N. 22 - Marzo 2007
regimi
petrol-autocraticI
Le nuove vie del petrolio
di Leila
Tavi
Il mercato del petrolio oggi coinvolge sempre più
stati con una politica economica che prevede
interventi statali a protezione di interessi
nazionali.
Ciò vale per i “nuovi consumatori” di petrolio, ad
esempio la Cina, che per i nuovi esportatori di
petrolio, Iran, Kazakistan, Venezuela.
Tali paesi produttori di petrolio hanno recentemente
scoperto il sistema per utilizzare le loro strategiche
risorse petrolifere come efficace strumento di
politica estera.
Al sempre crescente fabbisogno di energia in paesi
emergenti, come Cina e India, si associa il fenomeno
dell’aumento dei consumi negli stessi paesi produttori
di petrolio. (Randy Kirk ; 2006)
Nel 2020 si prevede che il consumo di petrolio nei
paesi produttori passerà dal meno del 40% a più del
50%; l’economia occidentale subirà allora un duro
colpo.
Per l’Occidente, la cui economia è dipendete
dall’approvvigionamento di gas e petrolio dall’Asia
centrale, il Medio Oriente e la Russia,
l’alto livello di consumi nei paesi in via di sviluppo
rappresenta una vera e propria tragedia.
Al problema economico si unisce quello politico: le
maggiori riserve di greggio e gas sono concentrate in
pochi paesi, caratterizzati da una politica instabile
e ripetute violazioni dei diritti umani.
Le guerre a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del
XXI secolo hanno una motivazione economica e non
politica: il controllo delle ultime riserve di
petrolio a livello mondiale.
Diretti interessati sono gli Stati uniti d’America,
che da soli consumano un quarto della produzione di
petrolio mondiale, pur essendo uno dei paesi
produttori. Senza le forniture estere gli USA
sarebbero costretti a esaurire i propri giacimenti in
meno di otto anni.
In Medio Oriente gli interessi degli USA si scontrano
con i regimi islamici, il terrorismo
jihadista, le contrapposizioni tra sciiti
e sunniti, che gli Americani appoggiano o
fronteggiano a seconda che il governo da
destabilizzare è appoggiato da componenti sciite o
sunnite.
In Caucaso o in Asia centrale gli Americani
fronteggiano ormai apertamente i Russi cercando di
sottrarre tali aree strategiche per l’estrazione e il
trasporto di greggio alla forte influenza russa.
Meno contrastati a livello internazionale sono gli
investimenti americani nei giacimenti dell’Africa
occidentale, molto più vicini, meno pericolosi e
meno sfruttati di quelli in Medio Oriente per gli USA.
Ma nel delta del Niger gruppi locali organizzati di
ribelli operano sequestri e sabotaggi dei pozzi in
modo da finanziare con il petrolio la loro
rivoluzione.
In Sud America il Venezuela di Hugo Chávez ha
nazionalizzato l’industria petrolifera e cacciato i
grandi investitori stranieri.
Le infrastrutture globali dell’industria energetica
sono vulnerabili da due diverse prospettive: gli
attacchi terroristici e le nuove guerre.
Le nuove guerre internazionali sono guerre per il
petrolio e la guerra al terrorismo internazionale è
una guerra per le risorse.
Senza petrolio l’economia occidentale sarebbe senza
linfa vitale ed è prevedibile che la situazione
peggiorerà in maniera vertiginosa e in breve tempo a
causa del lento esaurirsi delle ultime riserve
disponibili.
Da più di cinque anni, dall’11 settembre 2001, 26
stati, i membri della NATO, sono in guerra contro un
nemico non convenzionale, che sfugge al controllo
delle intelligence nazionali e, secondo gli
Stati uniti, otterrebbe finanziamenti dagli stati
canaglia.
Il cosiddetto asse del male (axis of evil),
in continua evoluzione dal discorso di George W.
Bush del 29 gennaio 2002, è formato da Corea
del Nord, Cuba, Iran, Siria e
Venezuela, ovvero gli esponenti
dell’antiamericanismo per antonomasia, ed è tacciato
da parte degli USA di voler annientare le democrazie
occidentale per instaurare un sistema di controllo
dell’ordine mondiale basato sul dispotismo.
Il terrorismo internazionale potrebbe essere,
nell’ottica di sopravvivenza dei governi occidentali,
l’attenuante per poter attaccare obiettivi che, senza
la giustificazione della lotta al terrorismo, non
sarebbe possibile attaccare militarmente senza
infrangere il diritto internazionale.
Il terrorismo internazionale è l’escamotage con
cui l’Occidente ha evitato uno scontro di civiltà; è
la scusa dietro quale si cela il vero interesse
internazionale: la guerra per il petrolio.
Perché il terrorismo islamico ha fino ad ora fallito
gli attacchi alle infrastrutture per l’estrazione, la
raffinazione e l’estrazione del petrolio?
Eppure le vie del petrolio sarebbero facilmente
attaccabili e con conseguenze catastrofiche per
l’umanità e l’ambiente.
Finora, invece, i tentativi di sabotaggio da parte del
fantomatico terrorismo jihadista non hanno
creato che lievi danni al mercato internazionale del
petrolio, come il mancato attentato del 24 febbraio
2006 alla raffineria Abqaiq, vicino al Golfo
di Bahrain, in Arabia Saudita. Perché?
La metà delle riserve dell’Arabia Saudita si trovano a
Ghawar e Safaniya; ogni giorno ad Abqaiq
l’equivalente di 7,5 milioni di barili raggiungono il
porto di Yambu, sul Mar rosso, da est a ovest,
attraverso un oleodotto chiamato Petroline di
750 miglia.
Nel complesso di Abqaiq transitano i due terzi del
petrolio saudita destinato all’esportazione, pari al
10% del fabbisogno mondiale.
Un altro oleodotto parte da
Shadqam per raggiungere il porto di Yambu,
dove sono imbarcate le forniture per l’Oriente
attraverso lo stretto di Bab al-Mandab,
controllato dallo Yemen, una via alternativa e
più rapida rispetto a quella che parte dal porto di
Ras Tanura (Ra’s Tannūrah) nell’Arabia Saudita.
Il complesso di Ras Tanura, nel Golfo persico, è il
porto più grande al mondo per il trasporto di greggio,
insieme al terminal di Ras al-Ju’aymah.
L’Arabia Saudita produce da sola il 12,6% del
fabbisogno mondiale, pari a 10.500.000 barili al
giorno, seguita da Russia con 8.500.000, USA e Iran
con 8.000.000, Messico 4.250.000, Cina 3.700.000 e
Norvegia, 3.300.000.
“The legitimacy of the Saudi state is based on two
pillars: Islam and oil.”
(Mai Yamani ; 2006), e la dipendenza degli USA dal
petrolio saudita garantisce il sostegno Americano al
regime saudita.
Finché i Sauditi continueranno a estrarre petrolio e a
dichiarasi, almeno ufficialmente, dalla parte degli
Stati uniti nella guerra al terrore Washington
continuerà ad appoggiare l’attuale dirigenza saudita.
All’interno del territorio saudita vi sono in questo
senso grosse contraddizioni tra i finanziamenti
elargiti dai petrolieri al fatwas e la lotta
tra sciiti e sunniti che, nel caso di un disastro
finanziario causato dal possibile attentato alle
strutture del petrolio, potrebbe portare il paese a
una guerra civile con conseguenze negative anche sui
mercati finanziari internazionali.
Riuscire a penetrare nel cuore del nemico con
l’attacco al World Trade Center e fallire un
target a portata di mano come Abqaiq.
Perché i jihadisti non puntano alla via più
breve per mettere a terra i governi neocolonialisti?
Non è strano? Solo attraverso lo stretto di Malacca,
tra l’Indonesia e la Malesia, il punto
in cui si può passare dall’Oceano pacifico a quello
indiano nel più breve tempo, passa il 20% del traffico
marittimo mondiale, con una media di 130 navi al
giorno.
Un black out dello stretto rappresenterebbe uno
shock per i mercati mondiali di gran lunga superiore a
quello che è stato il venerdì nero del 1929 e
metterebbe in ginocchio le economie dell’Asia
orientale; infatti, Cina e Giappone ricevono i tre
quarti delle loro importazioni di petrolio attraverso
la via che passa per Malacca.
Da anni l’unico grave problema legato al traffico
marittimo dello stretto è la pirateria, che non ha
nessuna connotazione ideologica e, per il momento, i
legami tra la pirateria marittima e il
terrorismo di matrice islamica sono solo potenziali.
Secondo l’International Maritime Bureau (IMB) a
largo dell’Indonesia si registra una media di 150
assalti dei 300 su sfera mondiale, di cui 36 solo
sulla via di Malacca e 91 nel Mar di Flores, a
largo dell’Indonesia.
Il canale di Suez è un obiettivo ancora più
vulnerabile; sarebbe sufficiente affondare una nave
per mettere in crisi un sistema di trasporto via mare
di 1,3 milioni di barili al giorno, distruggere con
una sola mossa l’economia dell’Egitto e
innescare un meccanismo di instabilità politica nel
paese.
Un altro bersaglio alla portata dei terroristi
potrebbe essere lo stretto di Hormuz,
controllato dall’Iran, con un traffico quotidiano di
17 milioni di barili.
I tre snodi strategici qui menzionati sono
soprannominati i chokepoint del traffico
marittimo internazionale di petrolio; stretti e canali
angusti a sufficienza per essere bloccati e
vulnerabili al terrorismo.
I tentativi di attacco da parte di terroristi a
infrastrutture legate alla produzione di petrolio si
sono limitati, però, solo a quattro isolati episodi:
quello del maggio 2002, quando un meccanismo esplosivo
inserito in un telefono cellulare ha fatto esplodere
un camion davanti a un deposito di petrolio e gas a
nord di Tel Aviv senza gravi conseguenze;
quello del 6 ottobre 2002, quando un’esplosione dolosa
ha danneggiato la petroliera Limburg a largo
della costa yemenita; quello del maggio 2004 alla
filiale di Yanbu di una società americana
petrolifera, l’ABB Lummus, e quello già
menzionato del 2006 ad Abqaiq.
All’inizio di febbraio un messaggio di al Qaida,
pubblicato sul sito Sawt al-Jihad, la voce
della jihad, consultabile di nuovo dal 2007
(www.sawtaljihad.org), ha minacciato di sabotare le
infrastrutture per il trasporto di petrolio dal Canada
agli Stati uniti.
Negli USA le forniture di petrolio rappresentano il
96% del traffico legato al trasporto di energia e sono
una componente cruciale per la distribuzione dei beni
di consumo, dal dentifricio alle palle da golf. (Gal
Luft ; 2003).
La maggior parte dei paesi produttori di petrolio è
concentrata nel Medio Oriente, un’area dove gli USA
non sono ben visti.
Il Department of Energy americano prevede che
la dipendenza dal petrolio mediorientale negli USA
potrebbe aumentare nei prossimi 13 anni dal 25% al
50%, ma i paesi arabi potrebbero decidere di voltare
definitivamente le spalle agli Americani, per
instaurare rapporti preferenziali con Cina e India.
L’accesso alle risorse energetiche rappresenta sin dai
tempi della rivoluzione industriale un nodo strategico
per il funzionamento dell’economia mondiale e,
all’inizio del XXI secolo, l’era del petrolio a buon
prezzo sta finendo, con conseguenze epocali per i
paesi industrializzati.
Nel prossimo numero analizzeremo i giacimenti
alternative al petrolio mediorientale che si trovano
in Caucaso e in Asia centrale e come la guerra
dell’Afghanistan si colloca nella lotta per il
controllo delle risorse energetiche nel mar Caspio.
Riferimenti bibliografici:
Kirk, R. (2006). "Explosive oil consumption growth in
the top oil exporting states.",
Energy Bulletin,
http://www.energybulletin.net/18475.html
Luft, G. (2003). "Terror's next target." The Journal
of international security affairs(dicembre 2003),
http://www.iags.org/n053004a.htm
MacLeod, I. (2007). "Canadian oil: target of terror."
Tavi, L. (2006). "La crisi energetica del XXI secolo.
Minaccia nucleare, ultimi giacimenti di petrolio e
utilizzo delle biomasse." InStoria II(9,
febbraio),
http://www.instoria.it/home/Crisi_energetica_XXI_secolo.htm
Yamani, M. (2006). Reform, security, and oil in Saudi
Arabia:
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