N. 76 - Aprile 2014
(CVII)
UN REGNO CHE È STATO GRANDE
RECENSIONE
di Massimo Manzo
Edito
nel
2012
da
Mondadori,
“Un
regno
che
è
stato
grande”
di
Gianni
Oliva
ripercorre
in
modo
agile
e
appassionante
le
vicende
del
regno
borbonico
di
Napoli
e
Sicilia,
svelando
un
pezzo
di
storia
relegato
ai
margini
della
storiografia
ufficiale.
Nel
contesto
spesso
fazioso
e
parziale
dei
saggi
che
negli
ultimi
tempi
hanno
trattato
l’argomento,
il
volume
di
Oliva
si
distingue
per
rigore
ed
equilibrio,
offrendo
al
lettore
una
visione
d’insieme
sintetica
ma
completa,
oltre
che
un
punto
di
partenza
prezioso,
per
approfondire
la
“storia
negata”
dei
centocinquant’anni
di
governo
borbonico
nel
mezzogiorno
d’Italia.
Lungi
dall’essere
il
periodo
di
dominazione
oppressiva
e
oscurantista
dipinto
dalla
retorica
risorgimentale,
l’epoca
borbonica
è
infatti
densa
di
avvenimenti
e di
conquiste
importanti,
la
cui
riscoperta
risulta
incredibilmente
interessante
per
comprendere
a
pieno
il
presente
travagliato
del
nostro
sud.
Dall’incoronazione
di
Carlo
I
nel
1734
fino
alle
soglie
dell’Unità
d’Italia,
il
regno
dei Borbone
di
Napoli
attraversa
un
percorso
tortuoso,
nel
corso
nel
quale
se
da
un
lato
riesce
a
raggiungere
importanti
progressi
intellettuali,
sociali
ed
economici,
dall’altro
spreca
opportunità
fondamentali
per
porsi
al
passo
coi
tempi,
perdendo
l’occasione
di
intercettare
i
fermenti
liberali
da
cui
scaturirà
l’unificazione
italiana.
I
protagonisti
della
dinastia
borbonica
hanno
un
ruolo
centrale
nella
contraddittoria
storia
del
regno.
Oliva
li
ritrae
con
grande
cura,
analizzando
il
loro
operato
di
governo
e
soffermandosi
su
aspetti
cruciali
della
loro
personalità,
che
spesso
hanno
influenzato
fortemente
l’agire
politico,
soprattutto
nei
momenti
più
complicati
della
storia
del
regno.
Tra
la
prima
metà
e la
fine
del
XVIII
secolo
Carlo
I e
suo
figlio
Ferdinando
sembrano
essere
l’incarnazione
migliore
dei
principi
dell’assolutismo
illuminato
diffuso
in
Europa
nel
‘700.
Carlo
in
particolare,
posto
a
capo
di
un
regno
“appena
nato”,
uscito
da
secoli
di
dominazione
spagnola,
lavora
alacremente
per
coinvolgere
nella
gestione
dello
Stato
un
ceto
di
intellettuali
borghesi,
espressione
di
una
nuova
elité
imbevuta
di
cultura
illuminista.
Sotto
la
sua
ala
protettrice,
Napoli
diventa,
insieme
a
Milano,
la
capitale
dell’illuminismo
italiano,
vero
e
proprio
laboratorio
di
ampie
riforme
politiche
per
mezzo
delle
quali
si
tenta
di
modernizzare
l’apparato
statale.
Fino
al
nel
1759,
data
dell’abdicazione,
gli
sforzi
di
Carlo
hanno
successo
e il
regno
si
avvia
sulla
strada
della
completa
autonomia.
La
politica
illuminata
di
Carlo
viene
continuata
nel
primo
trentennio
di
regno
dal
figlio
Ferdinando.
Sono
gli
anni
in
cui
intelletuali
come
Filangeri,
politici
come
Caracciolo,
artisti
come
Vanvitelli
rendono
Napoli
una
delle
più
cosmopolite
e
vivaci
città
italiane,
di
gran
lunga
più
avanzata
della
Torino
dei
Savoia.
Eppure
quell’anelito
riformista
che
aveva
pervaso
il
regno
subisce
una
prima
battuta
d’arresto
nel
frangente
turbolento
della
rivoluzione
francese.
Attaccato
in
modo
ossessivo
e
ottuso
all’idea
dell’assolutismo,
dopo
l’esperienza
della
repubblica
partenopea
e
del
regno
murattiano
Ferdinando
scatena
una
violentissima
repressione
antiliberale,
inaugurando
un
ventennio
di
cieco
conservatorismo.
Il
felice
connubio
tra
corona
e
intellettuali
si
spezza,
intaccando
quel
lento
progresso
faticosamente
intrapreso
dal
regno.
Nei
primi
decenni
del
XIX
secolo
la
storia
si
ripete.
Re
Ferdinando
II,
sovrano
giovane,
energico
e
capace,
è
deciso
a
rinnovare
la
macchina
statale,
ma i
suoi
tentativi
di
creare
un
regno
centralizzato
ed
efficiente
subiscono
una
battuta
di
arresto
nel
1848,
quando
il
ceto
liberale
richiede
a
gran
voce
una
svolta
costituzionale
e
l’abbandono
dell’ormai
superato
regime
assolutista.
Proprio
il
soffocamento
dei
moti
palermitani
del
’48
determina
la
rottura
definitiva
con
i
liberali
filounitari,
che
emigrano
in
massa
in
Piemonte,
nuovo
punto
di
riferimento
dell’intellighenzia
italiana.
I
successivi
venti
anni
ricalcano
quanto
era
già
successo
sotto
Ferdinando
I.
Il
sovrano
si
arrocca
su
posizioni
sempre
più
anacronistiche,
condannando
il
Paese
ad
un
graduale
e
ineluttabile
isolamento.
La
morte
del
“re
bomba”,
alla
vigilia
della
seconda
guerra
d’indipendenza,
consegna
il
regno
a
Francesco
II,
giustamente
definito
da
Oliva
“un
sovrano
ordinario
per
un
periodo
straordinario”.
Il
resto
è
noto:
la
rocambolesca
spedizione
garibaldina
pone
fine
all’esperienza
borbonica,
unificando
i
destini
del
mezzogiorno
a
quelli
della
neonata
nazione
italiana.
La
roboante
narrazione
unitaria
ha
da
quel
momento
cancellato
quei
centocinquanta anni,
ritornati
alla
ribalta
solo negli
ultimi
tempi
a
opera
di
discutibili movimenti
“neoborbonici”,
caratterizzati
“a
contrario”
dagli
identici
difetti
da
cui
era
affetta
la
propaganda
risorgimentale.
Volumi
come
quello
di
Oliva
contribuiscono
invece
a
creare
una
storiografia
matura,
in
grado
di
riscrivere
con
intelligenza
la
“storia
negata”
di
un
regno
che
è
stato
grande.