistema scolastico a tutto il territorio nazionale ne sono un esempio; anche la nomina regia del sindaco, che presiede un consiglio comunale eletto localmente, e la figura del prefetto, che incarna il potere esecutivo nelle singole realtà provinciali, sono chiari esempi di una scelta centralistica.

 

Per quanto riguarda i rapporti internazionali, il nuovo Stato fu subito riconosciuto dall’Inghilterra, seguita ben presto dalla Svizzera e dagli Stati Uniti, nel giro di qualche anno anche le altre potenze europee fecero altrettanto, solo l’Austria e lo Stato Pontificio rifiutarono il riconoscimento. Uno dei problemi che la classe politica si trovò a dover affrontare fu quello del completamento dell’unificazione territoriale, mancavano infatti il Veneto, ancora austriaco, e il Lazio, che costituiva quello che rimaneva del dominio temporale della Chiesa.

 

Mentre si pensava di allargare i confini nazionali, ci si accorse ben presto che nelle terre del meridione appena conquistate l’autorità dello Stato era messa in discussione, o meglio, era contrastata con le armi.

 

La liberazione del Sud dal dominio borbonico non era servita a migliorare la precaria situazione delle popolazioni rurali, sottoposte ancora ad arcaici rapporti feudali, chi si aspettava una qualche riforma sociale rimase fortemente deluso. Anche la secolarizzazione dei beni degli enti ecclesiastici, che tolse loro la possibilità di continuare nell’azione di assistenza ai poveri, contribuì ad inasprire la situazione.

 

A questo nuovo Stato anticlericale, alleato della borghesia rurale, che imponeva nuove tasse e obbligava al servizio militare, si oppose una grande massa di scontenti che diede origine a quel fenomeno sbrigativamente definito come brigantaggio. Ad esso il governo rispose con una militarizzazione del territorio, gli effettivi impiegati raggiunsero in alcuni periodi il numero di 120.000. Ci furono scontri a fuoco, processi sommari e tante esecuzioni capitali. Se verso la metà degli anni Sessanta la fase militare si poteva dire conclusa, forme striscianti di ribellione continuarono e contribuirono a scavare un solco tra una parte della popolazione e il nuovo Stato.

 

Quanto al completamento dell’unificazione della penisola, l’obiettivo era comune alla destra come alla sinistra, mentre i modi con cui si pensava di conseguirlo divergevano: trattativa diplomatica o azione risoluta anche militare. Saranno comunque le situazioni internazionali a permettere la conquista del Veneto, con una parte del Friuli, e del Lazio.

 

Quella che viene abitualmente chiamata terza guerra d’indipendenza, del 1866, vide l’Italia alleata alla Prussia in funzione antiaustriaca. La volontà di imporsi, in primo luogo sugli Stati tedeschi e poi sull’intera Europa continentale, portò la Prussia a muovere guerra all’Impero asburgico e la partecipazione dell’Italia, che avrebbe costretto l’Austria a combattere su due fronti, era funzionale ai disegni prussiani.

 

È noto che le forze armate italiane dimostrarono tutti i loro limiti e subirono due cocenti sconfitte, ancora una volta a Custoza,il 24 giugno, ed anche nella battaglia navale di Lissa, un mese dopo; solo Garibaldi tenne alto il valore delle armi e sconfitti gli Austriaci a Bezzeca, sarebbe arrivato fino a Trento, se non avesse ricevuto l’ordine perentorio di fermarsi. Sappiamo che la situazione internazionale era tale da rendere opportuna questa rinuncia. La Prussia aveva sconfitto pesantemente l’esercito imperiale a Sadowa e aveva imposto le sue condizioni all’Austria, fra le quali vi era la cessione delle terre venete e in parte friulane all’Italia.

 

La questione romana era ancor più delicata, ai rapporti con gli altri stati che potevano opporsi ad un’iniziativa italiana di annessione si aggiungeva il problema del sentimento religioso della popolazione, gli Italiani si professavano cattolici per la quasi totalità e l’influenza del clero era molto forte e capillare. Un’azione militare contro il pontefice poteva risultare dannosa per la credibilità delle istituzioni, bisognava perciò trattare con il papa stesso ed offrigli delle garanzie sul fatto che egli potesse in piena libertà esercitare il suo magistero spirituale. I vari tentativi messi in atto dal governo italiano non sortirono effetto alcuno.

 

Dal punto di vista dei rapporti di forza per un’azione militare, è bene ricordare che la Francia di Napoleone III teneva una guarnigione a presidio di Roma. Venne tolta nel 1864, in cambio dell’impegno italiano di non invadere il territorio pontificio, con l’accordo denominato Convenzione di settembre. Quando però Garibaldi tentò un colpo di mano per prendere Roma, i Francesi inviarono un corpo di spedizione ben armato che sconfisse il gruppo di volontari garibaldini, scontro di Mentana 1867.

 

Il trasferimento della capitale, da Torino a Firenze (1865), significava per alcuni una rinuncia a Roma per altri una marcia di avvicinamento.

 

Ancora una volta sarà la situazione internazionale a determinare l’evento. La débacle della Francia nella guerra contro la Prussia e la caduta del Secondo Impero portarono il governo italiano a non sentirsi più vincolato dalla Convenzione di sei anni prima.

 

Un estremo tentativo di venire a un accordo con il pontefice non trovò risposta, d’altra parte anche la speranza di una mobilitazione del popolo romano per richiedere l’annessione all’Italia non ebbe luogo, fu così che si decise di intervenire militarmente e il 20 settembre del 1870 le truppe italiane, dopo qualche resistenza delle truppe pontificie, entrarono in Roma, accolte festosamente dalla popolazione, che pochi giorni dopo si esprimerà nel plebiscito a favore dell’annessione.

 

Il Vaticano, il Laterano e Castel Gandolfo furono risparmiati dell’occupazione e una successiva legge, detta delle Guarentigie, impegnò lo stato italiano a garantire una serie di prerogative di sovranità al piccolo territorio. Anche se il pontefice Pio IX non accettò questa iniziativa unilaterale, di fatto se ne servì e poté operare liberamente all’interno del Vaticano; questo comunque non impedì che i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa divenissero molto tesi.

 

Il non expedit, del 1874, faceva presente ai cattolici che non era opportuno che partecipassero alla vita politica e questo contribuì molto a staccare il paese reale da quello legale.

 

La questione economica era un problema cruciale, le guerre risorgimentali avevano inciso fortemente sul bilancio pubblico e l’economia della nuova Italia stentava a progredire, una buona parte della classe politica che governava il Paese propendeva per uno sviluppo soprattutto agricolo e per le industrie ad esso legate.

 

La legislazione liberista puntava alla commercializzazione interna ed internazionale dei prodotti agro-alimentari, ciò portò allo sviluppo dei trasporti, soprattutto ferroviari. Di questo nuovo corso di politica economica si avvantaggiarono alcuni settori, nel settentrione la zootecnia e la produzione serica, nel meridione le colture specializzate: agrumi, vite, ortaggi. I tentativi appena abbozzati di industrializzazione, specie al sud, risultarono fortemente penalizzati.

 

Verso la fine degli anni Sessanta sembrò che il pareggio del bilancio dovesse essere l’imperativo assoluto, esso avrebbe conferito allo stato unitario quella stabilità e quel prestigio internazionale necessario per poter entrare nel consesso delle grandi potenze europee. Il modo per raggiungerlo era quello di una severa politica fiscale, messa in atto dai ministri delle finanze Quintino Sella e, in maniera più prudente, da Marco Minghetti. Furono introdotte tante imposte, la più nota fu quella sul macinato, della quale ebbero a soffrirne soprattutto le classi più povere.

 

Nel 1875 il pareggio fu finalmente raggiunto, ma il malcontento generale e le nuove prospettive politiche determineranno l’anno successivo un passaggio fondamentale verso quei governi che verranno definiti della Sinistra Storica.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

ALLEGRETTI U., L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, in 150 anni dall’Unità d’Italia, a cura di Fulvio Salimbeni, Editrice Universitaria Udinese, Udine 2012.

BANTI A.M., Il Risorgimento italiano, Editori Laterza, Roma-Bari 2004.

BERSELLI A., Il governo della Destra. Italia legale e Italia reale dopo l’Unità, Bologna 1997. 



 

 

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